La priorità del Lavoro
——————————————
IL LAVORO CHE VOGLIAMO
LIBERO, CREATIVO,
PARTECIPATIVO E SOLIDALE
———————————————————————-
Il Primo Maggio di Giuseppe Di Vittorio
Il Primo maggio e la priorità del lavoro in un discorso ancora attuale di Giuseppe Di Vittorio
(dal numero 17 del «Lavoro» pubblicato il 26 aprile 1953)
Se la celebrazione del Primo maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo. Il Primo maggio, infatti, esalta la potenza del lavoro e le priorità e la nobiltà della sua funzione nella vita d’ogni società umana. In pari tempo, questa giusta esaltazione pone in maggior luce l’ingiustizia rivoltante del fatto che, in tanta parte del mondo, il lavoro non è libero, essendo sottoposto al giogo del capitale e subordinato alla legge barbarica del profitto di pochi, a detrimento di tutti. Non essendo libero, il lavoro non può espandersi, secondo i crescenti bisogni dell’uomo; non può utilizzare tutta la sua potenza creatrice, per soddisfare le incessanti esigenze di vita e di progresso dell’umanità. Ogni possibilità di lavoro e di produzione è condizionata e limitata dalla convenienza o meno dei detentori del capitale, dei loro trust, dei loro monopoli.
Di qui, le mostruosità inumane del sistema capitalistico: immense estensioni di terre incolte o malcoltivate e masse enormi di braccianti disoccupati; fabbriche che si chiudono e milioni di famiglie prive dei prodotti più necessari; tonnellate di grano buttate a mare – per mantenere elevati i prezzi – e milioni di uomini e di donne e di bambini che scarseggiano o mancano del pane.Da questo sistema di predominio del capitale, da questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sorgono le crisi, la disoccupazione, la miseria, di cui soffrono le popolazioni.
Da questo sistema d’ingiustizia e di sopraffazione, sorgono le cupidigie e le brame di rapina dei grandi monopoli su altri Paesi, su altri mercati, su altre fonti di materie prime. Di qui, sorgono le guerre imperialistiche, coi loro inseparabili e terribili cortei di massacri, di distruzioni, di lutto, di carestia. Il Primo maggio, pertanto, i lavoratori del mondo intero, celebrando la potenza invincibile del lavoro, rivendicando il loro diritto alla conquista di migliori condizioni di vita riaffermano la loro volontà collettiva di accelerare la marcia verso l’emancipazione del lavoro, che libererà tutta l’umanità dal timore delle crisi, dalla paura della fame, dall’incubo della guerra, ed aprirà ad essa la via radiosa del benessere crescente e d’un più alto livello di civiltà.
Il lavoro è creatore di beni; il lavoro eleva gli uomini, li rende migliori e li affratella; il lavoro è pace. Il Primo maggio, i lavoratori d’Italia e del mondo, esaltando il lavoro, ribadiscono la loro volontà di pace e riconfermano solennemente il Patto della loro solidarietà internazionale al disopra d’ogni frontiera di nazioni, di sistemi politici e sociali di razze e di religioni. Tutti fratelli gli uomini e le donne del lavoro.
All’alba di Maggio sorridono, quest’anno, fondate speranze di distensione internazionale e di costruzione d’una pace stabile. Ma i grandi monopoli, profittatori di guerra, non disarmano. Essi confessano d’aver paura della pace, avendo fondato le loro fortune sulla guerra. Di fronte a questi vampiri, che vogliono dividere ad ogni costo il mondo in blocchi nemici, per fomentare l’odio e la guerra, i lavoratori d’Italia manifestano il Primo maggio la loro volontà di difendere ad ogni costo la pace e di rinsaldare la loro fraternità coi lavoratori dell’Unione Sovietica e di tutti i Paesi del mondo.
Il Primo maggio è anche una giornata di rassegna delle forze organizzate del lavoro, di bilancio dei risultati conseguiti dalle loro lotte, di precisazione delle prospettive della loro marcia in avanti. ue fatti positivi sono da registrare: le forze della grande CGIL sono intatte e in pieno sviluppo; nuovi miglioramenti, anche se lievi, sono stati strappati, in favore dei lavoratori.
