Documentazione. LavoroDistribuzioneRedditoSardegnaCheFare? Verso il Convegno sul Lavoro promosso dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria.
Welfare e crescita economica
20 Agosto 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
Roberto Ciccone, docente di Economia politica, in “Il welfare promuove la crescita economica” (MicroMega, n. 4/2017) mette in evidenza gli effetti positivi, per il sistema economico, di alcune “componenti fondamentali dell’organizzazione moderna del welfare State”, per contrastare la tesi di chi sostiene la necessità di riformare in “senso riduttivo” lo Stato sociale realizzato, al fine di rilanciare la crescita delle economie avanzate, sollevandole dal peso divenuto largamente insostenibile del suo finanziamento.
L’autore limita l’analisi a quei segmenti dello Stato sociale che si riferiscono alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, escludendo perciò le “politiche espressamente rivolte ai livelli di occupazione e alle condizioni di lavoro, le cui finalità – secondo Ciccone – possono farsi rientrare nel generale campo di interessi dello Stato moderno, al pari della giustizia e della difesa nazionale”.
Chi sostiene la necessità di una riforma riduttiva del welfare State rivolge le sue critiche, non alle tutele previste per le “fasce economicamente più deboli della popolazione”, ma a quei contenuti dello Stato sociale cosiddetti “universali”, estesi a tutta la popolazione, come la sanità e l’istruzione pubblica, o come il sistema pensionistico riservato alla popolazione lavoratrice in stato di quiescenza.
Sugli interventi in pro della popolazione economicamente più debole, “talvolta definiti Stato sociale minimo”, vi è, a parere di Ciccone, un ampio consenso, in considerazione del fatto che il loro mantenimento è “condizione di sopravvivenza” per chi ne fruisce. Gli interventi sui quali gli economisti divergono sono quelli “universali”, accessibili cioè all’intera popolazione. In ogni caso, precisa Ciccone, le proposte di revisione del welfare State, concernente i suoi contenuti universali (sanità, istruzione, pensioni), riguardano solo l’”entità delle prestazioni fornite […] e solo raramente il loro completo smantellamento”.
Una elemento comune a gran parte delle critiche che vengono rivolte al welfare State per i suoi contenuti universali è che gli oneri da esso riversati sul sistema economico “sarebbero diventati insostenibili”; il loro aumento sarebbe stato determinato da fenomeni che hanno investito la generalità dei Paesi economicamente avanzati, quali l’”aumento della quantità e qualità delle prestazioni del servizio sanitario, l’estensione degli anni di scolarizzazione obbligatoria, l’innalzamento della durata media della vita, e quindi del numero di pensioni che devono essere erogate nell’unità di tempo”. I maggiori oneri per il settore pubblico derivati da questi fenomeni avrebbero determinato, mediati dal “sistema fiscale e contributivo, un onere crescente sulla parte produttiva della società, imprese e lavoratori, con conseguenze negative per l’attività economica e la crescita”. La revisione del welfare State in senso riduttivo, perciò, sarebbe imposta dalla necessità di adeguare gli oneri gravanti sul sistema economico alle mutate circostanze che sottendono il funzionamento dei moderni Stati ad economia avanzata.
Ai fenomeni indicati, Ciccone aggiunge, quasi residualmente, l’accresciuta concorrenza sui mercati internazionali dei prodotti e la maggior facilità e rapidità di trasferimento dei capitali, generate dalla globalizzazione, sostenendo che “talvolta” questi ultimi fenomeni sono utilizzati dai critici dei contenuti universali del welfare State per un ulteriore sostegno della loro tesi; per i critici, infatti, come ricorda Ciccone, gli “oneri contributivi gravanti su imprese che operano in un Paese ad elevate prestazioni sociali nel comprometterebbero la capacità di ‘stare sul mercato’ o, più prosaicamente, costituirebbero incentivo a trasferire la produzione dove il capitale può ricevere una più elevata remunerazione”.
Strana questa valutazione riduttiva di Ciccone circa gli effetti della globalizzazione sulla capacita di tenuta dell’organizzazione del welfare State ad alte prestazioni sociali; in tal modo, egli sottovaluta che lo stare sul mercato internazionale è proprio una della cause, come sarà detto più avanti, che ostacola, nella prospettiva d’analisi adottata, la possibilità che il welfare possa essere utilizzato come “formidabile strumento della crescita economica, con essa della pace sociale”.
