Oltre Keynes
La situazione economica mondiale analizzata in Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca n.12/2016) sollecita delle riflessioni da cui poter poi sviluppare delle proposte alternative che affrontino pienamente i suoi nodi.
Mentre la tendenza alla «stagnazione secolare» non devia affatto – in sintonia con l’imperversare del neoliberismo nelle scelte economiche di quasi tutti i governi del globo – molti aspetti della situazione ricordano il mondo che John M. Keynes si trovava davanti negli scorsi anni ’30: un mondo dominato dal liberismo e pertanto caratterizzato da un ruolo molto limitato della pubblica amministrazione (P.A.), e tanto più proprio nel campo economico, contrassegnato da frequenti e drammatiche crisi cicliche collegate soprattutto a delle fasi di sovrapproduzione, di riadattamento ai continui cambiamenti tecnologici e di debolezza creditizia e monetaria.
Keynes mise in luce come, specialmente nelle fasi di crisi, la P.A. potesse non solo regolare con più duttilità e acume il credito e la moneta, ma anche utilizzare la spesa per investimenti e servizi pubblici e la redistribuzione dei redditi dalle classi privilegiate a quelle economicamente in difficoltà come stimoli «anticiclici» che risollevassero l’andamento economico e la produzione, accrescendo l’indebolita domanda complessiva di beni e servizi. E prefigurò – per la prima metà del secolo attuale – il progressivo sviluppo di una società tecnicamente ed umanamente evoluta in cui si arrivasse a partecipare tutti alle attività economico-produttive non più di una quindicina di ore alla settimana, grazie anche ad una ben articolata distribuzione generale del lavoro: sviluppo che c’è effettivamente stato in senso tecnico, ma in quello umano, ahimè, no…
Come oggi, una parte degli imprenditori si schierò allora dalla parte delle politiche keynesiane (per motivi di sensibilità umana e/o di espansione aziendale), mentre un’altra parte ne combattè l’aspetto sociale (soprattutto per classismo e attaccamento ai propri privilegi). Per quanto riguarda i lavoratori e i loro movimenti, mentre queste politiche erano in piena sintonia con lo spirito del «socialismo scientifico» marx-engelsiano (che considerava fondamentale ogni modo di migliorare efficacemente la qualità della vita delle classi lavoratrici, come mostrano p. es. il programma socialista francese pubblicato su L’Égalité del 30 giugno 1880 e quello tedesco approvato a Erfurt nel 1891), nel corso del ’900 la sinistra riformista le accolse comunemente in modo molto ampio, ma sovente la sinistra rivoluzionaria di ispirazione leninista o stalinista le sdegnò o addirittura le contrastò perché rischiavano di far apprezzare troppo il capitalismo alle classi lavoratrici. Peraltro, Keynes stesso era stato in Russia nel 1925 e aveva poi espresso la sua simpatia per l’esperienza nata dalla rivoluzione d’ottobre, venendo anche ispirato nelle sue successive elaborazioni dai tentativi di coordinamento dell’economia là avviati in quegli anni (tentativi poi sostanzialmente non riusciti e infine sfociati nella rigida pianificazione staliniana). In pratica, i filoni di iniziative caldeggiati da Keynes – e poi aggiornati e approfonditi da molti altri, come i premi Nobel Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Muhammad Yunus – mantengono manifestamente tuttora la loro piena validità, ma la peculiarità delle circostanze contemporanee richiede anche ulteriori prospettive.
