CONTRO LA PRECARIETÀ. UNA POLITICA GLOBALE DEL LAVORO
UN’INTERVISTA DI GRANDE ATTUALITA’ AL GRANDE SOCIOLOGO LUCIANO GALLINO, SCOMPARSO DELL’OTTOBRE DEL 2015.
Sul sito www.benecomune.net, a cura di Fabio Cucculelli – 11/11/2015, viene ripubblicata un’intervista a Luciano Gallino, scomparso l’8 novembre 2015, apparsa su Formazione & Lavoro nel 2008. Nella circostanza vogliamo anche noi ricordare così uno dei più grandi sociologi italiani a cui spesso abbiamo fatto riferimento.
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1) Nel suo libro Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità lei afferma che ad un periodo di de-mercificazione del lavoro è seguito, e prosegue tuttora, un periodo di accentuata ri-mercificazione del medesimo. Ma tra la concezione del lavoro come merce e quella che ad essa si oppone ci sono delle differenze sostanziali. Ce le può illustrare? Come mai oggi sembra prevalere una concezione del lavoro come merce e non come dimensione integrante della vita?
Concepire il lavoro come una merce significa concepirlo come una attività separata dalla persona come avviene con qualunque oggetto. Se ci si avvicina invece all’altra concezione il lavoro è da considerare come una parte intima e connaturata alla persona, tale da non potere essere separata da questa. Nel primo caso quindi la forza lavoro viene concepita come una qualsiasi altro oggetto; nel secondo invece il lavoro è elemento integrale ed integrante della persona che lo presta, della sua identità, del senso di autostima, della sua vita familiare, della sua presenza nella comunità locale. Questo processo di mercificazione interessa anche la terra, cioè la natura e non solo il denaro o il lavoro. Si è venuta affermando a partire dagli anni ’30 una concezione del mercato, presente già nell’800, secondo cui la società deve servire al mercato e non viceversa, come sarebbe ragionevole.
Questa concezione che potremmo chiamare del “tutto mercato” ha avuto la meglio sia nelle imprese che nella politica di molti governi, così come nell’ambito delle teorie economiche. Si tratta di una idea che sta producendo disastri in molti ambiti della vita sociale. In particolare vorrei richiamare la crisi finanziaria e soprattutto quella alimentare che dilaga rapida come una pandemia all’aumentare del costo del cibo. In questi ultimi dodici mesi agli 850-900 milioni di affamati già presenti nel mondo, se ne sono aggiunti altri 100 milioni. E secondo le previsioni del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo per ogni punto percentuale in più sul costo del cibo, il numero degli affamati nel mondo salirà di 16 milioni. Di fronte a questa crisi, come ho osservato in un mio articolo apparso di recente su “La Repubblica”, i Paesi occidentali hanno la grossa responsabilità di aver distrutto, con le loro politiche agricole e i sussidi ai propri coltivatori, i sistemi agricoli regionali dei Paesi emergenti.
2) Come ben sa, le Acli qualche anno fa proposero alle forze sociali, politiche e sindacali un Manifesto sulla flessibilità sostenibile per aprire un dibattito nel Paese sulla possibilità di minimizzare i costi della flessibilità, di evitare cioè che diventi precarietà a vita cogliendo le opportunità da essa aperte. Oggi è ancora possibile perseguire questa strada?
Innanzitutto è necessario distinguere tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste nella possibilità, da parte dell’impresa, di far variare la quantità di forza lavoro utilizzata, ossia il numero di lavoratori a cui si paga in un dato momento un salario. Questo tipo di flessibilità si traduce prevalentemente in una variegata tipologia di contratti lavorativi, detti atipici, per distinguerli da quelli normali o tipici che hanno una durata indeterminata. In questa accezione di flessibilità rientrano dunque i contratti a temine, quelli a progetto, le collaborazioni coordinate, i contratti di lavoro in affitto, che possono variare dai due mesi fino a due-tre anni. Si tratta spesso di lavori che sono autonomi nella forma ma che poi di fatto sono dei veri e propri lavori alle dipendenze con una data di scadenza.