Per ammissione dello stesso Ciccone, la prospettiva dalla quale egli valuta le potenzialità positive del welfare State è “quella del ruolo con cui esso entra nella distribuzione del reddito tra capitale e lavoro”. Da quest’ultimo punto di vista, Ciccone sostiene che l’affermazione secondo cui gli effetti della sostenuta spesa sociale sarebbero oggi “prevalentemente negativi è propria di chi segue la teoria economica dominante, la teoria neoclassica”. La critica che egli formula contro questa affermazione è riconducibile, invece, all’impostazione teorica della distribuzione del reddito delle teoria classica, coniugata alla concezione keynesiana “del ruolo determinante della domanda per i livelli di produzione e occupazione”.
Il nucleo della teoria classica della distribuzione del prodotto sociale è – afferma Ciccone – “una spiegazione di natura storico-sociale dei salari reali”, concepiti come “panieri di beni” il cui contenuto è “determinato in primo luogo dalle circostanze che definiscono, nel dato stadio di sviluppo della società, i consumi irrinunciabili”, esprimenti il “minimo di sussistenza” necessario alla forza lavoro per la sua riproduzione; il minimo salariale irrinunciabile è integrato positivamente in funzione dei “fattori economici e istituzionali che nella fase storica considerata incidono sulla forza contrattuale dei lavoratori nei confronti della parte datoriale”, e quindi in funzione della capacità della forza lavoro di “ottenere un salario reale superiore” al minimo di sussistenza. In questa prospettiva, nella distribuzione del prodotto sociale, il salario si configura perciò come un “dato”, rispetto alla determinazione delle altre categorie di reddito.
Questa concezione del salario, a parere di Ciccone, consente di considerare il welfare State, per i servizi dei quali fruisce la forza lavoro, come parte integrante del paniere di beni che essa è “in grado di fare proprio. E cioè quale quota del loro salario reale”. In tal modo, il salario della forza lavoro “viene ad essere concepito come costituito dalla quota contrattata con il datore di lavoro e dalla quota costituita dagli istituti dello Stato sociale”. Secondo Ciccone, considerare il welfare come “salario sociale” aiuta meglio a vedere alcune sue importanti implicazioni, a vantaggio del capitale e della “pace sociale”.
Poiché il salario sociale erogato attraverso il welfare è finanziato mediante la leva fiscale, il suo costo è ripartito su “una platea di contribuenti” che trascende il numero delle imprese, dando così origine a un beneficio economico per il capitale. Inoltre, il fatto che il salario sociale sia erogato dallo Stato, la contrattazione del suo importo con la parte datoriale è sostituita da un processo politico meno antagonistico della contrattazione diretta, e perciò con reciproci vantaggi per la forza lavoro e i datori di lavoro, poiché il welfare State, in quanto forma di un processo politico-istituzionale, concorre ad attuare una “parte delle rivendicazione distributiva esercitata dai lavoratori”. Ma oltre a questi vantaggi, il salario sociale svolge – afferma Ciccone – “una strutturale forma di sostegno dell’economia capitalistica”, con particolare riguardo alla produzione e all’occupazione.
Con riferimento a questi ultimi aspetti, il salario sociale erogato dallo Stato concorre a sostenere l’espansione della domanda finale del sistema economico, propria di una redistribuzione del prodotto sociale a favore delle classi di reddito a più elevata propensione al consumo; poiché, quando il ciclo economico attraversa fasi congiunturalmente negative, il salario sociale non varia anche per quella parte delle forza lavoro che avesse perso la stabilità occupazionale, esso esercita un “effetto stabilizzatore di contrasto alla caduta di domanda aggregata e produzione complessiva nei periodi di depressione dell’attività economica”.
Sulla base della prospettiva teorica adottata, Ciccone passa a criticare la tesi di chi sostiene la necessità che per rilanciare la crescita del sistema economico occorra ridimensionare il welfare State, al fine di ridurre l’insostenibilità del suo costo. Se ciò avvenisse, verrebbero meno tutti gli effetti positivi connessi all’erogazione del salario sociale, quali il sostegno della domanda e dell’occupazione, ma verrebbe meno anche la valutazione del fatto che l’alternativa allo Stato sociale non sarebbe solo una minore ridistribuzione del prodotto sociale, ma anche possibili “trasformazioni istituzionali”, che potrebbero originare instabilità politica e il possibile smarrimento della regola democratica, strumentale alla stessa determinazione del salario sociale.
