Migranti. L’integrazione è al lavoro
Laura Zanfrini, su L’Avvenire di giovedì 20 luglio 2017
Immigrati e rifugiati, il salto di qualità necessario. Gli stranieri possono essere presenza strategica per ridisegnare i sistemi di accompagnamento al lavoro e protezione sociale
L’integrazione è al lavoro
Già altre volte, su questo giornale [L'Avvenire], ho avuto modo di denunciare i limiti e i costi di un modello d’integrazione miope e angusto, sottolineando l’esigenza di un ‘salto di qualità’ capace di valorizzare il potenziale che l’immigrazione porta con sé. I caratteri di questo modello sono noti, ed efficacemente evocati dal luogo comune ‘gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare’. Senza sottovalutare le esigenze di ricambio demografico delle forze lavoro, ribadite in questi giorni dallo stesso presidente dell’Inps, è evidente che l’occupabilità degli immigrati – addirittura sorprendente, se si guarda ai numeri degli occupati, costantemente in crescita da molti anni – sia in buona misura da ascrivere alla loro elevata adattabilità, alla disponibilità a svolgere qualsiasi lavoro, fino ad accettare ‘regole d’ingaggio’ che rasentano lo schiavismo. Nell’ultimo quarto di secolo, il nostro mercato del lavoro ha conosciuto una trasformazione straordinaria e irreversibile, che l’ha reso sempre più distante dal mito dell’omogeneità etnica, culturale e religiosa.
Dapprima circoscritto ai comparti più etnicizzati, il lavoro immigrato è divenuto via via più consistente, al pari del suo contributo alla creazione del Pil, fino a inaugurare una nuova era: una diversity transition in cui la ‘diversità’ andrà opportunamente riconosciuta e valorizzata, così da massimizzarne l’impatto per lo sviluppo economico e gli equilibri dei sistemi di welfare. Al tempo stesso però, l’eredità di questa imponente trasformazione è una condizione di svantaggio strutturale di cui molti immigrati sono vittime, insieme ai loro figli. Le famiglie straniere si concentrano nelle fasce a reddito più basso, e sono decisamente sovra-rappresentate tra quelle in condizione di povertà relativa e assoluta, nonché tra quelle che dispongono di un solo reddito o sono addirittura prive di alcun reddito. Sono, ancora, proporzionalmente più numerose tra quelle che percepiscono sussidi di sostegno al reddito anche perché a seguito della recessione hanno patito un forte arretramento della condizione reddituale. Infine, complice una dinamica immigratoria continua e sostenuta, negli ultimi anni sono cresciuti tanto gli stranieri inattivi (un dato fisiologicamente associato al processo di stabilizzazione), quanto quelli disoccupati (con la crescita del differenziale negativo nel confronto con gli italiani).
A ben guardare, si tratta di dati del tutto coerenti coi tratti che contraddistinguono il lavoro immigrato in Italia: la concentrazione nei profili manuali e a più bassa qualificazione, la segregazione occupazionale nei settori e nei mestieri meno ambiti, lo svantaggio retributivo, la sovra-qualificazione diffusa, la forte contaminazione con l’economia sommersa. Un quadro che non solo contraddice quei principi di equità e di meritocrazia sui quali si fondano le democrazie europee, ma produce contraccolpi troppo a lungo sottovalutati da una retorica che ha preteso di fondare il diritto ad immigrare proprio sul bisogno di lavoro duttile e a buon mercato. Secondo la consapevolezza che ci consegnano i paesi con una più lunga esperienza d’immigrazione, se un tempo la discriminazione etnica e la condizione di svantaggio delle famiglie immigrate potevano essere liquidati come problemi ‘meramente’ di equità sociale, oggi se ne percepisce l’importanza non solo per la tenuta della coesione sociale, ma per la stessa competitività economica. Nello scenario demografico italiano ed europeo, la popolazione con un background migratorio è infatti divenuta una componente strutturale delle assottigliate fasce d’età più giovani e un fattore cruciale per i processi di turnover della popolazione attiva.
