DIBATTITO. LavoroCheFare? «Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà»
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » LAVORO
Il lavoro è un esercizio di libertà, reddito di base senza condizioni»
di ROBERTO CICCARELLI
Roberto Ceccarelli intervista Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, sul senso antropologico del lavoro, una merce sempre più disprezzata dal capitalismo. il manifesto, ripreso da eddyburg e da aladinews, 26 luglio 2017
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«Indagine Ue su occupazione e sviluppi sociali 2017. “Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà”»
Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, secondo l’indagine su occupazione e sviluppi sociali 2017 della Commissione Europea l’occupazione nel continente non è mai stata così alta dall’inizio della crisi.
A cosa è dovuta questa crescita?
«All’aumento dell’età pensionabile, del lavoro degli over 50, del part-time involontario e della precarietà. Il dato complessivo di 234 milioni di persone al lavoro va analizzato in dettaglio. Se guardiano i dati relativi alle unità di lavoro equivalenti, ovvero la quantità di lavoro richiesta dalle imprese, questa cresce a un saggio inferiore rispetto alla crescita degli addetti. Il che significa che la quantità di lavoro resta ancora stagnante, ma aumenta la quota dei precari a scapito dei posti fissi si ha un aumento delle persone occupate ma con un livello reddituale peggiorato. In pratica il lavoro stabile viene sostituito dal lavoro precario.
Mentre in Europa la quota dei Neet diminuisce, in Italia continuano a crescere. Come si spiega questa differenza?
«In Italia il numero dei Neet (Not Engaged Education Employenent Training) è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. In Italia la quota dei cosiddetti scoraggiati, cioè coloro che non fanno nessuna ricerca di lavoro nel periodo della rilevazione, e quindi non vengono contabilizzati nei disoccupati veri e propri, è di gran lunga superiore alla media europea. Teniamo presente che gli scoraggiati sono sopratutto giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio. Una recente ricerca del progetto europeo «Pie news-commonsfare.net» ha evidenziato che i giovani precari sotto i 25-26 anni non cercano effettivamente lavoro. Sono quelli che possiamo chiamare precari di seconda generazione che vivono di «lavoretti» nella «gig economy». Non vedono più nel lavoro la principale forma di realizzazione. Il loro è un rifiuto individuale del lavoro che non assume una dimensione collettiva.
Nel nostro paese si registra anche un aumento record del lavoro autonomo. Per tradizione, siamo sempre stati un paese con tante partite Iva. Oggi la partita Iva è un modo per sfuggire alla precarietà o di essere diversamente precari?
«In Italia la quota di lavoratori non subordinati, detti autonomi, è pari al 23%. Buona parte è composta da partita Iva, in parte sono lavoratori individuali per conto terzi che svolgono prevalentemente un lavoro eterodiretto che spesso è l’unica possibilità immediata per avere un minimo di reddito intermittente. Quest’ultima è una forma di precarietà che ha una storia strutturale nel nostro paese.
Cosa dire ai giovani che non avranno una pensione degna?
«Le riforme pensionistiche in Italia con il passaggio al sistema contributivo hanno risolto il problema della sostenibilità economica della spesa previdenziale, ma hanno innescato una bomba sociale. In presenza di elevata precarietà lavorativa, i contributi versati non permetteranno a molti di godere di un livello di pensione superiore alla povertà relativa. Saranno costretti a lavorare finché moriranno, oppure a sperare di morire prima di andare in pensione. Questo obbligherà, a partire dal 2030, quando il sistema contributivo andrà a regime, a un intervento di sostegno al reddito per coloro che si troveranno in una situazione di povertà.
Come si spiega il boom della povertà nel nostro paese, unico caso in Europa con Romania e Estonia?
«La povertà non riguarda più solo coloro che sono fuori dal mercato del lavoro: i disoccupati e i pensionati con basso reddito. Riguarda sempre più anche coloro che sono all’interno del mercato del lavoro. Questa è la quota di poveri che aumenta di più. Per l’Istat il dato preoccupante è quello degli «operai e assimilati» che hanno un rapporto di lavoro continuato. L’incidenza della povertà sfiora il 20%, uno su cinque, contro il 33% dei disoccupati. Ciò vuol dire che il lieve incremento occupazionale in corso si coniuga con l’ampliamento della «trappola della precarietà» i cui effetti sulla dinamica della domanda e della polarizzazione dei redditi sono ormai evidenti.
Basterà il reddito di inclusione contro la povertà voluto dal governo?
«Assolutamente no. Il reddito di inclusione, finanziato con 700 milioni che saliranno a 1 miliardo e 400 nel 2018 è sottoposto a tali vincoli di accesso da far sì che solo meno del 20 per cento delle famiglie in povertà assoluta potranno goderne.
Il governo promette di aumentare i fondi…
«È difficile che tale promessa possa essere mantenuta nei vincoli di bilancio se il governo decide in modo prioritario di spendere quasi 10 miliardi di euro per vari salvataggi bancari. Bankitalia stima che tale decisione farà aumentare dell’1 per cento il rapporto debito/Pil.
La commissaria Ue all’occupazione Thyssen sostiene che l’Europa è per il reddito minimo, ma lascia ai singoli paesi la possibilità di adottare il reddito di cittadinanza. Qual è la soluzione migliore?
«La discussione sulla scelta tra reddito minimo e di cittadinanza è malposta. Il vero discrimine non è l’universalità ma l’incondizionalità: un reddito dato senza nessuna contropartita. Sarebbe più utile erogare un reddito di base pari alla soglia di povertà relativa di 780 euro al mese partendo da coloro che si trovano al di sotto di questa soglia a livello individuale con un esborso di 15 miliardi netti annui più i 9 miliardi già stanziati per gli ammortizzatori sociali. Con l’accortezza di specificare che tale reddito dev’essere il più incondizionato possibile.
In Italia non c’è né l’uno, né l’altro…
«Nel nostro paese qualsiasi proposta di legge sul reddito minimo, o di base, dev’essere accompagnata da una proposta di salario minimo orario per i non contrattualizzati. Per evitare il rischio di un effetto sostituzione tra il salario e il reddito.
Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
«La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.
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Verso il Convegno sul Lavoro.
Su questo stesso argomento il precedente Editoriale di Gianfranco Sabattini
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Approfondimenti ulteriori.
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Luigi Ferrajoli: Reddito di cittadinanza, Il diritto universale alla vita
Intervista di Roberto Ciccarelli con il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli [giugno 2011]
Dopo la politiche neoliberiste attuate da governi conservatori e progressisti, la sinistra deve tornare a proporre soluzioni che impediscano la riduzione del lavoro a merce
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (il manifesto del 25 maggio) e [...] interverrà al meeting sull’«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l’uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un’indennità legata al non lavoro o alla povertà. L’ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
«Certamente il reddito costa, ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l’ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell’istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all’introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell’istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti».
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
«Dal prelievo fiscale, che tra l’altro dovrebbe essere riformato sulla base dell’articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde».
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
«Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un’innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale».
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
«No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall’articolo 3, ma addirittura nel secondo comma dell’articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l’articolo 34 della carta di Nizza, l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale».
La sinistra crede in questa prospettiva?
«No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l’unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l’impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l’eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell’autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso».
Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
«Esattamente l’opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un’attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d’altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all’estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l’unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?
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APPROFONDIMENTI
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