DIBATTITO sulla città a partire dal Carnevale a Cagliari: come muore una tradizione. Cancioffali non brucia più. Perché?

Dal suo sito, riprendiamo una riflessione di Vito Biolchini che parte dalla morte del tradizionale carnevale cagliaritano per proporre temi di più ampia portata:  “Nel Carnevale si rispecchia l’anima popolare di questa città. Far morire il carnevale vuol dire sottrarre senso, impoverire Cagliari. Non alimentare una tradizione significa rompere quel filo che lega il passato al futuro. Il centro storico si salva anche preservando le sue tradizioni, e il Carnevale lo è. Nella decisione dell’amministrazione Zedda di azzerare di fatto tutte le manifestazioni legate al carnevale si intuisce un deficit preoccupante di “cagliaritanità”. Sto esagerando? Ognuno tiene al suo mondo e cerca di proteggerlo. La morte del carnevale cagliaritano come espressione di una cultura popolare cittadina per me è una pessima notizia. Cagliari ha bisogno di riflettere su se stessa e di salvare la sua anima popolare più autentica. Bisogna riprendere a studiare questa città, a coglierne i nessi più profondi. Ripartiamo da Alziator, da Romagnino, da Giuseppe Podda, da Sergio Atzeni. Cagliari ha bisogno di riprendere a produrre un’elaborazione culturale su di sé e di trasformarla in atti di governo, ha bisogno di riscoprire la sua antica identità di città con 2500 anni di storia alle spalle, ha bisogno di ricucire quella trama spezzata da quasi vent’anni di centrodestra berlusconiano. Altrimenti si corre il rischio di far morire una tradizione o di snaturare un luogo, e poi di vantarsi pure di averlo fatto, magari low cost. Ed è chiaro non stiamo parlando di soldi, ma di cultura”.

Il Carnevale a Cagliari: come muore una tradizione. Niente “cambara e maccioni”, Cancioffali non brucia più. Perché?
di Vito Biolchini
(dal sito, 10 febbraio 2013 alle 11:06)

Dopo una lunga agonia, il Carnevale a Cagliari è morto. Quest’anno niente sfilate, niente carri allegorici, niente di niente. Un giro per le strade di Castello, un ritrovo in piazza del Carmine e poi tutti a casa (ecco lo scarno programma). A Stampace non risuona più il grido “cambara e maccioni!”, Cancioffali non brucia più. Perché?

Che sarebbe andata a finire così lo si era intuito almeno quindici anni fa, quando il centrodestra abbandonò la festa al suo destino, non garantendo il necessario ordine pubblico durante le sfilate (erano i primi tempi delle famigerate “bombolette”, e via Manno, via Garibaldi e il Largo si trasformavano in campi di battaglia).

Era solo il primo passaggio di un disegno molto chiaro che non tardò a delinearsi. Perché è uno schema classico del centrodestra cagliaritano: lasciare che un bene (materiale o immateriale che sia, non fa differenza) degradi, e poi con questa scusa intervenire non per salvarlo il bene, ma per snaturarlo. Tuvixeddu, l’Anfiteatro, il Poetto, il Carnevale sono gli esempi più eclatanti.

Dopo la fase dell’abbandono volontario e colpevole, ci fu dunque quella privatizzazione del Carnevale cagliaritano, mascherata da “rilancio”. Le risorse destinate alle manifestazioni furono destinate principalmente non più ai gruppi storici (la gloriosa Gioc, il Dopolavoro Ferroviario, la Gruc di Castello, il Villaggio Pescatori) ma ad associazioni prenditutto e ad amici di partito elevati al rango di direttori artistici.

Soldi buttati, ovviamente. Perché il carnevale cagliaritano aveva bisogno solamente di vedere assecondata la sua vera natura, semplice e popolare, fatta essenzialmente di maschere povere, di “cambara e maccioni”, di uomini vestiti da donne, di parodie semplici, in uno straordinario gioco di ammiccamenti e ambiguità. La ratantina è sempre stato questo questo: una sfilata popolare dove ogni quartiere interpretava a modo suo la festa, in maniera gioiosamente anarchica.

Guardate questa bellissima galleria fotografica. Vi ricordate la Gioc di Pinuccio Schirra? Quale straordinario antro delle meraviglie era la chiesa di Santa Restituta, poi disgraziatamente fatta smantellare nel 2008 dalla curia senza dare un’alternativa all’associazione? E il rogo di Cancioffali?

E poi guardate le bellissime immagini scattate a Stampace da Marina Anedda, confluite poi nel 2004 nella mostra e nel libro “Carne scialare”.

Ecco cosa stiamo perdendo, ecco cosa abbiamo perduto.

Il centrodestra voleva creare un’altra tradizione, assolutamente improbabile: una tradizione di plastica. Perché voleva commercializzare la festa. E il risultato è sotto ai nostri occhi. Il Carnevale cagliaritano non esiste più. Il centrodestra ha distrutto una tradizione, e il centrosinistra non è riuscito a rivitalizzarla.

È vero: la città con la puzza sotto al naso non verserà una lacrima e forse leggerà in questa novità un importante segnale di modernizzazione. In più, quanti soldi si risparmiano? Ma una città vive di cambiamenti e di tradizioni. Anzi, maggiori sono i cambiamenti e le sfide che una città deve affrontare, più salde sono le tradizioni che deve coltivare.

Nel Carnevale si rispecchia l’anima popolare di questa città. Far morire il carnevale vuol dire sottrarre senso, impoverire Cagliari. Non alimentare una tradizione significa rompere quel filo che lega il passato al futuro. Il centro storico si salva anche preservando le sue tradizioni, e il Carnevale lo è.

Nella decisione dell’amministrazione Zedda di azzerare di fatto tutte le manifestazioni legate al carnevale si intuisce un deficit preoccupante di “cagliaritanità”. Sto esagerando? Ognuno tiene al suo mondo e cerca di proteggerlo. La morte del carnevale cagliaritano come espressione di una cultura popolare cittadina per me è una pessima notizia.

Cagliari ha bisogno di riflettere su se stessa e di salvare la sua anima popolare più autentica. Bisogna riprendere a studiare questa città, a coglierne i nessi più profondi. Ripartiamo da Alziator, da Romagnino, da Giuseppe Podda, da Sergio Atzeni.

Cagliari ha bisogno di riprendere a produrre un’elaborazione culturale su di sé e di trasformarla in atti di governo, ha bisogno di riscoprire la sua antica identità di città con 2500 anni di storia alle spalle, ha bisogno di ricucire quella trama spezzata da quasi vent’anni di centrodestra berlusconiano.

Altrimenti si corre il rischio di far morire una tradizione o di snaturare un luogo, e poi di vantarsi pure di averlo fatto, magari low cost. Ed è chiaro non stiamo parlando di soldi, ma di cultura.

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