“Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori”.
Le culture uniscono i popoli
di Salvatore Settis
Sono molto grato al Fai, e in particolare alla mia cara amica Maria Antonietta Mongiu, di avermi invitato a parlare in questa giornata. Quel che vorrei offrirvi oggi può esser diviso in due parti. Nella prima farò, fondandomi sulla nostra Costituzione, qualche considerazione sulla cultura come bene comune; nella seconda parlerò invece della cultura come fattore essenziale di comunicazione fra i popoli e di pace.
Parlare di cultura come bene comune vuol dire parlare di Costituzione: un tema molto importante sempre, e ancor di più oggi, dopo che lo sconsiderato tentativo di modificare il testo della nostra Carta fondamentale ha prodotto l’opposto, generando un forte movimento di opinione in favore della Costituzione. Tuttavia, parlare di cultura e Costituzione oggi vuol dire riflettere su un orizzonte di valori che è quotidianamente sotto attacco, e anzi a rischio di demolizione. Nessun Paese al mondo ha una Costituzione che affermi il diritto alla cultura con tanta forza e coerenza come fa la nostra Carta fondamentale; eppure nessun Paese in Europa ha tagliato gli investimenti pubblici in questo settore quanto l’Italia.
Permettetemi di ricordare un episodio che può parere remoto ma è ancora attuale: otto anni fa, nel giugno 2008, il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l’Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28% contro l’8,3% di Svezia e 3% di Francia)», aggiungendo «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa» (ANSA, 3 giugno). Meno di un mese dopo, Bondi subì senza fiatare un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che dimezzava il bilancio del suo ministero falcidiandone la capacità di spesa.
A colpi di decine di milioni, lo stesso ministro e i suoi infelici successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno totalizzato ulteriori tagli per centinaia di milioni; e questa tendenza è stata solo in parte corretta dall’attuale ministro Dario Franceschini; ma la sua estesa riforma “a rate” del Ministero ha creato e sta creando più problemi di quanti non ne abbia saputo risolvere, ed è oggi ancor più vero che il basso livello degli investimenti impedisce di affrontare decentemente la quotidianità e l’ordinaria amministrazione, e dunque a maggior ragione vieta di rispondere adeguatamente alle emergenze, come si vede a ogni terremoto, a ogni slavina, a ogni alluvione.
Cambiare i direttori dei grandi musei non basta, e la mancanza pressoché assoluta di turnover negli ultimi vent’anni (le colpe sono equamente divise fra centro-destra, centro-sinistra e governo “tecnico”) ha portato a un drammatico invecchiamento del personale della tutela, mentre le università continuano a produrre a getto continuo laureati in beni culturali, archeologia, storia dell’arte, votati alla disoccupazione o all’emigrazione. Il concorso in atto per l’assunzione di 500 nuovi funzionari è inadeguato a colmare l’abisso aperto da una continua emorragia (pensionamenti o dimissioni volontarie) che è quasi 10 volte più grande.
E’ su questo sfondo che, in un Paese oggi affetto da una crisi collettiva di memoria, dobbiamo ricordare a noi stessi che la cultura, secondo la Costituzione, è un bene comune. Secondo il nostro ordinamento, i valori della cultura (per esempio la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non sono un tema “di nicchia”, ma appartengono a una sapiente architettura di diritti che si lega strettamente agli orizzonti fondamentali della democrazia: eguaglianza, libertà, equità sociale, dignità della persona umana. Di tali orizzonti la nostra Costituzione è il perfetto manifesto, anche se, come diceva Calamandrei, essa è davvero “la grande incompiuta”: ma questa sua perenne, feconda incompiutezza non è affatto una ragione per cambiarla, bensì per esigere che venga finalmente messa in pratica.
Corre oggi nel Paese, prendendo talvolta i colori dell’indignazione, talaltra quelli della rassegnazione e della rinuncia, una domanda, questa : è ancora possibile progettare un futuro in cui abbiano cittadinanza valori come giustizia equità democrazia libertà? In cui il cuore della politica sia non la geometria variabile delle alleanze o delle “intese”, ma la forte trama dei diritti civili? Sarà possibile, io credo, solo se sapremo ricollocare il bene comune al centro di un nuovo discorso sulla cittadinanza. E in questo discorso, come proverò ora a dire, la cultura ha un ruolo essenziale, pienamente riconosciuto dalla Costituzione.