Ma è troppo poco. Le condizioni di vita dei lavoratori italiani sono tuttora misere, intollerabili. Bassi salari, insufficienti prestazioni previdenziali e il flagello della disoccupazione, sono tuttora i principali fattori delle privazioni e della miseria di cui soffrono i lavoratori, e che continuano a restringere il mercato interno, a ripercuotersi negativamente sulla produzione, ad intristire l’economia nazionale.
I ceti privilegiati e il Governo, lungi dall’accogliere le proposte concrete avanzate dal Congresso confederale di Napoli, dirette a promuovere un grande sviluppo della produzione e la piena occupazione, si sono posti sulla via del loro predominio assolutista sulla vita del Paese, sulla via della reazione e della guerra.
L’attacco sferrato dal grande padronato e dal Governo contro il diritto di sciopero e contro tutte le libertà democratiche del popolo; la disciplina terrorista imposta ai lavoratori in numerose fabbriche, hanno lo scopo di curvare i lavoratori e di sottoporli ad uno sfruttamento sempre più intenso, per addossare loro le crescenti spese improduttive del riarmo e della crisi economica.
Ma su questa via, il Governo e le classi dirigenti non potranno che aggravare la situazione economica e politica, e acutizzare i contrasti, esporsi ad amare delusioni. I lavoratori italiani non si piegano.
Mentre tutte le bandiere dei nostri sindacati unitari sventolano al sole di maggio, i lavoratori dei settori decisivi del lavoro italiano – dell’industria, dell’agricoltura, del pubblico impiego, ecc. – sono in agitazione, per una serie di rivendicazioni economiche, urgenti e improrogabili. A queste, sono intimamente legate la difesa del diritto di sciopero e di tutte le libertà democratiche garantite dalla Costituzione.
Il Primo maggio, ribadendo le proprie rivendicazioni più urgenti, una parola d’ordine si leverà da tutte le piazze: Avanti, sempre più avanti, sulla via della conquista di migliori condizioni di vita e della difesa vigorosa e inflessibile del diritto di sciopero, del lavoro, della libertà, della pace, verso la conquista d’un avvenire migliore, per il popolo e per l’Italia!
Un’occasione non frequente si presenta prossimamente ai lavoratori italiani per sconfiggere la reazione e la guerra: le elezioni politiche del 7 giugno. Il Comitato direttivo della CGIL ha fissato la sua posizione, sulle prossime elezioni. Fate che una copia della nostra risoluzione giunga in ogni casa. La posta in giuoco è grossa.
Nella misura in cui i lavoratori d’ogni opinione politica e fede religiosa comprenderanno il significato di queste elezioni, voteranno con noi, contro i partiti della coalizione governativa e contro i partiti neo fascisti e monarchici che rappresentano la coalizione del grande padronato, schierata contro le rivendicazioni più sentite e le aspirazioni più profonde del popolo. Tutti i lavoratori voteranno con noi, coi partiti del lavoro, della libertà e della pace.
La festa del lavoro sia la festa dell’unità, dell’amicizia, della fiducia. L’avvenire è del lavoro e dei lavoratori. L’umanità vuoi vivere e progredire nella pace, nella libertà, nella fraternità. Solamente il trionfo delle forze del lavoro potrà soddisfare appieno queste esigenze imperiose dell’umanità.
Da tutte le piazze d’Italia parta, il Primo maggio, il saluto fraterno dell’Italia che lavora ai lavoratori del mondo intero, quale pegno di solidarietà e di pace!
————————————————
LAVOROxIL LAVORO DIBATTITO. Lavorare gratis: un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
Il tema del lavoro è fondamentale per ogni ipotesi di sviluppo in generale e – per quanto ci riguarda e considerato il nostro specifico ambito di intervento – con particolare riferimento alla Sardegna. Aladinews ne ha fatto un argomento di interesse prioritario e in tale direzione supporta il Gruppo di Lavoro per il Lavoro (Lavoro al Quadrato) costituitosi di recente nell’ambito del Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale e Statutaria. Lo facciamo pubblicando documenti prodotti dallo stesso Gruppo e altra documentazione pertinente, prevalentemente reperita in rete e, ancora, dando tribuna sull’argomento a esperti e cittadini interessati, e pubblicizzando iniziative convegnistiche, seminariali e comunque di dibattito.
