A ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci. Antonio Gramsci ci appartiene, teniamocelo stretto
di Piero Marcialis
Il titolo di questo contributo suggerisce già che non è mia intenzione di intrattenervi con un discorso di tipo teorico-politico, ma semplicemente di illustrare come nella vita di ciascuno di noi, nella mia vita in questo caso, si insinua e si intreccia la storia, la parola, la biografia di un grande personaggio come Gramsci.
Gramsci sardo, gobbo, comunista, assassinato per le sue idee.
Ucciso dal fascismo, ma anche a lungo oscurato in epoca democratica e repubblicana.
Oscurato della sua origine sarda, chissà perchè, e ancora troverete qualcuno che si meraviglia che un così grande pensatore sia nato in Sardegna;
oscurato, per educazione, della sua disgrazia di aver sofferto una malattia che lo rese gobbo;
oscurato, per convenienza politica, del suo essersi fatto comunista.
Perchè dico oscurato? Di un uomo che, con Dante Alighieri, è l’autore in lingua italiana più letto nel mondo?
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Perchè di Gramsci non si parlava nelle scuole elementari, nè alle medie, nè al ginnasio, eppure frequentavo, in piazza Dettori a Cagliari, il liceo Siotto, l’edificio dove frequentava il giovane Gramsci (allora si chiamava Liceo Dettori), studente a Cagliari, ed era suo compagno di classe Peppino Marongiu, che divenne, ai miei tempi, sardista e preside del Liceo Siotto.
Mi giunsero allora le prime conoscenze del nostro Gramsci, le prime letture su di lui e di lui. Nell’anno scolastico 1966-67, ultimo anno di liceo, si tenne a Cagliari il primo convegno su Gramsci. Proposi che la nostra classe si recasse al Convegno. Assente il preside, non se ne fece nulla.
Eppure all’epoca non era raro che dalla scuola ci si recasse a qualche avvenimento culturale, ricordo che con alcune classi ci recammo proprio quell’anno agli allora Amici del Libro per sentire una conversazione di Giovanni Devoto, il grande etimologista.
Ma Gramsci era ancora nella lista proibita.
Finalmente all’università Gramsci era di casa, non solo citato nei tazebao, ma proprio previsto in alcuni corsi di facoltà, di filosofia ovviamente e di storia delle dottrine politiche.
Così appresi meglio del materialismo storico, della caduta tendenziale del saggio del profitto e della relativa critica alla tesi di Benedetto Croce, ma ancora mi sfuggiva la dimensione umana di questo straordinario personaggio. Isolato nel suo pensiero teorico sembrava appartenere a un punto indifferente del pianeta terra.
Ma io lo sapevo sardo, conterraneo, sentivo tutte le difficoltà e lo sforzo gigantesco di raggiungere profondità e spessore intellettuale, partendo dalla povertà economica familiare e dalla pochezza culturale dei maestrini di paese.
Condividevo con lui un pensiero che era anche mia esperienza di vita: anche un maestro mediocre può migliorare la tua istruzione, ma non può migliorare la tua cultura.
La grande distanza tra la cultura, che puoi trovare nel contadino e nel calzolaio, e l’istruzione di certi laureati aridi nel pensiero.
Meditai sul concetto di egemonia, malinteso e utilizzato spesso per risultati di sopraffazione, quando per Gramsci era sinonimo di capacità di direzione politica, di carisma intellettuale, di persuasione elevata alla comprensione dei problemi di vita e di lavoro di contadini e operai.
Capacità di direzione che deve affermarsi prima della conquista del governo di una nazione, poi si porrà il problema di dominare sulla classe che vorrebbe riprendersi il perduto potere, non di dominare sulla propria classe.
Meditai anche sul concetto di intellettuale organico.
Chiaro per Gramsci che nessuna attività umana è priva di intelletto, anche se la diciamo manuale e non intellettuale, la produzione è sempre culturale. Ma chi era il vero intellettuale organico, cioè interprete e portavoce, rispondente all’ansia di libertà e alle aspirazioni di elevazione morale e intellettuale delle classi oppresse?
Ebbene ho avuto la fortuna di conoscere un vero intellettuale organico. Non era un professore, neppure diplomato, era un calzolaio con la sola licenza elementare. Questo calzolaio era un organizzatore di uomini, fondatore di un sindacato artigiano che portò da zero iscritti ad essere il più numeroso e importante sindacato artigiano in Sardegna. Era uno che dava del tu (e anche peggio) agli onorevoli e spiegava le leggi del settore ai funzionari regionali e delle banche preposte. Di lui mi piace ricordare la battuta che fece in occasione delle riunioni di consultazione per gli studi del Primo piano di Rinascita, anni ’60. Alle sue obiezioni continue gli “intellettuali” preposti alla redazione del piano, chiesero spazientiti: “insomma secondo lei come va impiegato il denaro pubblico?” Rispose lapidario “possibilmente senza metterselo in tasca”.