Questo ruolo non può essere inteso senza evocare, oltre che quello di bene comune, alcuni altri concetti-chiave: popolo, cittadino, lavoro, solidarietà.
Il bene comune è il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori.
Popolo è la parola più pregnante per designare il soggetto collettivo che è il protagonista della Costituzione: ad esso appartiene la sovranità (art. 1), e perciò in suo nome viene amministrata la giustizia (art. 101).
Al popolo come soggetto collettivo corrisponde una parola altrettanto ricca di senso, cittadino. Il cittadino è per definizione membro del popolo, e dunque titolare della sovranità. Perciò «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», ed «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Ai cittadini spettano diritti inviolabili come la libertà (artt. 13, 15, 16), e in particolare la libertà di riunione (art. 17), di associazione (artt. 18 e 49), di culto (art. 19), di parola, di pensiero e di stampa (art. 21): diritti, tutti, connnessi strettamente con la libertà della cultura.
Un altro grande tema della Costituzione, il lavoro, ricorre sin dall’incisiva definizione dell’art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; ed è al cittadino-lavoratore che l’art. 36 assicura una «esistenza libera e dignitosa». Perciò, recita l’art. 4, «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto».
Infine, i valori del bene comune e l’etica del lavoro e della cittadinanza determinano nella Costituzione i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» richiesti ai cittadini (art. 2).
Ma il cittadino-lavoratore non può essere consapevole protagonista della vita economica e sociale del Paese senza un ingrediente essenziale: il diritto alla cultura. Mirata al bene comune è infatti anche la centralità della cultura scolpita nell’art. 9, «il piú originale della nostra Costituzione» (Ciampi): «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al «progresso spirituale della società» (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34).
Inoltre la Corte costituzionale, ragionando sulla convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute (art. 32) ha stabilito che anche la tutela dell’ambiente è un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini, che esige un identico livello di tutela in tutta Italia, come mostra nell’art. 9 il cruciale termine Nazione.
La creazione in via interpretativa di questa avanzatissima nozione costituzionale di “ambiente” è la prova provata, se ce ne fosse mai bisogno, di quanto la Costituzione sia lungimirante; e che essa, dunque, non va cambiata, ma interpretata e soprattutto applicata. Ora, secondo la nostra Costituzione il diritto al lavoro e la dignità della persona si legano alla stessa concezione secondo cui ambiente, paesaggio, beni culturali formano un insieme unitario e inscindibile la cui estensione corrisponde al territorio nazionale; fanno tutt’uno con la cultura, l’arte, la scuola, l’università e la ricerca.
Con esse, concorrono in misura determinante al principio di uguaglianza fra i cittadini, alla loro «pari dignità sociale» (art. 3), alla libertà e alla democrazia: perciò la loro funzione è costituzionalmente garantita. Il noto adagio di Calamandrei («La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale“») può perciò applicarsi anche alle altre istituzioni culturali, dalle università alle accademie ai musei ai teatri, agli enti di ricerca.
Questi principi costituzionali configurano quel che si può chiamare a buon diritto il diritto alla cultura che la Costituzione italiana, caso rarissimo nel panorama mondiale delle Costituzioni, assicura ai propri cittadini. La cultura fa parte dello stesso identico orizzonte di valori costituzionali che include il diritto al lavoro, la tutela della salute, la libertà personale, la democrazia. Perciò dobbiamo, è vero, rilanciare l’etica della cittadinanza, puntando su mete necessarie come giustizia sociale, tutela dell’ambiente, diritto al lavoro, priorità del bene comune sul profitto del singolo, democrazia, uguaglianza. Ma perché queste mete siano praticabili e concrete è altrettanto necessaria la piena centralità della cultura.
Se concepiamo la cultura come il cuore e il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legante della comunità, capiremo che essa è funzionale alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, alla dignità della persona. Che difendere il diritto alla cultura è difendere l’intero orizzonte dei nostri diritti: perché i diritti, se non li difendi, li perdi. Ma se non li conosci, non saprai difenderli. La funzione della cultura è anche questa: farci conoscere i nostri diritti, lo spessore storico, filosofico, etico, religioso dal quale essi provengono. Il futuro che ci permettono di costruire, e per converso il buio in cui precipiteremo se rinuceremo a difenderli.
Anche questo è il compito di chi pratica le scienze storiche: ricordarsi e ricordare che la storia non è evasione, non è una via di fuga dal presente, una sorta di tranquillante che ci allontana dalle urgenze dell’oggi. Al contrario, la storia può aiutarci a interpretare le radici delle nostre urgenze e dei nostri problemi: per dar corpo e ragione ai nostri disagi.