una politica corrotta e incompetente
Un primo fattore radicalmente cambiato rispetto a quegli anni ’30 è il fatto che nel frattempo, col proliferare di politiche keynesiane che si è registrato nel mondo a
partire dal New Deal rooseveltiano e che ha raggiunto un vero e proprio boom internazionale negli anni ’50 e ’60, in moltissimi paesi si è prodotta una casta di politici che sfruttando gli ampi bilanci pubblici tipici di tali politiche hanno sviluppato dei comportamenti sistematicamente inclini a corruzione, clientelismo, affarismo, sprechi, incompetenza, e via dicendo. Comportamenti del genere erodono profondamente non solo i bilanci pubblici e il rapporto tra cittadini e istituzioni, ma anche le politiche keynesiane stesse e la loro efficacia socioeconomica. Il diffuso affermarsi di questa casta e i suoi effetti nefasti hanno costituito il miglior argomento per i neoliberisti che si sono messi a rivendicare un ritorno a bilanci pubblici striminziti e a un ruolo della P.A. decisamente secondario, accompagnato da uno strapotere dei mercati. Negli anni ’80, l’amministrazione Reagan negli Usa e il governo Thatcher in Gran Bretagna hanno costituito la testa d’ariete delle politiche neoliberiste, poi affermatesi sempre più grazie anche al ruolo cruciale di istituzioni internazionali come Fmi, Wto, Banca Mondiale e negli ultimi anni anche Unione Europea.
Diversi paesi – specialmente in Scandinavia e dintorni – hanno mantenuto una relativa scarsità di corruzione, di incompetenza, ecc. soprattutto grazie a una sorta di «spirito civico» diffuso che porta i loro cittadini a negare drasticamente il loro voto ai politici e ai partiti che hanno dato segni di quelle «patologie amministrative». In questo modo sono riusciti a mantenere in piedi un efficace «Stato sociale», in sintonia con le logiche keynesiane, e ad evitare gran parte dei problemi socio-economici che invece affliggono sistematicamente i paesi in cui domina il neoliberismo o la corruttela. Tutto ciò è ben noto a economisti e politici, ma i vertici di quelle istituzioni internazionali eludono accuratamente il confronto pubblico su queste realtà di fatto e persistono nel loro inflessibile neoliberismo che è causa di diseguaglianze sociali sempre più drammatiche, di prolungate tendenze economiche recessive e indirettamente anche di pesanti forme di degrado ambientale.
In altre parole, quello che in un gran numero di paesi la popolazione sembra non aver ancora compreso chiaramente è che la lotta per la trasparenza amministrativa e contro le varie forme di corruzione e di in- capacità dei politici non è soltanto un’ovviamente giustificatissima rivendicazione di civiltà e di lotta agli sprechi, ma è anche la base stessa della possibilità di tenere in piedi nel tempo uno «Stato sociale» capace di agire con efficacia nel controbattere la povertà, le recessioni economiche, i dissesti ambientali, ecc.. Malgrado la sua grossolanità e il suo essere quanto mai controproducente, è una lacuna presente quasi ovunque da numerosi decenni nella cultura dei movimenti politici che si dicono vicini alle classi lavoratrici.
l’irrompere della globalizzazione
Un secondo fattore nuovo è la globalizzazione, cioè il costituirsi di una sorta di mercato unico mondiale a seguito di sviluppi tecnologici come l’informatica, la velocizzazione dei trasporti, ecc. Rispetto a 80 o 40 anni fa, le politiche keynesiane di tipo nazionale sono oggi tendenzialmente meno efficaci – e molto meno semplici da mettere a punto – in quanto la competitività delle aziende è molto più esposta a rischi di origine internazionale. Non a caso, per i lavoratori occupati di oggi la minaccia più massiccia è probabilmente costituita dalle delocalizzazioni, imperanti nel mondo attuale. Uno «Stato sociale» efficace dovrebbe dunque offrire alle aziende e ai lavoratori del proprio paese supporti, sostegni, reti di protezione e contesti normativi alquanto più complessi di quelli che potevano andar bene un tempo. La Scandinavia mostra una varietà di esempi di questa possibile evoluzione dello «Stato sociale».
