Il percorso verso le elezioni regionali sarde è ancora lungo. Come impiegare bene il tempo, da qui ad allora.

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di Antonio Dessì

Mentre il decorso del tempo ci avvicina rapidamente alle elezioni politiche generali, che, anticipate o meno, avverranno entro gli inizi della primavera del 2018, la politica sarda sembra aver cominciato i movimenti in vista delle prossime elezioni regionali, che però si terranno nel 2019.
La data della consultazione regionale è abbastanza lontana, a dire il vero e alcuni movimenti sono stati anticipati dai rumors di possibili dimissioni del Presidente della Regione, recentemente e, credo, definitivamente smentiti.
La XV legislatura regionale scorrerà, immagino, fino alla scadenza naturale: salute -sul piano personale, con sincerità, auspicabilmente- permettendo, carattere, orgoglio e senso di responsabilità di Francesco Pigliaru non mi hanno mai indotto a ritenerlo persona che getti facilmente la spugna.
Non prevedo tuttavia che conosceremo particolari colpi d’ala dell’esperienza in corso: il combustibile politico e programmatico, ma prima ancora l’humus culturale del centrosinistra-sovranista non era particolarmente innovativo in partenza e mi pare ormai francamente esausto.
Si può inoltre prevedere abbastanza facilmente che influiranno sulla politica sarda le vicende italiane: le dinamiche del PD, in particolare, non potranno non avere riflessi sulla maggiore forza politica della coalizione e quelle dinamiche sono strettamente collegate alle prospettive elettorali italiane, dal cui risultato a sua volta dipenderà il quadro politico di fine legislatura alla Regione.
Direi che specularmente il discorso può estendersi allo schieramento istituzionale di opposizione, quello di centro-destra.
Non è pertanto neppure da prevedersi a breve una modifica della contestatissima legge elettorale regionale: le forze politiche rappresentate nell’Assemblea legislativa la modificheranno soltanto quando sarà chiara l’articolazione dei soggetti in campo a ridosso delle elezioni. La legge vigente sarà modificata, per quanto riguarda premi e sbarramenti, a seconda di questa articolazione e dei possibili, eventuali “patti di sindacato”.
Viene da chiedersi se valga la pena -da parte di chi lo sta facendo- di avviare processi preelettorali così anticipatamente e, da parte di chi li osserva, di commentarli.
Se tuttavia, nel contesto di impotenza della politica e delle istituzioni regionali (non di recente né di meramente autoctona origine) a modificare le condizioni economiche e sociali della Sardegna, la politica stessa si avventurasse sull’unico campo che è di suo pieno dominio, quello delle riforme “istituzionali”, ecco, allora sì che varrebbe la pena di esercitare una vigilanza attenta, anzitutto da parte di chi ha sostenuto la campagna referendaria contro la revisione costituzionale e in specie di chi intende proseguirla in chiave di attuazione e sviluppo del progetto costituzionale.
Mentre non ritengo realistico l’avvio di una rinegoziazione dello Statuto speciale (non ve ne sono minimamente le condizioni interne sarde, nè se ne intravvedono le condizioni parlamentari), resterebbe infatti nella disponibilità regionale la partita interna, quella della cosiddetta “legge statutaria”, concernente, oltre alla materia elettorale, la forma di governo, l’organizzazione della Regione (e dell’ordinamento autonomistico complessivo) e le forme di partecipazione popolare ai processi istituzionali.
A parte il tema elettorale, altre contingenze potrebbero stimolare la politica sarda in questa direzione: in primo luogo la necessità di rivedere lo scombinato assetto delle autonomie locali, prodotto dalla cosiddetta riforma dell’anno scorso, alla luce del risultato referendario che ha confermato le Province tra le articolazioni territoriali della Repubblica.
Credo che sarebbe una distrazione imperdonabile, per quanti continuano a agire al di fuori dell’oligarchia partitica rappresentata in Consiglio, lasciar correre come routinaria qualunque discussione e decisione si sviluppassero eventualmente in sede istituzionale sui temi ordinamentali.
Ogni ipotesi di rifondazione della soggettività istituzionale della Sardegna (uso questo concetto ampio per non perdermi nelle differenziazioni ideali e progettuali che attraversano un campo di opinione e di formazioni d’ispirazione autonomista, sovranista, federalista, indipendentista) secondo me ha infatti come precondizione l’impronta che si vuol dare a quella seppur limitata forma di autogoverno della quale il quadro costituzionale e statutario, nella loro contingente materialità, ci consentono di disporre.
