Quando i tiranni sabaudi rasero al suolo la Sardegna
di Francesco Casula
L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato.
Iniziarono presto: 20 anni dopo avere preso possesso dell’Isola, nel 1740 il re Carlo Emanuele III di Savoia aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro) in cambio di un’esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione.
Lo scempio era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti e perentorie.
Furono bruciati persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento.
Scriverà Eliseo Spiga: ”lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”.
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: “La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”.
Mentre Carlo Corbetta, (scrittore lombardo della seconda metà del secolo XIX), in seguito a un viaggio in Sardegna, (e in Corsica) scrisse un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. E a proposito della distruzione dei boschi e della deforestazione, scrive che la si deve in massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture.
Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire soprattutto dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri: i re sabaudi e i loro governi. Probabilmente Corbetta non voleva nè poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis. Il suo viaggio in Sardegna era stato possibile proprio grazie all’appoggio proprio di Quintino Sella. Questi, più volte Ministro delle Finanze nel 1869 soggiornerà due volte in Sardegna in qualità di componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dell’isola.
Ma è soprattutto Gramsci, in un articolo sull’Avanti (Edizione piemontese) del 23 ottobre 1918, censurato e riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e distruzione dei boschi. Nell’articolo – intitolato significativamente “Gli spogliatoi di cadaveri”, individua fra questi gli industriali del carbone. Essi scendono dalla Toscana e stavolta, il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales – L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora, concluderà.
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