Divenuto militante di partito ebbi la ventura di incontrare le più disparate opinioni su Gramsci, dalla massima considerazione al non ben motivato disprezzo. Per esempio sul tema della questione meridionale, certi autori napoletani, assimilavano Gramsci alle tesi del sottosviluppo del Mezzogiorno, come problema antico. Ma era lo stesso Gramsci a dire che l’unità italiana si era fondata sul sangue, sulla rapina, e sul disprezzo coloniale delle popolazioni del Sud.
Sul tema lingua sarda Gramsci veniva oscurato anche da chi lo esaltava come grandissimo pensatore, lasciate nel dimenticatoio le famose lettere in cui sollecitava a che i figli parlassero il sardo, ricordava Sa scomuniga de predi Antiogu e certe storie sentite nell’infanzia. Cose che poi io portai nel mio fare teatro.
Ma veniamo al momento cruciale del mio rapporto con Gramsci.
Avevo scritto per il teatro, anni ’96-97, il mio Emilio Lussu, personaggio anch’egli straordinario che tanto influenzò la mia formazione giovanile. Pensai fosse giusto dedicare un’opera teatrale anche ad Antonio Gramsci, all’uomo Gramsci, qualcosa che funzionasse in teatro, quindi non tanto una riflessione sulle sue tesi, ma la rappresentazione della sua vita sacrificata alle idee, Gramsci umano coi suoi problemi e i suoi dubbi.
Immaginai l’opera in due tempi.
Nel primo tempo il giovane Gramsci, studente a Cagliari, nella casa del fratello, nel chiuso della stanza, tra i libri, mentre scrive la sue lettere a casa, spesso al padre per chiedere soccorso di denaro a un vivere penoso, mentre faceva un pasto al giorno, ritardando il pranzo per confonderlo con la cena;
nel secondo tempo Gramsci adulto, al carcere di Turi, nel chiuso della cella, mentre scrive i suoi quaderni e le lettere, alla madre, alla cognata, ai figli; ed è malato, e perde tutti i denti, mentre il suo cervello non smette di funzionare, come avrebbe voluto il fascismo.
Non sono riuscito a portare avanti il lavoro. Mentre realizzavo le prime scene con una lentezza per me insolita, mi sentivo andare in depressione, man mano che procedevo nella lettura delle lettere identificarmi nel vivere di questo martire mi toglieva le forze.
Scrivere di Lussu era stata tutt’altra faccenda, l’eroe delle battaglie sul Carso, l’antifascista resistente con la pistola in pugno, esule in giro per il mondo, la gloria del ritorno e così via, era stato facile.
Ma ora la rappresentazione era cupa e logorante, vedevo la resistenza sovrumana di un martire, fosse stato cattolico era santo, e non ce la facevo.
Sapete, scrivere un testo meditando e scegliendo, immergendosi nei testi di riferimento, è diverso che andare velocemente alla
lettura degli stessi e poi fare altro.
Sapevo e so che l’artista, l’attore e l’autore, deve lui emozionare gli altri, non emozionarsi, mantenere il controllo tecnico del suo operare. Ma con Gramsci non ce l’ho fatta. Ho dovuto smettere.
Qualche anno dopo ho ripreso Gramsci nel fare teatro. Era un testo dal titolo “le vie degli scrittori”, partiva dal fatto che di questi nostri sardi vediamo i nomi sulle targhe delle strade, ma poi nient’altro ce ne viene detto. Si diceva di Francesco Ignazio Mannu, di Grazia Deledda, di Giuseppe Dessì e, ovviamente, di Gramsci. Ne presentai in quell’occasione la dimensione più umana possibile: Gramsci innamorato della moglie, Gramsci sentimentale.
Citai quando scrisse a Julka, in una lettera del 30 giugno 1924, di andare “… col pensiero a tutti i ricordi della nostra vita comune, dal primo giorno (…) al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile…”.
Ora lo cito molto spesso, utilmente guardo a lui come si guarda una bussola, un calendario, un orologio, per controllare la direzione, il giorno, l’ora che stiamo vivendo e capire, del mondo in cui viviamo, quanto è distante dal mondo che vorremmo.
Gramsci morì il 27 aprile 1937, 80 anni fa, lo sapete, a soli 46 anni.
Come si suol dire, però, Gramsci non è mai morto, resta il suo pensiero, immenso, straordinario, purtroppo interrotto anzitempo, e non si può perdonare chi fu colpevole di questo delitto.
Negli ultimi anni si è detto spesso che Gramsci è patrimonio di tutti, io non credo che possa appartenere agli eredi ideologici di chi lo ha fatto morire, essi lo possono studiare e interrogarsi, se e nella misura in cui riescono a capirlo e a non roversciarne il pensiero.
E’ accaduto che si è passati da “La verità è sempre rivoluzionaria” a “La verità non sempre è rivoluzionaria”, in un film di sinistra (Cadaveri eccellenti), a “La verità non è mai rivoluzionaria”, detto in televisione, sempre citando Gramsci, da un tal Bruno Giordano, docente universitario notoriamente di destra.
Gramsci, io dico, appartiene a noi, teniamocelo stretto.
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