Secondo un detto famoso, «la storia è maestra della vita». Ma proviamo a capovolgerlo, quel detto: possiamo dire infatti, a ragion veduta, che la vita è maestra della storia: sono le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente delle comunità umane.
Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro. E’ infatti dovere, anzi mestiere, degli storici coltivare uno sguardo lungo, una visione delle cose e degli uomini che riguarda tanto il passato quanto l’avvenire, premessa necessaria per provare a costruire un futuro diverso e migliore.
La centralità della cultura nella Costituzione italiana è un buon punto di partenza per riflettere sulla funzione possibile della cultura nell’interscambio fra i popoli. L’Unione Europea, che oggi vacilla non solo e non tanto come conseguenza dell’uscita imminente della Gran Bretagna, ma di una crisi economica e politica senza fine, deve la propria debolezza non – come spesso si dice, al fatto di non essersi ancora tradotta in un comune esercito e in un’unione politica più forte, ma al fatto di essere stata concepita sin dall’inizio come una progressiva fusione di economie, non di culture.
L’idea da cui si partì all’altezza dei Trattati (in particolare quelli di Maastricht e di Lisbona) fu che, una volta assicurata una solida unione economica, tutti gli altri aspetti ne sarebbero seguiri per naturale evoluzione. Non è stato affatto così, e continua a mancare in Europa una riflessione istituzionale adeguata su un assetto di valori fondamentali che possa servira da legante ai Paesi della comunità, diversissimi l’uno dall’altro per lingua, compagine sociale e tradizioni culturali, eppure unificati non solo dalla geografia, ma dalla storia.
Ma questo discorso va allargato ben oltre i confini dell’Europa. Il tema di questo convegno, Mediterraneo ponte tra i popoli, è oggi molto opportuno perché cade in un momento storico la cui drammaticità, dovuta alle ondate di migranti con le tragedie personali e sociali che comportano, è destinata a crescere negli anni che ci aspettano. Tendiamo oggi a vedere il Mediterraneo come un baratro che si apre tra una sponda Nord prospera e cristiana e una sponda Sud povera e mussulmana. Ma, se la vita è maestra della storia, guardiamo alla storia con lo sguardo di oggi per trarne insegnamento e ispirazione per il futuro.
Nei lunghi secoli dell’impero romano, il Mediterraneo fu mare di pace, fu un incrocio di strade più che una barriera, fu luogo di incontro e di dialogo più che di conflitto. Gli archeologi studiano oggi relitti di navi romane dove si trovano fianco a fianco ceramiche anatoliche, monete coniate in Italia, olio prodotto in Spagna: una globalizzazione ante litteram che somiglia moltissimo a quella che viviamo, e da cui dovremmo imparare (ma in quel mondo la convergenza culturale era assicurata dalla diffusione universale delle due lingue-guida, il greco e il latino, e dal dominio incontrastato della civiltà giuridica romana).
Ma anche nel Medio Evo, e proprio mentre si svolgevano le Crociate e altri scontri fra le due sponde del Mediterraneo, si svolse –non contraddicendo, ma integrando le conflittualità che pure insorgevano a ogni passo– un intenso scambio di idee, di progetti culturali, di saperi. Basti ricordare velocemente qualche punto. Fu alla corte di Bagdad, e non in Europa, che numerosissimi testi greci di filosofia, astronomia, medicina, matematica vennero sistematicamente tradotti e studiati; e anche dopo la riscoperta di molti testi nel Rinascimento ci sono ancora numerosi testi greci perduti in originale, e conservati solo in traduzione araba o siriaca.
Gli stessi “numeri arabi” che usiamo ogni giorno sono in realtà di invenzione indiana, ed entrarono in Europa, con la mediazione araba, grazie a un matematico pisano, Leonardo Fibonacci, che il padre (un mercante) aveva mandato da ragazzo a studiare in una città araba (che si trovava nell’odierna Algeria).
Ma ci sarebbe di più: uno studioso svizzero ha dimostrato che due monumenti famosissimi di Pisa, la Torre pendente e il Battistero, furono progettati sulla base di formule matematiche molto complesse, che presuppongono la conoscenza di teoremi dell’antica matematica greca, allora noti solo alla scienza araba e non in Europa: è dunque necessario presupporre un apporto arabo anche all’architettura di un’icona dell’Italia e dell’Europa come la Torre di Pisa. Un tale apporto passava attraverso i rapporti commerciali (la matematica veniva studiata prevalentemente dai mercanti, in quanto funzionale ai loro commerci), ma si traduceva in rapporti artistici e culturali.
