Dove andiamo?

rocca-16-17-2017
di Roberta Carlini, su Rocca

Una domenica di luglio, i giornali italiani ci hanno informati che stiamo meglio, molto meglio: il Pil è stato corretto al rialzo, addirittura tra due anni avremo recuperato le perdite dell’ultima crisi. Solo due giorni dopo è arrivata un’informazione di opposto tenore: siamo tra quelli peggio messi in Europa, per inattività e disoccupazione giovanile, per non parlare della povertà diffusa. Come le previsioni meteo che fanno infuriare gli albergatori, anche quelle dell’economia sono diventate ballerine e – agli occhi dei più – poco credibili. Una sensazione diffusa, che però invece di alimentare studio e senso critico nutre la grancassa del qualunquismo e del ripiegamento nel proprio interesse (o autodifesa) individuale.
Non aiutano a contrastare questa tendenza – anzi la ingrossano – i politici che dagli schermi tv o dai loro profili social sono sempre pronti ad agitare l’ultima statistica o previsione che torni utile in quel momento alla propria propaganda. Tanto più in questa stagione, caldissima non solo per il meteo, nella transizione dalla campagna elettorale referendaria a quella per le prossime politiche. Come fare, dunque, per recuperare un po’ di senso delle proporzioni e una misura, se non oggettiva, almeno realistica di quel che sta succedendo?

le previsioni della Banca d’Italia
Innanzitutto è bene andare alla fonte delle notizie. La frase del governatore della Banca d’Italia, in base al quale molti mezzi di informazione hanno felicemente annunciato che tra pochi mesi torneremo ai livelli pre-crisi, è stata scritta nel mezzo di molte pagine del Bollettino economico dell’istituto di via Nazionale, ed è certamente una delle più importanti, poiché quantifica le conseguenze della piccola revisione al rialzo delle previsioni di crescita per i prossimi mesi. Con molta cautela: l’intero Bollettino risulta, dal punto di vista letterario, faticosissimo dato che gli economisti della Banca d’Italia fanno un uso spropositato del condizionale, tanto per chiarire che l’odierna revisione potrebbe non essere confermata e in quel caso cadrebbero tutti i castelli di carte. Però, se tutto andasse come oggi si prevede, «nel 2019 il Pil recupererebbe interamente la caduta connessa con la crisi del debito sovrano, avviatasi nel 2011». Insomma: siamo passati da un tasso di crescita dell’ordine dello zero virgola qualcosa a un tasso dell’uno virgola qualcosa, e questo migliora un po’ la situazione. Ma attenzione, il periodo storico al quale il governatore fa riferimento è quello che va dal 2011 al 2019. In realtà la crisi economica è iniziata prima, anzi, come ama ripetere il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi, la nostra è stata una «doppia crisi»: quella arrivata dagli Usa dal 2008 al 2009, dalla quale si è avuto un lieve recupero nel biennio successivo; e quella terribile originata subito dopo in Europa con la crisi dei debiti sovrani, ossia il trasferimento di un problema nato nella finanza privata alla sfera della finanza pubblica, con le successive strette fiscali e creditizie e tutto quel che ne è seguito. E infatti il Bollettino della Banca d’Italia prosegue precisando che il Pil nel 2019 «rimarrebbe tuttavia ancora inferiore di circa il 3% al livello del 2007». Dunque il recupero riguarda i danni della seconda crisi, poiché per tornare ai livelli che avevamo prima del tracollo del 2008 dovremo aspettare «la prima metà del prossimo decennio» (questa la previsione contenuta in un altro documento importante della Banca d’Italia, la Relazione annuale che esce a fine maggio).
Non è da gufi, come direbbe qualcuno, sottolineare queste differenze, poiché ha a che vedere con la nostra realtà quotidiana: che somiglia a quella di uno scalatore che è stato buttato giù da una parete da una tempesta, poi ha recuperato un po’ di quota, per essere vittima di un’altra perturbazione e cadere di nuovo giù, e adesso ha in vista di nuovo il recupero della prima quota, ma è ancora lontano dal punto di partenza. Però stiamo parlando di un intero Paese, non di un individuo, con dentro realtà molto diverse, dal punto di vista territoriale, anagrafico, sociale. E dunque la cosa più importante è capire in che condizioni lo scalatore – l’intero Paese – sta adesso affrontando la sua montagna, cosa si porta dietro del carico di questi anni, cosa lo appesantisce e cosa gli dà carica. Da questa conoscenza possono poi derivare delle scelte politiche, o una discussione sul merito delle cose da fare più che sulla corsa ad attribuirsi il merito dei numeri «buoni» dell’economia e ad oscurare quelli «cattivi».

