Birmania. I silenzi della Signora
Il nostro redattore Raffaele Deidda è rientrato pochi giorni fa da un viaggio in Birmania. Per lui una meta turistica non può che essere anche un’occasione di approfondimento culturale e politico, con la discrezione imposta dalla situazione del paese visitato. Ecco il suo articolo che sinteticamente ci da conto della situazione politica di quel paese specificamente per il ruolo esercitato da Aung San Suu Kyi… insomma leggetelo.
di Raffaele Deidda
Aung San Suu Kyi è Consigliere di Stato del Myanmar (ufficialmente Repubblica dell’Unione del Myanmar [ပြည်ထောင်စု သမ္မတ မြန်မာနိုင်ငံတော်], già Burma), Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente. Per i birmani, che l’adorano, è semplicemente “La Signora”. Figlia del generale Aung San, capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania ucciso da alcuni avversari politici nel 1947 poco dopo aver negoziato l’indipendenza del Paese dal Regno Unito, San Suu Kyi è stata eletta nel parlamento birmano nel 2012 a seguito del successo elettorale schiacciante riportato dalla Lega Nazionale per la Democrazia, il partito da lei fondato che si basa sui principi della non violenza predicati dal Mahatma Gandhi.
Risultato arrivato dopo complessivi 22 anni di arresti domiciliari inflittigli dal regime militare birmano, durante i quali le è stato assegnato il premio Nobel per la pace, riconosciuta la Medaglia d’Onore da parte dal Congresso degli Stati Uniti, assegnate numerose lauree honoris causa da parte di Università americane ed europee.
Dopo 54 anni di governo militare, Aung San Suu Kyi è finalmente al potere, anche se con una modalità che agli occhi occidentali appare molto anomala. Il presidente non è lei, ma il suo amico d’infanzia Htin Kyaw. I generali avevano infatti incluso nella costituzione una clausola che impedisce di diventare presidente del Myanmar a chiunque abbia dei parenti stretti di nazionalità straniera e i figli di Aung San Suu Kyi, nati dal matrimonio con l’inglese Michael Aris, hanno il passaporto britannico. La costituzione del Paese garantisce inoltre all’esercito un quarto dei seggi e i ministeri chiave della Difesa, dell’Interno e delle Frontiere. Poteri politici che, unitamente a quello economico maturato in cinquant’anni di dittatura soprattutto col monopolio delle imprese estrattive e commerciali, (la Birmania è ricchissima di risorse idriche, di minerali e di pietre preziose, oltre che di bellezze naturali ed architettoniche legate al culto buddista) rafforzano i condizionamenti e i veti dei militari nelle azioni prioritarie del governo di Htin Kyaw e Aung San Suu Kyi in direzione della riconciliazione nazionale e della riforma costituzionale.
Con una popolazione di oltre 51 milioni di abitanti, la Birmania è un paese multietnico e multiculturale, con la presenza di 135 gruppi etnici diversi raggruppabili in nove razze principali. Il 90% della popolazione è di religione buddista e convive pacificamente con le minoranze islamiche, cristiane ed ebree. “Non abbiamo alcun problema di convivenza religiosa fra di noi”, hanno confermato Martin Tee, cristiano e San Win, buddista, conosciuti durante il mio recente viaggio in Birmania. Non sono guerre di religione, quindi, i conflitti armati tuttora in corso fra l’esercito birmano e i gruppi armati etnici. Soprattutto nelle regioni di Kachin, Shan, Arakan e Karen. Sono, a detta del capo dell’esercito birmano, delle guerre “giuste”, a beneficio della stabilità della Birmania. Dietro l’obiettivo dichiarato si cela però la volontà dei militari, chiara ai ribelli, di far scomparire le etnie, di impadronirsi delle loro risorse naturali e occupare militarmente i territori di confine occupati dai guerriglieri.
E’ con questi problemi che deve misurarsi l’azione del Governo di Aung San Suu Kyi, con i condizionamenti posti dalla vecchia dittatura militare, tuttora potentissima. Deve inoltre mantenere delicati equilibri che le consentano di non perdere la fiducia del popolo birmano a discapito delle minoranze non “burma”. Deve cercare di gestire, soprattutto, l’emergenza dei Rohingya, la popolazione poverissima proveniente dal Bangladesh ma che vive in Birmania da generazioni. I Rohingya sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo, musulmani in un paese a maggioranza buddista che non li vuole. Difficile quantificare il loro numero non esistendo alcun registro anagrafico, ma le stime parlano di oltre un milione di persone che vive nello stato di Rakhine. Sono privi della cittadinanza birmana, non hanno accesso all’istruzione né ai servizi sanitari, non hanno diritto di voto e manifestano comportamenti religiosi fondamentalisti. Nel mese di ottobre 2016 ci sono stati attacchi armati contro stazioni di polizia sul confine tra il Bangladesh e la Birmania e sono stati uccisi nove poliziotti birmani. La repressione è stata durissima, dalle notizie confuse e frammentarie sembra che centinaia di persone, tra cui molti bambini, siano state uccise dai militari. Dietro i Rohingya, hanno commentato i miei due interlocutori di fede religiosa diversa, ci sarebbero gruppi armati jihadisti sostenuti dall’Arabia Saudita, potrebbe esserci l’Isis. Ci sarebbe il disegno di islamizzare consistenti territori birmani sottraendoli ai non islamici. I Rohingya praticano la poligamia, hanno riferito, e un uomo può avere fino a 4 mogli. Potenzialmente può generare fino a 40 figli, determinando carichi antropici in un territorio poverissimo di risorse, e favorendo la penetrazione sempre più massiccia dell’Islam fondamentalista. Per i birmani buddisti e anche cristiani la convivenza con gli islamici è da sempre accettata senza problemi ma nel caso dei Rohingya, dicono, il problema è solo apparentemente religioso. In realtà, sostengono, si tratta di una invasione di musulmani dal Bangladesh che intendono appropriarsi di ampie quote di territorio birmano.
Intanto alcuni importanti politici internazionali, fra i quali l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, hanno segnalato il rischio che la repressione nei confronti dei rohingya possa diventare un genocidio. L’ex ministra degli Esteri Emma ha scritto una lettera aperta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere la fine della crisi umanitaria. Molti osservatori internazionali rimproverano a San Suu Kyi di non essersi mai espressa in favore dei Rohingya per non perdere il consenso dei birmani ostili alla minoranza musulmana. Fatto grave, sostengono, per un Premio Nobel per la Pace che ha tanto lottato per il riconoscimento dei diritti civili del popolo birmano e che ora non prende le parti dell’etnia oppressa, non cercando neppure di limitare l’autonomia dell’esercito nella repressione dei Rohingya.
I birmani difendono invece “la Signora”. Si dicono certi che stia lavorando in silenzio, dialogando con le istituzioni internazionali e chiedendo sostegno per una soluzione che sia soprattutto umanitaria e che ponga definitivamente fine ad una vicenda travagliata che risale al 1982, quando il governo militare privò gli appartenenti all’etnia islamica della cittadinanza birmana, con la motivazione di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica.
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