Eppure i Pisani combatterono guerre crudeli contro gli Arabi, durante le quali conquistarono anche le Baleari trascinando a Pisa molti prigionieri fra cui una regina (poi sepolta nel Duomo anche se non cristiana). Guerra, economia e cultura sono sempre stati elementi capaci di convivere nel rapporto fra culture. L’uno non esclude l’altro.
Basti questo esempio a ricordare come la cultura possa essere un legante fra i popoli, e non qualcosa che divide. Come ha argomentato Maurizio Bettini in un piccolo e prezioso libro Contro le radici, tendiamo oggi a concepire le identità in senso atomistico ed esclusivistico. Come se l’identità di ogni individuo non dovesse presupporre la comunità di cui fa parte. Come se l’identità di un popolo potesse mai essersi formata a prescindere dai popoli con cui è stato ed è a contatto. I temi identitarii sono oggi straordinariamente importanti, ma è altrettanto importante considerare le identità non come il prodotto della razza, del sangue e del suolo, bensì come il risultato di molteplici e stratificati apporti, che per loro natura sono sempre bidirezionali.
Il concetto di “osmosi” è in questo senso il più adeguato a descrivere questi processi: l’Italia, ad esempio, non sarebbe quello che è senza l’apporto delle diversissime popolazioni che ne formano l’ossatura storica, dai Greci di Sicilia e di Magna Grecia ai Celti della pianura padana, dagli Etruschi ai Sardi, dai Fenici ai Veneti. E anche le epoche di dominio straniero (francesi, aragonesi, spagnoli, austriaci…..), che pure hanno suscitato tanta opposizione e finalmente le Guerre d’indipendenza, hanno lasciato tracce considerevolissime delle diverse culture giuridiche, filosofiche, artistiche, letterarie. Questa è dunque la concezione da promuovere, interamente coerente con quella della cultura come bene comune consacrata dalla Costituzione.
Nel Mediterraneo, le isole, e in particolare le Grandi Isole (Sicilia, Sardegna e Corsica; ma anche Cipro, Creta, Baleari) hanno in questo senso una funzione ancor più evidente, perché più si prestano a fungere da crocevia tra i vari popoli. Secondo la teoria “delle quattro penisole” del mio maestro Silvio Ferri, le ondate di migrazione culturale che dall’Oriente hanno progressivamente raggiunto l’Atlantico si sarebbero sviluppate passando da una “penisola” all’altra: prima la penisola balcanica, poi l’Italia, poi (prima di arrivare alla penisola iberica) quella che Ferri chiamava, con voluta improprietà, la “terza penisola”, costituita dall’insieme di Sardegna e Corsica: vissute, egli sosteneva, come approdi e luoghi di sosta e di interscambio intermedi fra l’Italia e le coste della Francia e della Spagna.
E’ a partire da idee, nozioni e memorie come queste che dovremmo saper costruire una nuova concezione del Mediterraneo come ponte e non barriera, come strada e non muraglia, come luogo dove tendersi la mano e provare a dialogare pur non negando le diversità e i conflitti. La cultura, infatti, è l’unica moneta di scambio che non è soggetta a date di scadenza, che non conosce inflazioni e deflazioni, se solo sappiamo usarla per quel che è stata, che è, che può ancora essere.
Per finire ricordo, perché sempre attuale, il forte ammonimento di Bertolt Brecht «per la difesa della cultura» al I e al II congresso internazionale degli scrittori: «Si abbia pietà della cultura, ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando sono salvi gli uomini. Non lasciamoci trascinare dall’affermazione che gli uomini esistono per la cultura, e non la cultura per gli uomini. (…) Riflettiamo sulle radici del male! (…) scendiamo sempre più in profondo, attraverso un inferno di atrocità, fino a giungere là dove una piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio, sfruttando il prossimo a prezzo dell’abbandono delle leggi della convivenza umana (…), sferrando un attacco generale contro ogni forma di cultura. Ma la cultura non si può separare dal complesso dell’attività produttiva di un popolo, tanto più quando un unico assalto violento sottrae al popolo il pane e la poesia».
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