Il secondo tipo di flessibilità, quella della prestazione, si riferisce alla modulazione da parte delle imprese delle attività e dei tempi di lavoro. In questa accezione di flessibilità rientrano i lavori a turni, quelli distribuiti su 4-5 giorni, i lavori a chiamata. Le persone coinvolte in queste forme di flessibilità sono parecchi milioni e si tratta sia di lavoratori a tempo pieno che di atipici. Bisogna notare inoltre che la flessibilità della prestazione si cumula sovente con quella dell’occupazione e che tra queste due forme di flessibilità vi siano rapporti di scambio. Se si accetta la prima si rischia maggiormente di cadere sotto la seconda.
Entrambe queste due accezioni di flessibilità, ma soprattutto la prima, non sono sostenibili. Quella dell’occupazione non è sostenibile sia per il numero di persone coinvolte (oltre 5 milioni) sia per le condizioni di lavoro, che costringono molte persone a orari eccessivi, sia perché spesso riguarda l’economia sommersa, dominata dalla totale mancanza di sicurezza. La flessibilità della prestazione non è sostenibile, nel nostro paese, prima di tutto perché in genere viene imposta, compromettendo così la vita familiare e la vita di relazione in genere. Andrebbe sostituita con forme avanzate di flexitime, nelle quali le persone scelgono liberamente, secondo le loro esigenze, in quali ore del giorno, e in quali giorni, entrare o uscire dall’azienda, sulla base di un contratto a tempo indeterminato. In alcuni paesi scandinavi il flexitime ha dato risultati positivi per ambedue le parti.
Invece per molte persone il lavoro precario vuol dire 10-15 anni di contratti a termine che non diventano mai un’occupazione stabile. Gli effetti di questa precarietà sono evidenti. Comportano costi elevati per le famiglie, le comunità e le stesse imprese. Alcuni uomini politici e opinion leaders dipingono il mercato italiano come il più flessibile d’Europa tralasciando di notare che abbiamo i salari più bassi d’Europa e la più bassa produttività del continente. Credo che, con tutta evidenza, ci sia una correlazione tra questi tre fattori. Come diceva un grande imprenditore italiano come Adriano Olivetti, la produttività è legata anche alla capacità di investire nella formazione, alla professionalità presente in azienda. Chi, imprenditore o lavoratore che sia, ha un orizzonte di breve raggio non ha interesse né a formare né a formarsi.
3) Affrontare le cause della flessibilità piuttosto che curare gli effetti richiede, a suo avviso, un’azione decisa, quella che lei chiama “una politica del lavoro globale”. Quali misure il governo italiano e l’Unione europea possono adottare per rendere il lavoro più stabile, decente e dignitoso?
La richiesta di lavoro flessibile da parte delle imprese, che significa in buona sostanza maggior facilità di assumere e di licenziare, è un fenomeno globale che non esclude nessun Paese. Le grandi imprese occidentali oggi producono all’estero perché trovano costi del lavoro molto più bassi, vincoli ambientali minori o inesistenti e assenza di attività sindacale. I singoli governi non possono limitarsi a curare gli effetti della flessibilità adottando misure che la rendano sostenibile attraverso l’offerta di maggiore sicurezza sociale (flessicurezza). E’ necessaria un’azione decisa che contrasti la flessibilità intervenendo sulle sue cause. Si tratta di un impegno di lungo periodo, di un compito storico a cui tutti i Paesi occidentali sono chiamati. Siamo di fronte ad una vera e propria sfida da cui dipenderà il futuro di molti lavoratori: quella relativa a come avverrà il pareggiamento, a lungo termine inevitabile, tra i redditi e i diritti delle forze di lavoro oggi più agiate e quelli delle forze di lavoro più povere del mondo. Ad oggi i segnali che abbiamo sono indirizzati ad un pareggiamento spostato verso il basso piuttosto che verso l’alto. Nell’ultimo quarto di secolo abbiamo infatti assistito ad una pressione volta ad abbassare i salari e le condizioni di lavoro, che certo non si può ricondurre al declino americano o a mercati del lavoro troppo ingolfati da lato dell’offerta, quanto piuttosto ad una strategia concertata del capitale, dei governi e della destra politica volta a tagliare i guadagni ottenuti dal movimento dei lavoratori a metà del XX secolo.