LAVORO
un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
di Roberta Carlini, su Rocca
Gratis. È questa la parola, contenuta nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – «Lavorare gratis, lavorare tutti» – che più disturba e che più attrae. Lavorare gratis? «Bella novità», potrebbero rispondere irritati in molti, pensando a se stessi: quante volte, soprattutto ai più giovani, e in particolare nei lavori intellettuali e/o creativi, è stato chiesto di lavorare senza stipendio né compenso alcuno, come stagista, come cultore della materia, come biglietto d’ingresso e modo per farsi conoscere? La parte dei lettori che ha queste esperienze, o le ha ascoltate da figli, amici, fratelli e sorelle, può reagire male, e pensare: qui c’è un sociologo che ci propone di farci piacere quello che già succede e non ci piace per niente. Un’altra parte dei lettori può invece essere più attratta, o addolcita, dal «lavorare tutti», esaltando il ritorno di una visione ottimista, utopica, programmatica del futuro, contro la rassegnazione all’andazzo delle cose.
La piena occupazione è stata un obbiettivo della politica economica per larga parte del ’900, che poi è andato in soffitta insieme ai tanti attrezzi della cassetta degli economisti che l’avevano studiata: finalmente torna in primo piano, e per di più ad opera di un intellettuale che è molto ascoltato da un partito – il M5S – che, a stare ai sondaggi, è il primo partito italiano e potrebbe trovarsi al governo in un futuro non lontano.
provocazione visione possibilità
L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le riflessioni e le proposte del saggio, che ovviamente dà sostanza a quel doppio slogan che ricorda l’antico (sempre per tornare al Novecento) «lavorare meno, lavorare tutti». In realtà, De Masi avrebbe potuto riprendere anche, semplicemente, quello slogan degli anni Settanta: in fondo, il nocciolo della sua tesi è che «c’è sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare». E dunque che il poco lavoro che c’è si deve redistribuire tra i tanti che lo vorrebbero, attraverso la riduzione dell’orario: esattamente quello che si teorizzava e proponeva negli anni ’70 e che fu alla base della legge francese sulle 35 ore settimanali, ma anche dell’esperimento della Volkswagen che addirittura ridusse la settimana lavorativa a ventotto ore.
Ma se De Masi non ha scelto il glorioso e polveroso «lavorare meno, lavorare tutti», non è solo per distanziarsi da un immaginario di conflittualità novecentesca; né solo perché il «gratis», nell’era di internet, è un pilastro, una condizione diffusa, un grimaldello passpartout; ma anche, e soprattutto, perché la redistribuzione dell’orario di lavoro, nella sua proposta, si dovrebbe realizzare tecnicamente non già per un’imposizione dall’alto, di contratto o di legge, ma in virtù della rivolta degli esclusi, cioè i disoccupati, e della loro irruzione sul mercato del lavoro: milioni di disoccupati che offrono gratis la propria prestazione, per «costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha». Una provocazione, una visione, una possibilità?
in discussione il «lavorare per vivere»
Prima di arrivare alle conclusioni – la riduzione dell’orario di lavoro, nel contesto di un programma con altri dieci punti più o meno imponenti, che vanno dall’armonizzazione dei dati sul lavoro alla creazione di una piattaforma per mettere in contatto chi cerca lavoro e chi lo dà e – chiediamoci: sono vere le premesse, ossia che non c’è e non ci sarà mai più lavoro per
tutti?
La discussione è molto accesa e approfondita, nel mondo dell’economia e della tecnologia, dai pensatoi della Silicon Valley alla Banca d’Inghilterra, dalla ricerca accademica al mondo degli affari. Di recente ha fatto molto rumore un saggio di due dei più ottimisti tra gli esperti, Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, nel quale hanno corretto in senso molto meno roseo le loro previsioni sulla «corsa delle macchine». Ci sono prove del fatto che la sostituzione degli umani con i robot e l’intelligenza artificiale distrugga più lavori di quanti non ne crei, hanno scritto di recente i due in un lavoro accademico.