Ma parallelamente ci dovrebbe essere anche un’evoluzione della cultura popolare verso il comprendere che in un tale mercato unico – in cui già da decenni le élite economiche agiscono palesemente senza alcun pregiudizio nazionale, etnico, religioso, ecc. – anche i lavoratori per potersi difendere hanno bisogno di giungere a ragionare senza tali pregiudizi, che li dividono in mille segmenti separati. Ciò finora non è minimamente avvenuto – a parte il breve exploit del «movimento di Seattle» 15- 20 anni fa, con la sua trasversalità Nord-Sud e le sue ampie e generalmente lucide proposte di regolamentazioni socio-ambientali internazionali – anche se la globalizzazione ha ormai un quarto di secolo. Questo enorme ritardo – tanto più nell’odierno mondo economicamente così interconnesso – nel cogliere il valore e il complesso significato umano, culturale, dialo- gico, sindacale e politico del proverbiale motto socialista «lavoratori di tutti i paesi, unitevi», dei diritti umani sanciti dalla «Dichiarazione universale» del 1948 e del senso di fratellanza mondiale promosso sia dall’umanesimo che dai messaggi originari di tutte le principali religioni è forse il fattore più nodale nella palese e persistente incapacità dei lavoratori di tutelare con efficacia i propri interessi nell’attuale economia globalizzata. Così, finisce con lo sfuggir loro anche l’evidente fatto che la scala più naturale per le politiche keynesiane oggi sarebbe quella mondiale, o per lo meno una ampiamente internazionale. La globalizzazione impostata in senso liberista ha anche consentito un tale arricchimento a certe élite economiche – legate soprattutto alle multinazionali, ad una serie di tecnologie avanzate, a risorse come il petrolio e alla finanza speculativa – che il loro attaccamento agli enormi privilegi che si sono procurate le ha trasformate in una sorta di cani rabbiosi che combatto- no in tutto il mondo ogni diffuso tentativo di giustizia sociale e di politiche keynesiane, sfruttando le proprie colossali ricchezze per «persuadere» a proprio vantaggio i politici (e a danno non solo dei lavoratori ma anche di molte aziende medie o piccole). Questa elitaria impostazione economica è anche un fertile terreno per spinte terroristiche e belliche che moltiplicano ulteriormente le sofferenze dei popoli e che, stimolando il militarismo, favoriscono una politica ancor più verticistica.
sostenibilità ecologica
Una terza questione-chiave è costituita dai diffusissimi dissesti ambientali che affliggono il pianeta in molti modi: inquinamento, anomalie climatiche, erosione dei terreni, desertificazione, scomparsa delle foreste, grave perdita di biodiversità, riduzione delle risorse naturali, ecc. Ciò fa sì che oggi siano indispensabili scelte e impegni internazionali per un’economia sostenibile che ai tempi di Keynes non erano forse nemmeno immaginabili.
Anche questa impellente problematica – finora affrontata dalla politica quasi solo a parole, dal momento che nonostante lo sfaccettatissimo sviluppo tecnico-scientifico si è occupata concretamente soltanto di alcune delle più clamorose forme di distruzione ambientale, non certo di impostare una generale sostenibilità – dovrebbe entrare con forza nelle iniziative di uno «Stato sociale» e nella consapevolezza della gente dell’intero mondo.
verso una sintesi
Mentre oggi la «crisi economica» viene continuamente sbandierata e usata per ridurre i diritti dei lavoratori, la salvaguardia dell’ambiente, i servizi pubblici, i fondi destinati alla sanità e alla scuola pubbliche, ecc. (inclusa anche la democrazia, come p. es. hanno cercato di fare i partiti del governo Renzi con la riforma costituzionale sonoramente bocciata nel referendum del 4 dicembre dopo esser stata definita come indispensabile persino da diverse agenzie internazionali di rating), quello che in realtà c’è dietro è che si tratta di un ristagno voluto dai maggiori centri di potere economico e politico proprio allo scopo di infinocchiarci con la scusa della «crisi» ed erodere appunto, col nostro sostanziale assenso, la qualità della nostra vita… Per poter prendere delle contromisure che riescano davvero a difendere tale qualità nei suoi aspetti sociali, ambientali, sanitari, istituzionali, ecc., occorrerebbe saper intervenire su tutte le principali dinamiche economiche e politiche. Ognuna di esse è infatti un tassello fondamentale che può contribuire in modo determinante alla dolorosa impotenza che, in quasi tutto il globo, affligge di fronte alle maggiori questioni socio-economiche i movimenti sindacali e alternativi.
Luca Benedini
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