Rocca online. Enzo Bianchi su ecumenismo e riforma della Chiesa cattolica
Oggi l’ecumenismo è la riforma della Chiesa
nella foto: Enzo Bianchi e Luciano Manicardi
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A colloquio con Enzo Bianchi a cura di Mariano Borgognoni su Rocca.
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Avevamo pensato di chiedere questa intervista sullo stato del dialogo ecumenico al Priore di Bose qualche settimana fa.
Nel frattempo Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, una delle più vitali esperienze monastiche in Italia e in Europa, non ne è più il Priore. Per sua espressa e insistita volontà è avvenuto un passaggio di mano e di generazione e la Comunità ha eletto fratel Luciano Manicardi. Una scelta ricca di significati che Fratel Enzo ci spiega all’inizio di questa intervista. La sua voce, per parresia e profondità resterà a lungo una di quelle da ascoltare e meditare per quanti vogliono vivere con autenticità e consapevolezza la propria fede di cristiani nella compagnia delle donne e degli uomini del loro tempo, ascoltandone i bisogni e gli interrogativi e condividendone i pesi e le speranze.
Una prima cosa: sei stato protagonista di un gesto straordinario che non è per nulla usuale in nessun ambito ed è rarissimo nella Chiesa, e ancor più nuovo soprattutto tra i Fondatori di Comunità. Ce n’è puoi spiegare il significato?
Io ho sempre creduto sia un bene che a un certo punto il Fondatore non muoia nell’esercizio del suo servizio di Priore, ma che ci sia un momento in cui lascia il posto a un altro della Comunità, perché è anche un segno che la Comunità non è sua ma del Signore. Perciò ho sempre pensato che questo passaggio fosse necessario nella mia vita. Poi negli ultimi anni, soprattutto da quando ho compiuto i settanta, certamente questa scelta è diventata molto cogente e due anni fa l’ho comunicato alla Comunità affinché potesse prepararsi. Abbiamo avuto due anni di preparazione, di incontri, di meditazione, di ricerca, finché siamo giunti appunto al Capitolo annuale. Così il 26 gennaio è avvenuta la votazione per l’elezione del nuovo Priore e già al primo turno, nonostante fosse richiesta la maggioranza dei due terzi, c’è stata l’indicazione piena per fratel Luciano. Questo mostra una Comunità compatta, matura, convergente, il che mi ha reso doppiamente lieto.
Grazie fr. Enzo e auguri a tutta la Comunità perché permanga un fermento vivo nella Chiesa, tra i cristiani, in mezzo agli uomini, credenti e non credenti, del nostro tempo.
Ma veniamo all’ecumenismo, che è l’argomento su cui volevo ci aiutassi a riflettere. Il mandato evangelico è chiaro: «ut unum sint». È una condizione di credibilità per i cristiani. Essere uno, dopo una stagione lunga che ha sedimentato sensibilità, percorsi, istituzioni, tradizioni diverse non è né scontato né facile. Tenuto peraltro anche conto che il Cristianesimo in fondo nasce pluralista, lo è sin dalle origini. Che vuol dire «essere uno», secondo te, oggi?
Sarei tentato di evitare la parola «unità». Preferisco la parola «comunione». Il Cristianesimo è nato in diverse forme, in diverse culture, ha avuto storie diverse in diverse chiese e poi molte di queste chiese si sono divise, abbiamo vissuto scismi, sconfessioni reciproche, accuse di eresia, e le chiese hanno fatto cammini molto diversi per secoli. Ormai abbiamo un millennio di divisione con l’Oriente e mezzo millennio di divisione con le chiese della Riforma. Parlare di cammino di unità, di comunione significa dire almeno questo: anzitutto che ci vuole una regola della fede comune. Senza una fede comune noi non possiamo fare l’unità; sarà il Credo apostolico, sarà il Credo di Nicea-Costantinopoli, ma un solido punto di appoggio ci vuole. Però là dove noi abbiamo molti cristiani, molte comunità cristiane, soprattutto nella galassia chiamiamola evangelica-pentecostale, in cui non sempre è chiaro che Gesù Cristo è Signore, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio e Dio, bisognerà ribadire la regula fidei per costruire l’unità su un fondamento comune, compito che con queste comunità sarà ancora lungo e complesso.