Inoltre, secondo Ciccone, la critica fondata sull’affermazione che la riduzione del welfare sarebbe “imposta dalla mobilità globale dei prodotti e del capitale”, oltre a non trovare sufficienti conferme sul piano empirico, non avrebbe alcun fondamento anche riguardo alla competitività dei prodotti e alla profittabilità del capitale. La supposta esistenza di conflittualità tra lo Stato sociale e la competitività e profittabilità, rispettivamente dei prodotti e del capitale, è messa in discussione dal fatto che, secondo alcuni autori, il salario sociale costituisce un “fattore di crescita della produttività del lavoro”; ciò perché tale salario e il suo incremento favoriscono, sia i cambiamenti sociali richiesti dal progresso tecnologico, sia il permanere di lunghi periodi di pace sociale, sia incrementi di domanda e di produttività dei fattori produttivi quando le imprese operano in regine di rendimenti di scala crescenti.
Anche le pensioni, come il salario sociale erogato a favore della forza lavoro attiva, esercitano una funzione benefica sulla crescita e sull’occupazione del sistema produttivo; analogamente al salario sociale corrisposto alla forza lavoro ancora attiva, pure le pensioni sono erogate, in parte in forma monetaria e in parte in forma di servizi dello Stato sociale. Diversamente però dai salari, nelle pensioni anche la componente monetaria diretta è erogata dallo Stato, per cui l’intero importo pensionistico è determinato dalle istituzioni del welfare State e la tutela della forza lavoro in quiescenza dipende totalmente dalla forza della loro rappresentanza politica.
Considerata la diversa composizione delle pensioni rispetto ai salari, mentre una riduzione delle prestazioni dello Stato sociale in pro della forza lavoro attiva “colpirebbe” solo il salario indiretto, nel caso delle pensioni sarebbero “colpite” entrambe le componenti: quella monetaria diretta e quella sociale. La ragione prevalente per cui si sostiene la necessità di una riduzione delle prestazioni pensionistiche è fondata sull’aumento della speranza di vita, la quale automaticamente determina un aumento del numero delle pensioni. In conseguenza di ciò, i critici sostengono che l’aumento dell’onere pensionistico, comporti innanzitutto la crescita dell’incidenza negativa delle prestazioni pensionistiche sul PIL e/o sul numero degli occupati; in aggiunta, però, esso genera anche un’eccedenza strutturale delle entrate sulle uscite del sistema previdenziale.
Poiché il prolungamento della speranza di vita non è comprimibile, il contenimento delle prestazioni pensionistiche può essere realizzato, o con un aumento delle aliquote contributive della forza lavoro ancora attiva, oppure con una riduzione delle prestazioni pensionistiche; in entrambi i casi, la conseguenza sarebbe un aumento dell’incidenza del welfare State sul PIL e, dunque, sul numero dei lavoratori occupati. Poiché – secondo Ciccone – è plausibile assumere che i livelli di produzione e occupazione dipendano dal livello della domanda finale, un aumento della spesa pensionistica si traduce “in un aumento della domanda per consumi, e in un conseguente aumento di produzione e occupazione”.
E’ però possibile che l’aumento dell’occupazione, indotto dall’accresciuto onere delle pensioni, possa risultare proporzionalmente inferiore all’aumento della spesa pubblica; se ciò dovesse accadere, per equilibrare le entrate previdenziali con le uscite occorre aumentare le aliquote contributive. L’aumento degli oneri contributivi, conclude Ciccone, si accompagnerebbe ad “un generale aumento dell’attività economica, e quindi anche del volume dei profitti”; è perciò del tutto ingiustificato, conclude Ciccone, l’assunto che un eventuale aumento di contribuzione risulti negativo per il sistema sociale, sia dal punto di vista economico, che da quello sociale.
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L’analisi di Ciccone è troppo ottimistica perché risulti credibile. Le ipotesi o le premesse sulle quali egli fonda tutto il suo discorso non trovano però riscontro nella realtà. Nei sistemi economici avanzati, a causa della loro integrazione nel mercato globale e della libertà con cui è possibile muovere internazionalmente i capitali, il problema che non si riesce contrastare è la disoccupazione strutturale irreversibile, indotta dalla necessità per le imprese di conservarsi competitive; fatto, questo, che porta le imprese stesse a sostituire nelle loro combinazioni produttive capitale in luogo della forza lavoro.
Può darsi che la proposta di Ciccone possa avere possibilità di successo in un sistema economico come quello italiano, dove, la dimensione delle imprese e i settori produttivi di eccellenza, rendono sensibile l’intero sistema produttivo a politiche sociali sul tipo di quelle che egli suggerisce. Nel lungo periodo, però, è plausibile prevedere che anche per l’Italia si debba affrontare un radicale cambiamento dell’organizzazione dello Stato sociale, in quanto del tutto inadeguato per contrastare la disoccupazione tecnologica irreversibile.
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