Le questioni da riassumere sono abbastanza note e, se devo immediatamente muovere una critica (mi piacerebbe fosse presa, almeno in questa sede, come mossa da sincero intento costruttivo), alle varie elaborazioni che leggo anche in queste settimane su giornali e social, è una critica alla confusione e alla reticenza proprio su tali questioni.
Recentemente ne ho sollevato una, senza la cui chiara definizione è difficile anche elaborare principi per una proposta di legge elettorale. Si resta nell’opzione di governo presidenzialista, oppure si riesamina la prospettiva di una forma di governo a fondamento parlamentare?
Non è cosa da poco. La forma di governo presidenziale, infatti, costituisce un confine materiale che limita , per esempio, una strutturazione proporzionalista della rappresentanza, postulando la presenza di un premio di maggioranza.
Solleverò in questa sede una questione ordinamentale di ancor maggiore portata.
La Regione che vorremmo (e in nuce la forma di soggettività eventualmente autonoma, distinta, federata o indipendente) che in molti diciamo di indicare come prospettiva, deve avere una struttura centralista, o deve connotarsi come un ordinamento nel quale il potere e le funzioni sono distribuiti fra tutte le articolazioni nelle quali si esprime la sovranità popolare?
Il tema del riassetto delle province, in particolare, torna ad essere cruciale. Perchè da questo dipende largamente la forma della Regione.
Lo Statuto indica programmaticamente, fin dall’origine (art. 44), che la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici. La formula è abbastanza antiquata, ma non esclude affatto che anzichè di delega si possa parlare, in legge statutaria, di trasferimento o di attribuzione.
Sappiamo che uno dei maggiori tradimenti del programma statutario è consistito invece proprio nella realizzazione di una Regione centralistica (una brutta copia dello Stato italiano), con un apparato politico e burocratico ipertrofico, verticistico, rigido, lento, non trasparente.
Una tendenza che negli ultimi dieci anni almeno, anzichè invertirsi, si è accentuata.
Vogliamo uscire dal generico e avanzare una proposta radicalmente riformista?
La proposta non può che essere la devoluzione pressochè totale della funzione amministrativa a Province, Città metropolitana e Comuni, accompagnata dal più ampio potere regolamentare, dalle risorse e dal personale occorrenti, che andrebbero corrispondentemente loro trasferiti dalla Regione. Questo presupporrebbe una ridefinizione delle circoscrizioni provinciali e un ritorno pieno alla loro elettività, nonchè una ridistribuzione delle funzioni normativa e amministrativa tale da non ingenerare una gerarchia fra enti intermedi e comuni, ma una cooperazione intersistemica e intersoggettiva orizzontale.
Alla Regione cosa resterebbe?
Intanto resterebbe la funzione di relazione bilaterale, intersoggettiva con lo Stato nell’ambito dell’ordinamento europeo e di quello della Repubblica.
Non è questa la sede per approfondire i contorni di questo amplissimo ambito relazionale. Basti dire, per comprenderne l’ampiezza, che vi rientrano questioni come la partecipazione alle decisioni governative (il Presidente della Regione in Consiglio dei Ministri, il potere della Regione di chiedere la sospensione con decreto legge dei provvedimenti statali lesivi dei propri interessi, la rappresentanza diretta della Regione nelle sedi di elaborazione dei trattati commerciali che incidano sugli scambi di interesse regionale), già oggi contemplate dallo Statuto, ma del tutto ignorate.
Vi rientrano, ancora, il potere di iniziativa legislativa nazionale costituzionale, statutaria, legislativa esercitabile dal Consiglio regionale, unitamente alla facoltà di rivolgere al Parlamento ordini del giorno chiedendone la discussione.
Vi rientrano il concorso con lo Stato per la predisposizione del Piano organico (di rinascita: si, è una terminologia antiquata, ma sempre restano i concetti di piano organico, di concorso, di solidarietà e di aggiuntività delle risorse), nonchè tutta la questione della definizione della partita delle entrate tributarie e dei poteri in materia fiscale, ordinaria e di vantaggio (zona franca).
Insomma, per una Regione che ambisse a “farsi Stato”, ce ne sarebbe d’avanzo, purchè liberata dalla sua compulsione bipolare a farsi invece ora grande e unico Comune, ora Prefettura periferica dell’amministrazione governativa centrale.