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L’eredità della trasformazione è una condizione di svantaggio strutturale di cui molti immigrati sono vittime, insieme ai loro figli
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La sostenibilità della società e dell’economia (e la stessa possibilità che gli immigrati ‘pagheranno le nostre pensioni’) si misura con la capacità d’accrescere tanto la partecipazione ai processi produttivi, quanto la produttività del lavoro, che a sua volta esige l’innalzamento della qualità complessiva dell’occupazione. In termini ancora più espliciti, il sotto-utilizzo del potenziale e delle capacità lavorative – degli autoctoni e degli immigrati – è un lusso che non potremo più permetterci. Alla luce di questa premessa, la disoccupazione che colpisce gli immigrati è particolarmente istruttiva in ordine a ciò – ovvero al molto – che resta da fare sul fronte delle politiche a sostegno dell’occupabilità e dell’attivazione. Quelle, ad esempio, rivolte alle donne con responsabilità familiari, che scontano ancor più delle italiane le difficoltà della conciliazione, a fronte di una domanda di lavoro che invece accentua le richieste di adattabilità. Ai più giovani, che sebbene abbiano tempi più rapidi di transizione al lavoro rispetto agli italiani – poiché escono prima dal sistema formativo -, incontrano poi maggiori difficoltà a stabilizzare la loro condizione occupazionale e sono più esposti al rischio di perdere il lavoro.
Ai lavoratori in età matura che, in un sistema che penalizza i percettori di basse retribuzioni, devono lavorare più a lungo per raggiungere una pensione dignitosa, dovendosi però confrontare con le discriminazioni che colpiscono i lavoratori ‘anziani’. Ai Neet, assai numerosi tra i giovani stranieri, specie tra le donne (quasi 1 su 2 tra le 1534enni immigrate), per le quali l’esclusione dal mercato del lavoro può significare l’esclusione dalla partecipazione sociale tout court. Le politiche, infine, rivolte ai rifugiati e richiedenti asilo, che costituiscono uno straordinario banco di prova della capacità di governance dei mercati del lavoro e della volontà inclusiva delle imprese. Costoro, più di tutti, riflettono le fondamentali esigenze che interpellano le politiche di sostegno all’occupabilità.
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Gli stranieri possono essere presenza strategica per ridisegnare i sistemi di accompagnamento al lavoro
e protezione sociale
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Vuoi perché più esposti al rischio d’instabilità lavorativa; vuoi perché protagonisti di biografie itineranti e composite, che spesso hanno comportato costosi adattamenti sul fronte degli affetti e delle responsabilità familiari; vuoi, ancora, perché aperti alla possibilità di riconversione e mobilità professionale, rappresentano una sorta di idealtipo del lavoratore contemporaneo, chiamato a costruire il proprio destino professionale, e a dargli un senso, ricolmando quelle cesure – tra socializzazione e lavoro, tra sfera della produzione e sfera della riproduzione, tra appartenenza locale e mercati globali – che così fortemente hanno permeato di sé la società moderna. In virtù degli svantaggi cumulativi che spesso li caratterizzano – ma anche delle loro risorse d’intraprendenza e duttilità – immigrati e rifugiati sono coloro che più decisamente sollecitano istituzioni, imprese e società civile a fornire risposte che permettano a ciascun individuo di convertire le proprie risorse personali – uniche e irripetibili – in effettive opportunità di vita e di lavoro. Sono proprio tali caratteristiche a renderli, inaspettatamente, una presenza strategica nel percorso di ridisegno dei sistemi di accompagnamento al lavoro e protezione sociale.