il famoso Pil
Tra i numeri buoni c’è quello che misura la crescita complessiva dell’economia, il famoso Pil. Ci dicono due cose: la ripresa c’è, ed è molto fragile. Non solo in termini quantitativi, essendo comunque al di sotto dei partner europei, per non parlare dei Paesi emergenti. Ma soprattutto in termini qualitativi. È sparsa in modo molto diseguale nel Paese, di fatto trainata da alcune aree con alta concentrazione di imprese che, negli anni della crisi, hanno ristrutturato e potenziato la loro presenza all’estero. Di mese in mese si conferma il buon momento delle esportazioni italiane, e dunque una bilancia commerciale in attivo. Nel loro libro Che cosa sa fare l’Italia (Laterza 2017) lo stesso Salvatore Rossi e l’economista Anna Giunta descrivono i cambiamenti profondi che hanno attraversato l’economia dopo la grande crisi, e anche le difficoltà e le criticità di tante imprese a ripensare «cosa sanno fare» per poter adattare il proprio «genius loci» alla nuova realtà tecnologica e produttiva internazionale. I casi di successo ci sono, e spesso sono concentrati per aree; ma non trainano tutto il resto, affondato in una arretratezza produttiva e infrastrutturale che viene da lontano (dove per infrastrutture non si intendono solo quelle fisiche tradizionali, come ponti e strade, ma anche quelle istituzionali e quelle più innovative). Invece di andare a farsi fotografare con questo o quell’imprenditore di successo – e spesso i più importanti sono sconosciuti, non hanno tempo di stare sempre in tv a pontificare – o promettere la riduzione delle loro tasse come panacea di tutti i mali, i politici in campagna elettorale dovrebbero tornare a studiarsi le economie territoriali e capire a quali di quelle infrastrutture possono dare sostegno e vita per allargare l’area dell’innovazione e dell’occupazione.
A fronte di una realtà della produzione industriale fatta a pelle di leopardo, dunque con forti disparità territoriali ma alcuni picchi sicuramente positivi, c’è poi il moloch del settore dei servizi a produtti- vità bassa e stagnante. Eppure è qui, dicono i numeri dell’Istat, che si concentra l’aumento dell’occupazione degli ultimi tempi: non stupisce che spesso siano lavori a termine, pagati poco, a bassa qualificazione. E anche su questo bisognerebbe incidere con politiche attive, cominciando a monte, nell’istruzione e nella qualificazione professionale, e a valle, nella regolazione e nella concorrenza dei servizi stessi, e non sperare che una mitica «ripresa» dell’industria traini tutto il resto.

diseguaglianze preoccupanti
In assenza di interventi, c’è il rischio che la flebile ripresa, se non sarà frenata dalle tempeste internazionali all’orizzonte, fini- sca per interessare solo una minima parte della nostra società e dunque apra altri grandi divari in un Paese già fortemente diseguale. L’indice di Gini, quello che misura a livello sintetico la diseguaglianza dei redditi, non è aumentato di molto negli ultimi anni, dopo il balzo che ebbe tra gli ’80 e i ’90. Ma sotto quell’indicatore medio si muovono altre diseguaglianze preoccupanti. In primo luogo, l’aumento della po- vertà assoluta, che interessa soprattutto le famiglie con figli piccoli. Parallelamente, cresce il gap generazionale, con gli anziani che, essendo stati più protetti dal welfare pensionistico, hanno mantenuto le posizioni mentre i più giovani perdevano in termini di reddito, consumi, occupazione.
Ma soprattutto, si è bloccata la mobilità sociale. L’Italia non è mai stato un Paese con forte mobilità da un ceto all’altro, il modello familistico di welfare e società ha sempre cementato la trasmissione delle fortune e delle sfortune da genitori a figli; ma comunque nei decenni passati molte porte si erano aperte, dalle grandi riforme degli anni ’60 e ’70 (a partire da quella della scuola media unificata) in poi. Adesso la protezione della famiglia è tornata ad essere più importante in tutti i passaggi cruciali, dalla scelta della scuola e del mestiere-professione, alla trasmissione della casa di eredità, alla rete di relazioni e contatti che aiuta l’ingresso nel mondo del lavoro, alla concentrazione del patrimonio, alla tutela in caso di eventi sfortunati, dalle malattie alla perdita del lavoro alla fine di un matrimonio. Siamo usciti dalla crisi con meno figli, e più dipendenti dai genitori. Una situazione non bella e non sopportabile per tutti: tant’è che molti ne sono usciti, e ne escono, espatriando. La ripresa dell’emigrazione dall’Italia è un altro dei lasciti della crisi che ha segnato i nostri ultimi anni. Sarebbe bene affrontarle uno per uno, queste ingombranti eredità, invece di contare su un inesistente nuovo miracolo economico per cancellarne le cicatrici.
Roberta Carlini
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2017
ECONOMIA
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rocca-16-17-2017

2 Responses to Dove andiamo?

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