Resterebbero poi la potestà legislativa, quella di programmazione e quella di bilancio. Una ridefinizione dei compiti fra soggetti dell’ordinamento avrebbe ripercussioni dirette sulla rispettiva organizzazione, ma anche sulle rispettive competenze in materia di gestione delle risorse.
E’ chiaro anzitutto che una Regione a dimensione e prospettiva “statuale” dovrebbe avere una fisionomia estremamente concentrata sulle funzioni strategiche, che però si “ridurrebbero” alla promozione dello sviluppo economico e dell’occupazione, alla tutela ambientale e paesaggistica, alla pianificazione territoriale, al finanziamento e coordinamento del welfare (istruzione, formazione, sanità, interventi per superare gli squilibri sociali e le povertà).
Il che comporterebbe una struttura politico-amministrativa estremamente ridotta, altamente qualificata, non burocratica: immaginiamoci cinque-sei dicasteri regionali e due o tre agenzie in luogo dei dodici assessorati e della pletora di enti e agenzie attuali.
L’altra conseguenza si avrebbe sulla finanza e sul bilancio regionale. E’ vero che l’articolo 8 e seguenti dello Statuto attribuiscono le entrate erariali alla Regione, non a Province e Comuni, le cui fonti di finanziamento sono tuttora rimesse prevalentemente alle leggi dello Stato (con le conseguenze, in termini di restrizioni, che abbiamo progressivamente conosciuto e alle quali sopperisce solo in parte la Regione). Ma questo non toglie che la funzione della Regione sia quella di restituire le risorse al sistema economico e sociale dal quale sono prelevate. Insomma sono “sue”, le entrate, ma pur sempre in nome e per conto dei contribuenti sardi.
L’idea che mi son fatto è che il bilancio regionale dovrebbe essere riarticolato in sole quattro grandi voci: interventi strategici in economia (piccola e media impresa, agricoltura e zootecnia, attrazione, innovazione e ricerca), welfare (sanità, istruzione e politiche sociali a coordinamento regionale), reti di infrastrutture materiali e immateriali di livello regionale, finanziamento del sistema degli enti locali. Stop.
Non paia operazione concettuale di poco conto.
Una ristrutturazione strategica di tal fatta è la sola che potrebbe consentire, per esempio, di valutare la praticabilità di una misura di redistribuzione (che, ripeto, si configurerebbe pur sempre come una restituzione) delle entrate regionali in una forma non marginale, ma estesa di reddito di cittadinanza.
Mi vado sempre più convincendo che si tratterebbe di una misura utile non solo ai tradizionali fini sociali, di contrasto alla povertà, bensì anche ai fini economici, di rilancio dei consumi come stimolo all’economia e, ai fini territoriali, come contributo a invertire lo spopolamento dei centri interni e minori.
Tuttavia questo davvero comporterebbe una drastica rivisitazione e riconversione della finanza regionale. Chi ha avuto pratica non meramente contabile della materia finanziaria sa che ogni voce, ogni capitolo, ogni comma delle leggi di bilancio e di spesa afferisce a interessi di categorie sociali e di singoli e che questo ne implica una rigidità superabile solo in diretta conseguenza di grandi scelte politiche riformatrici dichiarate, trasparenti, democraticamente condivise, pena una resistenza corporativa o assistenzialistica che non consentirebbe alcuna modifica razionalizzatrice e ridistributiva.
A conclusione del lungo (eppure ancora sintetico) ragionamento, quello che voglio dire è che difficilmente la legislatura in corso affronterà con questo respiro, pur avendone tutti i poteri, le questioni in campo.
Ma se soggetti e movimenti i quali si stanno già predisponendo per contendere all’establishment la rappresentanza e il governo alla Regione non si porranno fin d’ora, anche da una collocazione esterna all’attuale rappresentanza istituzionale, all’altezza di questa sfida, e si avviassero a presentarsi come meri cartelli elettorali, più o meno verniciati di ideologie e più o meno caratterizzati dall’ennesima corsa al “posto al sole” di individui, di gruppi, di sigle, l’interesse, anche elettorale, dei sardi verso di loro, ad onta di ogni velleità, non sarà più alto di quello che progressivamente va scemando nei confronti della politica in generale e concetti quali autonomia, specialità, sovranismo, federalismo, indipendentismo appariranno sempre più vuoti, perfino strumentali e alla fin fine tali da suscitare, più che disinteresse, addirittura ripulsa.

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