L’unità sulla regola di fede è indubbiamente decisiva ma sarà sufficiente?
Infatti l’altra esigenza è che ci sia la carità tra tutti e una carità sincera, senza polemica, senza concorrenza nella missione, con un riconoscimento reciproco. Ecco di fronte a questo grande obiettivo ecumenico, certo, Dio può fare l’impensabile, ma noi possiamo vedere come il cammino sia più facile con le Chiese Orientali e Ortodosse, un cammino direi ancora abbastanza conseguibile con le Chiese tradizionali della Riforma: la Luterana, la Riformata e l’Anglicana. Mentre un cammino di unità con tutta la galassia Pentecostale-Evangelica – che attualmente, non dobbiamo dimenticarlo, ha il più grande numero di cristiani, dopo quelli della Chiesa Cattolica – si mostra molto difficile e infatti non si sa che strada prendere perché ogni Comunità, vorrei dire ogni nucleo ha una sua fede, non vuole che sia normata da un Credo o da qualcosa di comune, quindi lì è certamente molto difficile. Ma credo che bisogna continuare a sperare, cammin facendo chissà come saranno i mutamenti anche in queste Chiese e io credo che si potrà arrivare a una unità nella fede visibile. Certo, senza la pretesa di conservare tutto di ogni tradizione: bisogna saper rinunciare a ricchezze non necessarie…
Insomma ridurre all’essenziale, trovando la vera ricchezza della fede nella concentrazione sul necessario…
Sì, quello che il Concilio ha chiamato la gerarchia delle verità. Una grande espressione del Concilio è che c’è una gerarchia delle verità, alcune che non sono assolutamente dimenticabili, altre che possono essere ascritte al cammino di fede, culturale, di una determinata Chiesa.
Nella tua esperienza diretta e secondo il tuo discernimento, quali sono stati sorgenti e passaggi decisivi che hanno fatto sì che oggi sia possibile fare dei passi in direzione di una comunione tra cristiani?
Il più importante è stato certamente l’incontro di Athenagoras con Paolo VI, perché là indubbiamente è stata aperta la possibilità di un dialogo, di un incontro con l’Ortodossia e non dobbiamo dimenticare che là si era arrivati a un passo da un’unità eucaristica, davvero a un passo. E poi, certo le perplessità e i dubbi hanno impedito che si andasse fino in fondo. Da allora molto cammino di conoscenza reciproca con gli Ortodossi è stato fatto.
L’altro passaggio importante, con il mondo protestante, è stata la Dichiarazione dottrinale congiunta sulla Giustificazione: non abbiamo più un contenzioso in materia, ma la fede cristiana è la fede in cui ci si salva per Grazia, perché Dio ha un amore che non va mai meritato, questo è straordinario e certamente ha mosso le Chiese Protestanti da una situazione di stallo, di diffidenza, verso una situazione di apertura nei confronti della Chiesa Cattolica. Questi direi sono i due eventi fondamentali a livello di Chiesa e di Chiese, però non si dovrebbe mai dimenticare tutto quel lavoro continuo che hanno fatto Comunità, Monasteri, battistrada dell’unità. È stato un lavoro enorme, in questi decenni: basti pensare a Chevetogne, a Taizè, certamente anche noi a Bose. Poi penso ai grandi pionieri tra Oriente e Occidente, questi uomini traghettatori, che hanno traghettato teologia orientale, teologia russa, bizantina in Occidente e traghettatori che le ricchezze d’Occidente le hanno trasportate e le hanno fatte cono- scere ad Oriente. È stato un grosso lavoro profondo e prezioso.
Senti Enzo, come l’avete vissuta a Bose questa vostra dimensione interconfessionale fin dall’origine? Con la presenza, sia pure minoritaria, di fratelli e sorelle ortodossi o protestanti?