I numeri girano vorticosamente in questi studi e le forchette sono ampissime: ma più che calcolare effettivamente quanti lavoratori perderanno il loro posto o quanti giovani non ne troveranno uno, le varie ricerche si concentrano sulle singole figure professionali a rischio: vuoi perché proprio non servono più, vuoi perché l’affiancamento della tecnologia permette di svolgere lo stesso lavoro con una produttività enormemente più alta, e dunque alla fine servono meno persone per produrre lo stesso output. Naturalmente, ci sono anche lavori nuovi che nascono: quelli necessari per produrre le stesse macchine che «mangiano» gli altri lavori, e quelli corrispondenti ai nuovi bisogni che emergono. E lo stesso De Masi nel suo libro ammette che «l’introduzione delle macchine, soprattutto di quelle digitali, è solo una delle cause che possono rendere superfluo il lavoro umano» (ci sono altre potenti cause, dalla riduzione dei consumi alla carenza di capitali d’investimento, dalla ritirata degli Stati dai rischi dell’investimento ai difetti e alle scelte sbagliate dei manager).
Ma poi la descrive come talmente potente da ricordare l’Holomodor staliniano, il genocidio di 5 milioni di contadini ucraini. In poche pagine questa terribile catastrofe si trasforma in una grande opportunità, nientemeno che nella possibilità di realizzare quell’utopia che nei secoli ha accompagnato la storia umana, ma che mette in discussione le basi del capitalismo degli ultimi duecento anni: la necessità di lavorare per vivere. In discussione, per riprendere l’espressione di Keynes e delle sue «prospettive economiche per i nostri nipoti», c’è «il superamento della questione economica».
il reddito di base universale
Una prospettiva del genere implica un totale ribaltamento delle nostre attuali prospettive e inevitabilmente si presta all’accusa di essere visionari o utopisti o pazzi; eppure, negli ultimi tempi ha acquistato una certa dose di buon senso, dato che la tendenza naturale delle forze dell’economia e dei sistemi che fin qui abbiamo inventato per gestirla o migliorarla ci porta dritti verso una crescente disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze e l’insopportabilità sociale. «Utopie per realisti», è il titolo di un altro libro (ancora non pubblicato in Italia), stavolta con una sostanziosa prospettiva storica, dello storico e giornalista olandese Rutger Bregman. Mentre alcuni governi cominciano a sperimentare, in piccolissime dosi, una delle ricette per redistribuire il lavoro – il reddito di base universale e incondizionato –, che anche secondo De Masi dovrebbe essere uno degli ingredienti del nuovo menu economico. Nel quale, per tutti questi motivi, il lavoro non è più il valore fondante della nostra partecipazio- ne alla società.
un rischioso ideale di liberazione
In questo contesto, il «lavorare gratis» può essere visto come la provocazione fondamentale e come il modo per far irrompere i disoccupati sul pianeta del lavoro. Analizzata alla lettera, però, la provocazione avrebbe un solo impatto economico: mettere in concorrenza l’esercito di riserva dei disoccupati con gli altri, e dunque far scendere – ancora – il loro salario, più che il loro orario. Cosa che in effetti già avviene, dai fattorini di Foodora agli stagisti nelle redazioni dei giornali. Letta nel contesto più ampio delle undici proposte del libro, e della generale ripresa di discussione sul tema della redistribuzione del lavoro, la «provocazione» assume un altro senso. In un mondo nel quale siamo riusciti a sganciare il lavoro dalle necessità di sopravvivenza, e redistribuirlo insieme al dividendo sociale che la ricchezza delle nuove tecnologie ci consegna, in effetti il lavoro gratuito diventa uno dei valori della società (e in parte già lo è, quando scelto liberamente e non per costrizione o mancanza di alternative).
Ma nella transizione, può succedere anche che alcune utopie avanzate per un ideale di liberazione si trasformino nel loro opposto. Nella storia, purtroppo, si contano diversi episodi del genere.