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Migrazioni: un’ipocrisia dopo l’altra
di Roberta Carlini, su Rocca
Ancor più che sulla Grecia, sull’indisciplina fiscale dei Paesi del Sud, sul deficit di rappresentanza democratica, sulla più grande crisi economica del dopoguerra, l’Unione europea oggi può naufragare sull’emergenza delle migrazioni. Ma i motivi del naufragio non sarebbero molto diversi da tutti quelli che hanno scosso le fondamenta dell’Unione negli ultimi anni: e hanno a che fare con la mancata cooperazione per problemi che possono risolversi solo con un approccio cooperativo. Da questo punto di vista, l’emergenza dei migranti-rifugiati e quella del debito greco o italiano non sono molto diverse: anche se le fragili istituzioni dell’Unione, sopravvissute ai terremoti economici e finanziari, rischiano stavolta di essere travolte.
il gioco di squadra che non c’è
Un piccolo passo indietro. Quando, qualche estate fa, esplose la crisi del debito greco, in molti dissero che sarebbe stato tutto sommato indolore per i Paesi europei farsi carico dei problemi di quel piccolo Paese, per tenere al riparo le banche degli altri (e anche i bilanci pubblici) dalle ripercussioni di quella crisi. Non lo si volle fare, e alla fine la Grecia e anche l’Europa pagarono un prezzo più alto, poiché si scelse una linea politica: quella di chi non vuole assolutamente far passare il principio per cui dietro il debito di ogni Paese c’è la garanzia o il possibile aiuto degli altri. Alla strada della cooperazione si è preferita quella della competizione – anche tra i governi che vanno a chiedere soldi al mercato – e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: i Paesi «forti» restano tali, quelli «deboli» non sono affatto al riparo del rischio dell’indisciplina fiscale e non sono comunque riusciti a risanare i propri conti né a far ripartire la crescita. A tutti converrebbe un «gioco di squadra», ma questo non c’è, poiché l’Europa non è una squadra e le sue istituzioni politiche sono piccole e debolissime rispetto allo spazio della moneta e del mercato.
l’urto dell’ondata migratoria
Questa situazione va tenuta presente, quando ci si chiede come mai la zona economica che comunque è la prima al mondo (o seconda, dipende dai criteri di valutazione) non riesce a reggere l’urto di un’ondata migratoria che è sì in aumento, ma è ancora molto al di sotto di quella che preme sui Paesi meno sviluppati. Il 90 per cento dei profughi nel mondo è collocato nei Paesi in via di sviluppo, solo il 10 per cento è giunto nella nostra parte del mondo, quella «sviluppata». Nel suo picco massimo, il 2015, l’Europa ha ricevuto 1.046.599 nuovi arrivi: su una popolazione di 743 milioni di persone, fa l’1,4 per mille. Ma quell’anno – possiamo ricordarlo bene, rivedendo le immagini che ci arrivavano dalla rotta balcanica e poi dalle stazioni di Vienna, Monaco, Berlino – il flusso fu soprattutto via terra e gli arrivi si diressero subito verso i Paesi centrali e nordici dell’Europa: quelli che restano comunque i più ambiti, sia da chi cerca lo status di rifugiato che da chi cerca «solo» lavoro e casa, perché c’è più lavoro, un welfare funzionante, spesso comunità di concittadini già insediate. Cosa è successo da allora? Il 18 marzo del 2016 l’Unione europea e la Turchia hanno firmato l’accordo che ha chiuso la rotta balcanica, e ricacciato tutti i migranti-rifugiati nei campi profughi di Erdogan. Per la Turchia, quella trattativa è valsa un compenso di 3 miliardi di euro. Per la Germania e satelliti, la chiusura dei confini. Per i Paesi del Mediterraneo, soprattutto Italia e Grecia, ha significato la ripresa dei flussi via mare.