Direi quasi naturalmente, perché faceva parte del mio sangue, della mia vita, io mi ero preparato a questo fin da ragazzo, in una serie di contatti, già da allora con gli Ebrei e con i Protestanti. Nella mia giovinezza poi avevo frequentato molto i monasteri ortodossi di Serbia e di Grecia. Devo anche ricordare che durante la gestazione del Gruppo di Torino, per quattro anni ci sono stati i Valdesi che hanno frequentato il mio gruppo, Paolo Ricca che veniva a dare insegnamenti, insomma c’era tutta una preparazione per cui oserei dire che ero equipaggiato per questo dialogo. Certo, allora siamo stati visti con diffidenza, anche dalla Chiesa istituzionale, anche dal Vescovo: temevano che fossimo dei Protestanti, poi invece hanno capito che ci muovevamo nello spazio del dialogo e tante incomprensioni si sono appianate. Ma certamente è stato un cammino, soprattutto il primo decennio, molto difficile e contestato. Però noi l’abbiamo affrontato bene, vivendo insieme la spiritualità, la liturgia e tutta la vita comune quotidiana. Questo ci ha aiutato molto.
Oggi la preghiera e la parola dei monaci, quanto può contare in questo percorso e anche per lanciare un occhio alla dimensione interreligiosa? Anche oltre l’ecumenismo?
Oggi la situazione è molto disuguale, nel senso che nel mondo ortodosso senza il monachesimo non si fa nessun cammino verso l’unità, perché i monaci sono una forza estremamente importante, con un grande peso nella vita della Chiesa, sovente i monaci contano più dei vescovi. Nella Chiesa Cattolica, attualmente, il monachesimo è in grossa crisi perché mancano le vocazioni, c’è l’invecchiamento e tutto questo fa sì che i monaci siano oggi abbastanza dimenticati; almeno i monaci hanno questa sensazione: di essere dimenticati nella Chiesa Cattolica. Quindi in realtà non possono fare granché. Salvo qualcuno che ha la capacità di intraprendere percorsi di comunione, ma senza aspettare input dalla Chiesa. Può semmai aprire lui dei dialoghi, delle vie, come succede a noi a Bose. Ma ovviamente non tutti hanno doni e carismi per poter fare tutto questo lavoro. No, la Chiesa Cattolica attualmente non conta molto sui monaci e non li apprezza molto, è l’amara realtà.
Il pontificato di papa Francesco, dal punto di vista del dialogo ecumenico, mi sembra che qualche strada l’abbia riaperta, per esempio questa presenza a Lund era inimmaginabile ed è stata anche un po’ nascosta, per la verità. Che cosa ne pensi di questo pontificato in riferimento all’ecumenismo?
Papa Francesco ci ha fatto uscire dall’inverno ecumenico in cui eravamo precipitati, e lui sta rendendo possibile con molti segni ciò che sembrava ormai impossibile e addirittura non percorribile. Penso al rapporto che ha con il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, che è veramente stretto, fraterno, amichevole. Penso al fatto che sia riuscito, seppur come prima tappa, a incontrare il patriarca di Mosca, quasi umiliandosi pur di vedere suo Fratello, come l’ha chiamato. E poi anche la presenza a Lund. Molti lo accusano di non essere più cattolico, ma lui in realtà ha fatto quel che dice il Vangelo: cercare, con tutti quelli che sono cristiani, segni di pace, di dialogo, di unità. Con lui l’ecumenismo ha ripreso a camminare, attraverso segni, gesti, fatti, come non era prevedibile prima.
Un’ultima cosa. Tra ecumenismo e riforma della Chiesa, individuazione di ministeri, carismi nuovi, apertura ai laici, ruolo delle donne, vedi qualche rapporto?
Oserei dire che oggi l’ecumenismo è la riforma della Chiesa. Se le Chiese si vogliono riformare devono passare attraverso l’ecumenismo. Senza l’ecumenismo non c’è riforma possibile. E poi è attraverso l’ecumenismo che è possibile che la Chiesa cattolica abbandoni il clericalismo, si apra al laicato, sia creativa nell’attribuire ruoli di responsabilità alle donne anche al suo interno. Senza ecumenismo non c’è possibilità né di riforma né di rinnovamento. E questo forse non tutti lo capiscono, ma io ritengo che bisogna convincersi che oggi riformare la Chiesa vuol dire praticare l’ecumenismo. Certo in maniera seria, non un ecumenismo di cortesia, non con gesti puramente formali, ma praticare un ecume- nismo che rilegga e riformi la Chiesa.
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