—————————————
———————————————————————
Sussidarietà per una nuova socialità che metta al centro la persona e porti al ridisegno delle Istituzioni
di Franco Meloni (prima parte di un articolo scritto per la rivista Nuovo Cammino della Diocesi di Ales-Terralba)
Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente del Comitato scientifico della Settimana sociale dei cattolici italiani (a Cagliari dal 26 al 29 ottobre sul tema, suggerito da Papa Francesco, “Il lavoro che vogliamo libero, creativo, partecipativo, solidale”), ha spiegato che il filo conduttore del Convegno sarà “il principio di sussidiarietà, che richiama un’esigenza di raccordo degli ordini civili articolandoli in modo che nessuno possa avanzare la pretesa di possedere il monopolio degli interventi sulla società”.
Sul concetto di sussidiarietà ci sembra utile fornire sintetici elementi di chiarificazione. In un secondo intervento cercheremo di ragionare sulle sue implicazioni nella gestione dei beni comuni, rispetto alla creazione di lavoro e della sua valorizzazione nei termini esplicitati dal tema convegnistico.
La sussidiarietà come principio di organizzazione sociale trova accoglimento e sistematizzazione teorica nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Il primo documento che la contiene è l’enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII. Successivamente la Chiesa ha ulteriormente elaborato il concetto attraverso le encicliche di altri Papi: Pio XI Quadragesimo Anno (1931); Giovanni XXIII Mater et magistra (1961); Giovanni Paolo II Centesimus annus (emanata nel 1991 nel centenario della “Rerum Novarum”), la quale ultima riafferma e attualizza le precedenti elaborazioni: «Disfunzioni e difetti dello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».
Ma veniamo alla definizione giuridica accolta nel nostro ordinamento (giova anche ricordare che il principio di sussidiarietà è posto alla base dei rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati aderenti) e, soprattutto alle conseguenze della pratica della sussidiarietà orizzontale, attingendo a tal fine alle elaborazioni del prof. Gregorio Arena e del suo Laboratorio per la Sussidarietà (www.labsus.org).
Il principio di sussidiarietà è regolato dall’articolo 118 della Costituzione italiana: “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. Ne consegue che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.
Il principio di sussidiarietà si esplica in due dimensioni:
- verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e ai bisogni del territorio;
- orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
Con riferimento alla sussidiarietà orizzontale, la Costituzione legittima la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, prevedendo che le amministrazioni pubbliche la favoriscano, con conseguenze positive per le persone e per la collettività in termini di benessere spirituale e materiale. L’applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di cambiamento positivo delle amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva concorre a migliorarne la capacità di rispondere ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali. In questa direzione sono ormai numerose le amministrazioni pubbliche che hanno intrapreso iniziative per favorire la sussidiarietà orizzontale – ad esempio i Comuni attraverso appositi regolamenti per la gestione con i cittadini, singoli e associati, dei beni comuni urbani – e dall’altro le entità della società civile si sono mosse con azioni concrete, anche sostenute da attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di ricerca e di documentazione.
I cittadini attivi, applicando il principio di sussidiarietà orizzontale, si prendono cura dei beni comuni. In tema appare convincente la distinzione operata da LabSus tra “cittadini attivi” e “volontari”. Entrambi sono “disinteressati”, in quanto esercitano una forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell’interesse generale. I cittadini attivi, custodi e non proprietari dei beni comuni, esercitano sugli stessi un diritto di cura fondato sull’interesse generale. In sostanza: i volontari sono “disinteressati” in quanto vanno oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei; i cittadini attivi sono “disinteressati” in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per prendersi cura di beni che sono di tutti.
L’applicazione pratica del concetto di sussidiarietà dovrebbe comportare un ridisegno totale degli ordinamenti istituzionali, con un alleggerimento delle burocrazie e una semplificazione istituzionale e con l’apertura di ampi spazi per l’esercizio della democrazia partecipativa. La Sardegna dovrebbe giovarsene anche nella riforma del proprio assetto istituzionale che l’esito del Referendum costituzionale del 4 dicembre comporta differente rispetto a quello attualmente vigente.
(prima parte)
——————-
Lascia un Commento