Venerdì 20 gennaio 2017
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La Sardegna rompa col “fronte dipendentista” dei favori e delle clientele
di Paolo Fadda su SardiniaPost
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Non so voi, ma io sono preoccupato e incavolato
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Trump al potere, un antidoto chiamato realtà contro i deliri complottisti
di Fabio Scacciavillani | 20 gennaio 2017 su Il fatto quotidiano.
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Reddito di cittadinanza, si o no?
[Città Nuova. Cultura e Informazione] Cresce la consapevolezza sulla crescita delle diseguaglianze e l’impoverimento progressivo di settori tradizionalmente appartenenti al ceto medio. Nel dibattito compare, a tratti, il riferimento al reddito di cittadinanza con accezioni molto diverse tra loro e pareri discordi sia sulla possibile applicazione di una tale misura che negli effetti reali di giustizia sociale. Riportiamo alcuni spunti utili di due noti economisti, Luigino Bruni e Vittorio Pelligra, per un dibattito molto più ampio affrontato, tra l’altro, nel Dossier di Città Nuova su Povertà e diseguaglianza per stimolare un approfondimento necessario ed esigente.
- Su Città Nuova . Cultura e Informazione.
La Sardegna rompa col “fronte dipendentista” dei favori e delle clientele
Paolo Fadda su SardiniaPost
È difficile comprendere, dagli atti politici compiuti in questi ultimi tempi, verso quale tipo di sviluppo si voglia indirizzare la Sardegna. Troppe indicazioni portano a credere che non ci sia un’idea chiara di come liberare l’Isola da quella deriva dipendentista che è la diretta conseguenza della debolezza e dell’insufficienza del suo apparato produttivo. S’avvertono, purtroppo, dei segnali contraddittori da parte della politica, che rendono ancor più oscura la direzione prescelta perché si possa invertire la marcia innestatasi in questi ultimi decenni. Per quel che è dato da vedere, sembra mancare proprio alla politica (qui intesa nel senso più lato possibile) l’attenzione dovuta ai problemi dell’economia, che sono poi il banco d’azione indispensabile per poter offrire risposte adeguate alle domande – di lavoro e di reddito – che provengono dalla nostra gente.
Per certi aspetti si potrebbe dire che anche la politica (quella cioè che dovrebbe guidare verso lo sviluppo) sia divenuta appunto dipendentista, tirata per la giacchetta da questa o quella consorteria, da questo o quell’interesse corporativo o localistico. Smarrita così ogni capacità d’autonomia, a questa politica non è rimasto altro campo se non quello di andare a raccattare voti e consensi attraverso la distribuzione di piccoli favori. Si può ben capire come questa sia una constatazione assai sconfortante, che ci penalizza per via di una guida politica del tutto inadatta, indirizzata in prevalenza verso interventi di tipo erogatorio ed assistenziale, a mettere in campo decisioni ed interventi utili per avviare una fase virtuosa di sviluppo socio-economico generale e diffuso.
C’è dunque da interrogarsi sul perché la politica sarda abbia perduto ogni capacità nell’analizzare e nell’interpretare i grandi mutamenti avvenuti nell’economia regionale in quest’ultimo trentennio. Abiurato e condannato il cosiddetto sviluppo industriale “calato dall’alto”, che aveva caratterizzato il trentennio precedente (quello, per intendersi, della legge di Rinascita e della Casmez), non ha saputo mettere insieme un progetto alternativo “dal basso”, che, attraverso un risveglio delle capacità economiche endogene, ne riprendesse gli obiettivi sociali: più lavoro, più reddito, più benessere. Tra l’altro, non sapendo offrire alla società isolana occasioni utili per cogliere nuove opportunità di sviluppo, la si è vista impegnata a distribuire, come aiuti pubblici, dei semplici rimedi antidolorifici ed ansiolitici per le più chiassose e prepotenti fra le congreghe sociali.
Gli esempi più illuminanti di queste incapacità li si ritrovano nella mancanza di idonee politiche impostate a favore dei due più significativi settori produttivi – agricoltura e industria – costretti a vivacchiare in uno sterile e stentato spontaneismo naïf ed in un fragile e penalizzante contesto di microdimensioni.
Nel rilevare queste disfunzioni nell’indirizzare e nel sostenere questi settori interessanti la sfera economica, vi è da tener presente quanto il passato ha insegnato: all’alto tasso di aiuti finanziari è sempre seguito un netto abbassamento della produttività dell’impresa beneficata (appare emblematico il caso dell’agricoltura isolana dove l’evidente caduta della produzione lorda vendibile sia stata accompagnata da una crescita degli aiuti pubblici, giunti fino ad un terzo del valore totale). Non più incentivi ed assistenze, quindi, ma disponibilità di strutture e infrastrutture idonee a “fare impresa”.
Parrebbe quindi necessario ripensare lo sviluppo all’interno di un progetto organico di political economy, che si ponga come obiettivo principale quello di rivalutare e rigenerare il “capitale sociale” disponibile localmente, attraverso l’individuazione di interventi innovativi indirizzati verso il compito primario di creare, rafforzare ed estendere la valenza autonoma del settore imprenditoriale locale. Si riterrebbe necessario stabilire (o ristabilire) degli utili legami collaborativi fra il mondo delle imprese e quelli che vengono ritenuti, in letteratura e nell’esperienza, gli indispensabili “agenti di sviluppo”: cioè con l’università per la fornitura di conoscenze e con la banca per il sostegno creditizio. Incanalando peraltro il loro appoggio verso dei progetti mirati e ben determinati, non generici. Assicurando peraltro che conoscenze e credito abbiano e mantengano un forte imprinting locale. Si è infatti convinti che la promozione ed il rafforzamento d’una base manifatturiera (nell’agroindustria, nella meccanica come nel settore delle collaborazioni “terziste” con imprese esterne) dovrebbe rappresentare l’obiettivo principale per realizzare ed estendere un sano e virtuoso sviluppo autonomo.
Perché questo possa avvenire, s’avverte la necessità di promuovere un’effettiva svolta culturale che scacci definitivamente quegli alibi di vittimismo e di rivendicazionismo, specie nei confronti dello Stato centrale, che rappresentano una copertura ideologica alle proprie incapacità ed inettitudini. Occorre quindi promuovere un forte rinnovamento culturale nelle dirigenze della nostra politica, e non solo. Occorre infatti che l’intera società civile regionale trasmigri dal fronte dipendentista a quello fortemente autonomista, attuando innanzitutto una decisa mobilitazione d’interessi e di volontà che portino la classe politica sarda a dover assumere un ruolo attivo e trainante per poter riprendere, finalmente, la strada maestra dello sviluppo. Senza deviazioni opportunistiche o scorciatoie clientelari.
Paolo Fadda
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Lo sguardo obliquo di una insorta
SCAFFALE. «Emma la Rossa» di Max Leroy, edito da elèuthera
di Alessandra Pigliaru su il manifesto
EDIZIONE DEL 20.01.2017
PUBBLICATO 20.1.2017, 0:06
Di Emma Goldman, pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa «piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto altro ancora.
La storia di cui ha fatto parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi. Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma sì.
Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del tessile.
Frequenta circoli radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo, stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico. Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale sia sui giornali che all’interno del movimento.
Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.
Appassionato e all’orlo di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931), la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra. Di più recenti invece si segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi epistolari).
Se «lo Stato è un saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre, scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno concede di amarla.
In una lettera ad Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma, come una febbre divorante, una passione elementare».
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