La sfida a cui facevo riferimento prima può essere vinta solo attraverso l’adozione di una politica del lavoro globale che da un lato riconosca maggiori diritti ai lavoratori del Sud del mondo, e dall’altro imponga regole ed accordi sindacali che migliorino le condizioni di questi lavoratori. La strada della contrattazione territoriale a livello globale non è un utopia ma una via già sperimentata. L’OIL ha reso noti diversi contratti e accordi che hanno permesso di modificare la situazione lavorativa di parecchi milioni di lavoratori. Per quanto riguarda l’Europa, si potrebbero mettere in campo strategie finanziarie innovative tese a promuovere forme di investimento socialmente responsabili, tese cioè a risolvere il conflitto intorno alle condizioni di lavoro determinatosi tra i lavoratori dei paesi sviluppati e quelli dei Paesi più poveri. Anche accordi bilaterali estesi all’insieme di settori produttivi potrebbe giovare. Purtroppo dobbiamo constatare come oggi la Commissione europea sia integralmente neoliberista e quindi poco sensibile a politiche di questo tipo. Venendo al contesto italiano, ritengo che occorra sfuggire dalla trappola dell’adattamento alla globalizzazione e pensare invece a normative e leggi in grado di recepire i principi ispiratori della nostra carta costituzionale.
4) Nel suo libro, citato precedentemente, lei afferma che “i lavori flessibili sono visti con favore dalle imprese anche perché contribuiscono alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative”. Quali sono le implicazioni sociali e sindacali di questo processo?
La rappresentanza sindacale è stata resa molto più problematica dalla frammentazione presente oggi nel mercato del lavoro, quale conseguenza diretta della frammentazione produttiva. Molte componenti di prodotti e servizi provengono da Paesi diversi e lontani, per cui per il sindacato diventa difficile svolgere un’azione di tutela adeguata. Anche se è possibile parlare di rappresentanza di filiera produttiva, tuttavia a fronte della frammentazione intercontinentale del processo produttivo la tutela diventa un questione molto complessa e non facile da realizzare. La legislazione ha fatto la sua parte spingendo verso una accentuata individualizzazione dei contratti di lavoro. Questo apre grosse incognite sull’azione sindacale e sulla sua possibilità presente e futura di promuovere le condizioni di lavoro e tutelare i lavoratori
5) A suo avviso i lavori flessibili sono una forma di erosione di una serie di diritti e di legislazioni sul lavoro che dal 1945 ad oggi hanno tutelato i lavoratori. Quali sono state le tappe di questa erosione? La legge Biagi rappresenta il risultato estremo di questo processo?
La legge 30, come andrebbe chiamata, rappresenta semplicemente una ulteriore tappa di un lungo percorso iniziato negli anni ’80 e che ha avuto uno snodo importante nel protocollo del luglio ’93 e nella legge del 97 (pacchetto Treu), per poi proseguire con le leggi del 2001 e del 2002 sull’orario e il lavoro a termine, introdotte, si è detto, per adeguarsi alle direttive europee, fino ad arrivare al 2003, anno a cui risale la legge 30 e il suo decreto attuativo. Se leggiamo quest’ultimo (composto da oltre 80 articoli) si vede che si tratta di un prolungamento di tutto un corso di leggi che si sono susseguite nel corso di 15-20 anni. La legge 30 è una legge minuscola. Per cui la questione non è se modificarla o meno ma piuttosto come superarla. A mio avviso andrebbe superata da una legge alta che guardi anche alla situazione internazionale e all’Europa. Serve una nuova legge complessiva sul lavoro che riveda l’intera materia e che si richiami ai principi fondamentali della Costituzione, a quell’immagine di persona il cui maggiore scopo è il suo pieno sviluppo umano e che vede la società impegnata a rimuovere gli ostacoli al conseguimento di questo fine (art. 3).
Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni ha invece, in buona sostanza, ignorato se non violato alcuni articoli fondamentali della nostra Costituzione relativi al lavoro; basti pensare all’articolo 36 e agli articoli 41 e 46. La nuova legge dovrebbe essere fondata in modo chiaro sul recupero dell’assunto che il lavoro non è una merce, ma una dimensione che coinvolge intrinsecamente la persona che lo presta. Un altro cardine della legge dovrebbe consistere nel ristabilire il principio per cui il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempo pieno è il tipo di contratto in assoluto predominate e non una possibilità tra tante, come traspare ad esempio dalla legge 30. Altre forme di contratto utili alle aziende e ai lavoratori, come in certi casi il tempo parziale, dovrebbero essere considerate come deroghe a fronte di specifiche necessità.
6) Quale ruolo può giocare la formazione scolastica, universitaria e professionale per evitare che molti lavoratori cadano nella trappola della flessibilità a vita? Quali misure è necessario adottare per rendere i nostri lavoratori più “competitivi” in termini di conoscenza e competenze professionali?
Esiste un ritardo strutturale del nostro Paese che non si recupera certo con leggi che spesso hanno un orizzonte limitato ad uno-due anni. La nostra forza lavoro ha una percentuale elevata di persone con un livello di istruzione medio-basso rispetto a quella della Germania e della Francia. Solo il 40% della forza lavoro compresa tra i 15-16 anni e i 39 anni, arriva alla media inferiore. Il Paese ha bisogno di un grande piano per portare la scolarizzazione, dai 15 ai 18 anni, a riguardare tutti quelli che entrano nei circuiti della formazione tecnica e professionale. Per quanto riguarda la formazione professionale credo che le aziende debbano farne di più. Oggi la formazione realizzata nelle imprese si misura in poche ore per pochi lavoratori dipendenti; si fanno mediamente sei-otto ore di formazione all’anno che riguardano il 20% dei lavoratori. Siamo a livelli assolutamente trascurabili. Le imprese italiane devono assumersi le loro responsabilità e non scaricare le colpe sul mondo della scuola. La Confindustria quando parla di competitività dovrebbe dare l’esempio e stanziare qualche centinaia di milioni di euro per la formazione in azienda, al fine di recuperare in termini di competitività e non perdere le professionalità presenti nelle nostre imprese. In Italia quando si parla di competitività si finisce solo con l’affermare che è necessario lavorare di più. La proposta del governo di detassare gli straordinari si muove in questa logica miope e limitata a chi già lavora. Una logica che non aiuta certo i giovani ad entrare nel mercato del lavoro.
7) Lei osserva come “la correlazione tra innalzamento della flessibilità del lavoro e tasso netto e stabile di creazione di nuovi posti di lavoro, o di riduzione della disoccupazione, spesso richiamata da esponenti politici, accademici e media”, non trovi alcun riscontro. Per uscire da questa narrazione neo-liberista quali strade è possibile percorrere? Quali forme e modalità di lavoro e quali nuove occupazioni possono consentire al nostro Paese di uscire dalla situazione attuale?
Tra il 2001 e il 2006 sono stati apparentemente creati, secondo le rilevazioni campionarie dell’Istat, 1 milione di nuovi occupati. Ma questo milione di occupati in più è derivato in gran parte dalla loro emersione dall’economia sommersa, ossia dalla trasformazione dell’80% di questi lavoratori da irregolari a regolari. Le precedenti rilevazioni trimestrali dell’Istat non li registravano perché, essendo per lo più immigrati, non erano ancora iscritti alle anagrafi comunali.
In due-tre anni quindi un cospicuo numero di lavoratori immigrati è stato iscritto nelle anagrafi e quindi ricompreso nella rilevazioni trimestrali. Inoltre è aumentato il numero di lavori a termine e delle donne tra i 16 e i 18 anni impiegate a part-time, che quindi sono stati registrati dall’Istat. Da questi dati emerge chiaramente come l’aumento degli occupati dichiarati avvenuto in Italia non sia stato il risultato di un aumento delle forme di lavoro flessibile, quanto piuttosto della regolarizzazione di lavoratori immigrati e dell’aumento dei tempi parziali.