emergenza Mediterraneo
Non è vero infatti che nel 2016 e 2017 è aumentata la pressione migratoria: i flussi sono in riduzione ovunque, tranne che sulle coste sud del Mediterraneo. Nel 2016 si sono avuti 362.753 arrivi via mare, e poco più di 25mila via terra. Nei primi mesi del 2017 gli arrivi dal mare sono stati 101.561, e quelli via terra solo 1.206 (dati Unhcr, aggiornati al 10 luglio). Sono saliti, di conseguenza, anche i morti in mare: 5.098 nel 2016, mentre siamo a 2.306 per questo primo scorcio del 2017. Nello stesso periodo, essendo cambiate le regole del soccorso degli Stati alle persone in mare, sono cresciuti anche i numeri di salvataggi effettuati dalle organizzazioni non governative, senza le cui navi nel Mediterraneo ci sarebbero molti più morti. Dunque, non esiste un’emergenza profughi europea, ma un’emergenza nel Mediterraneo e soprattutto verso l’Italia, originata dalle nuove regole europee; all’interno delle quali, l’Italia ha avuto qualche aiuto (molto inferiore al cachet pagato al dittatore turco): 558 milioni originariamente stanziati nei fondi europei, che saliranno di 35 milioni in virtù delle scarsissime concessioni fatte all’Italia nel fallimentare vertice di Tallinn. In più, l’Italia ha fatto «pesare» l’emergenza immigrazione anche nei complicati calcoli sulla flessibilità aggiuntiva nei conti pubblici, per calcolare quanto deficit può fare nelle sue manovre economiche: ma anche qui si tratta di pochi spiccioli, non certo risolutivi (né per gli immigrati né per la spesa pubblica).
Più che sbattere i pugni sul tavolo fuori tempo massimo, o cercare di spostare verso i politici europei il malcontento che si indirizza verso quelli autoctoni, sarebbe bene dunque cominciare a disvelare, una a una, le tante ipocrisie che si accumulano sulla questione dei migranti e dei rifugiati.
La prima ipocrisia è quella dei Paesi dell’Unione europea che hanno originato la crisi nel Mediterraneo, chiudendo con i soldi la rotta balcanica (e anche curandosi poco delle condizioni delle persone che, fuggendo da guerre e carestie, finiscono nei campi in Turchia), e adesso non vogliono occuparsene, considerandolo un problema italiano. Come se fosse una «colpa» dell’Italia – tra le tante reali che ha – quella di trovarsi piazzata come un terminal per traghetti in mezzo al Mediterraneo.
Ma è ipocrita anche la posizione del governo italiano che se la prende con gli altri Paesi per il rispetto di quegli accordi che lui stesso ha firmato, con la missione Triton. Tutti insieme poi si trovano nell’ipocrisia comune, quella di incolpare le organizzazioni non governative perché, soccorrendo i migranti in mare, incentiverebbero i nuovi arrivi: ma quanti morti in più potremmo tollerare ai nostri confini se non ci fosse il lavoro quotidiano delle Ong? E quanti morti di freddo o di caldo o di fame, se non ci fosse poi il volontariato sul territorio? Senza contare l’assistenza sanitaria e anche quella dell’educazione – i corsi di alfabetizzazione – totalmente nelle mani del volontariato, con scarsissima attivazione pubblica, se non in alcuni enti locali virtuosi.
per invertire la rotta
Sotto tutte queste ipocrisie, stiamo in realtà assistendo a una politica di respingimento subdolo, che non ottiene i suoi effetti – la gente continua a partire, dall’Africa subsahariana, dalla Siria, dal Bangladesh – e però costa moltissimo. Costa in termini di vite umane, e anche in termini economici: la gestione dell’emergenza è più onerosa, spesso aperta a infiltrazioni di corruzione (come si è mostrato in parecchi episodi di cronaca, dalla gestione dei centri di accoglienza a Mafia capitale), e politicamente spesso diventa insostenibile. E così assistiamo allo scaricabarile da parte di sindaci anche sedicenti progressisti, mentre una ordinata e ordinaria distribuzione dei profughi tra tutti i Comuni italiani renderebbe molto più facile gestire il loro arrivo. Per invertire la rotta e cercare di fare una politica più efficace, oltre che più umana, è necessario di certo che ciascuno riprenda il suo ruolo, e l’Unione europea accetti di gestire su scala comunitaria un problema che, di per sé, non conosce confini; ma anche che i politici italiani, a livello nazionale come del singolo Comune, non si coprano dietro l’inazione e l’ipocrisia europee, ossia non pensino di cancellare il problema addossandone interamente la colpa a qualcun altro.
Roberta Carlini
MIGRAZIONI
un’ipocrisia dopo l’altra
ROCCA 1 AGOSTO 2017
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