Venendo alla questione della creazione di nuove occupazioni credo sia necessario fare un ragionamento complessivo che chiama in causa il ruolo delle imprese e del sistema economico-produttivo italiano. Come dicevo le aziende dovrebbero investire maggiormente in formazione modificando radicalmente l’attuale orientamento di indifferenza al problema. Si dovrebbero realizzare, per dire, almeno 8 ore di formazione al mese per l’80% dei lavoratori, coinvolgendo anche gli atipici. La Confindustria dovrebbe farsi promotrice di questa grande azione, di questo grande investimento formativo necessario per rendere le nostre imprese più competitive.
Il nostro Paese ha urgente bisogno di una seria politica industriale. I tedeschi oggi sono diventati i primi esportatori al mondo di macchine laser, di software e hardware per le automobili. E i francesi vanno molto meglio di noi. Stesso discorso si può far per la Svezia e la Norvegia. Il rilancio di una seria politica industriale italiana, che dovrebbe inserirsi in una politica industriale europea, deve proporre un’idea chiara di ciò che si può produrre, individuando un indirizzo chiaro e autonomo. L’Italia è ferma agli anni 70; da allora in poi è mancata una politica industriale degna di tale nome. Il caso Alitalia, o quello delle Ferrovie, ma ce ne sono molti altri, mostrano come la mancanza di una politica industriale stia costando moltissimo al Paese.
8) Il lavoro flessibile in Italia ed in Europa è una questione che riguarda soprattutto le donne, spesso quelle più giovani. Cosa si può fare per rendere i loro percorsi lavorativi più stabili? Come favorire l’ingresso e il permanere delle donne italiane nel mercato del lavoro?
Siamo di fronte a schemi culturali e politici complessi, difficili da superare. Non è una questione di quote. Certi oneri dovrebbero essere accettati dalle imprese. Invece siamo nella situazione in cui le aziende pagano di meno le donne perché ogni tanto si permettono di andare in maternità. Invece di considerare questa fase della vita come una ricchezza per tutta la società, viene considerata una situazione di inabilità. I responsabili delle risorse umane delle nostre imprese considerano ancora la maternità in questo modo e quindi marginalizzano le donne.
Se guardiamo alla politica il discorso è analogo. In Italia ci sono forse due rettori universitari donna su 77; 4 ministri al femminile su 26; solo un 8% se non meno di donne elette nel Parlamento. Se ci confortiamo con altri Paesi europei ci accorgiamo come in Italia ci sia una fortissima disuguaglianza in termini di acceso al mondo del lavoro, della politica, della cultura. In Svezia ad esempio, il 40-50% dei rettori universitari e dei deputati sono donne.
9) Quali strategie adottare per rilanciare l’occupazione nel Meridione?
La prima cosa è, come già ho detto, adottare una seria politica industriale magari guardando a Paesi come la Germania e la Francia. In questo Paese, ad esempio, esiste una potente agenzia territoriale, la Datar, che ha il compito di razionalizzare gli investimenti sul territorio transalpino. La Datar nel corso di vari decenni – è stata istituita negli anni 60 – ha avuto un ruolo importante per lo sviluppo produttivo francese. L’agenzia è riuscita a facilitare l’insediamento di certe produzioni in alcuni luoghi piuttosto che in altri, favorendo così lo sviluppo di veri e propri poli di competitività. Se in un certo territorio ci sono le migliori fabbriche specializzate, reti informatiche specializzate ed efficienti, terreni attrezzati a prezzo conveniente, e facilitazioni fiscali, è chiaro che gli imprenditori saranno attratti ad investire qui piuttosto che altrove.
Discorso analogo dovrebbe essere fatto per quel che riguarda il nostro Mezzogiorno, valorizzando e sviluppando alcune specificità produttive territoriali in modo da attrarre investimenti. Ma per favorire questi processi è necessario potenziare la rete di infrastrutture di cui oggi dispone il Sud, a partire dalla ferrovie e dalle autostrade. Il settore turistico e quello ambientale hanno sicuramente grandi potenzialità che vanno sfruttate maggiormente, ma senza una politica industriale adeguata il Meridione e il Paese nel suo complesso non riuscirà a uscire dalla sua crisi, ad adeguarsi agli standard degli altri Paesi europei.
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