Toh chi si rivede: il comunismo!

copertina-inserto-comunismoComunismo17: una jam session senza nostalgia
C17: il convegno a Roma. Il fallimento del socialismo reale non coincide con il venir meno della necessità politica «del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»

di Luciana Castellina su il manifesto
EDIZIONE DEL 18.01.2017
PUBBLICATO il 18.1.2017, 14:54

Per un giornale che come il nostro [il manifesto] (ormai unico in Italia e raro nel mondo) si ostina a definirsi «quotidiano comunista», un grande convegno internazionale proprio a Roma che rilancia l’attualità dell’aggettivo, è buona cosa. Si terrà, iniziando nientedimeno che nei locali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e proseguendo anche in altre sedi (il Cinema Palazzo e Esc Atelier), dal 18 al 22 gennaio. «Un’idea di comunismo» era stato il nome delle analoghe precedenti edizioni, pensate sopratutto da Alain Badiou e Slavoj Zizek: quella di Londra del 2009, poi di Berlino, di New York, di Seul.

Questa di Roma è però speciale e infatti si chiama «Comunismo 17», perché sarà il primo evento di un centenario importante: quello della Rivoluzione d’ottobre. E già questo pone un primo interrogativo e non di poco conto: quando parliamo di comunismo in che rapporto lo poniamo con quella vicenda? Si tratta di un problema che ha a lungo travagliato il movimento operaio e però è vero che negli ultimi decenni, dopo la fine dell’Urss, è stato rimosso, difficile rintracciare un interesse per il tema nelle generazioni maturate in questo secolo, facilmente reclutate dal pensiero dominante: che si sia trattato soltanto di un altro, forse il principale, orrore del XX secolo. La giudiziosa espressione usata da Berlinguer nel 1981, al momento della definitiva rottura con il Pcus – l’ottobre ha perso la sua spinta propulsiva ma guai se non ci fosse stato – ha finito, nel migliore dei casi, come sappiamo, per esser memorizzata solo a metà. (Per la verità il ’17 è anniversario – 150 anni – anche del primo volume del Capitale, altro evento su cui chi si definisce comunista farebbe bene a meditare).
È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?
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I 100 anni che hanno sconvolto il mondo: la copertina dell’inserto de IL Manifesto
L’INDETERMINATEZZA del termine è antica, anzi originaria. Marx infatti non si è mai sognato di indicare un preciso modello di società comunista se non attraverso qualche idilliaca immaginazione di come avrebbe potuto essere la vita una volta sconfitta l’alienazione del lavoro. E proprio lui, così severo con i pasticcieri dell’avvenire, si lascia andare, nell’Ideologia tedesca, a dire: «quel che vogliamo è un mondo dove sia possibile per tutti far crescere i bambini, arredare la casa, intrattenere gli ospiti, cucinare buoni pasti, fare e ascoltare musica».

In effetti – sebbene un po’ troppo familista – non è male come obiettivo. Giustamente Herbert Marcuse aveva conferito indirettamente al progetto una sua concretezza politica con le parole dette, nell’euforia del ’68: che l’evoluzione della società contemporanea, la dinamica della produttività, ha privato la nozione di utopia del suo carattere irrealistico. Se non si possono ottenere le cose che si vogliono, non è perchè è impossibile, ma solo perché sono bloccate dai rapporti sociali di produzione del capitalismo.

Basta farli saltare, dunque. Sul perché non ci siamo ancora riusciti in realtà da tempo si è discusso poco, e temo non se ne discuterà molto nemmeno nella prossima conferenza romana: la riflessione critica e l’analisi storica sembrano essere oggi le più mortificate fra le attività cui i comunisti si sono dedicati, sebbene sia Marx che Lenin ci avessero abituato al contrario. Perché credo che se dobbiamo indicare il senso vero della parola comunismo, fra i molti che possono esserle conferiti, il più appropriato resti quello usato da Marx stesso: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; e dunque conta l’esperienza storica, quella che ha coinvolto milioni di persone nel tentativo di uscire dal sistema capitalista e dalle sue miserie; quella che ha governato, nel bene e nel male, i più grandi paesi della terra, il fenomeno che ha forse più di ogni altro segnato l’intero secolo scorso. Un grande processo rivoluzionario, poi degenerato e sconfitto. Su questo, prioritariamente, credo occorrerebbe riflettere seriamente tutti.

È COMUNQUE MERITO del convegno in preparazione aver rilanciato l’ipotesi comunista, aver sdoganato il termine, contro la vulgata che ha finito negli ultimi decenni per relegarlo ad una variante del totalitarismo, un cumulo di macerie. A renderlo di nuovo attuale sono stati i tempi più recenti, che hanno riportato all’odg in forma macroscopica i peccati del capitalismo, dimostrando la sua incapacità di garantire le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di umani. E hanno al tempio stesso reso più limpido il messaggio originario di Marx che si è sempre distinto da ogni altra critica «progressista» perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era – insomma – una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione).
Ma «la maturità del comunismo», come noi de Il manifesto nelle famose nostre tesi del 1970 indicammo come il nocciolo di quanto si manifestava nel nuovo movimento di critica della modernità capitalista, non va scambiato per attualità politica (anche allora ci fu chi lo interpretò in questi termini).

Dal ’68 un tempo epocale è comunque passato: e per chi crede, come io credo, che non possa esserci un movimento capace di cambiare lo stato di cose presenti senza un soggetto collettivo e la capacità della politica di rappresentarlo coerentemente; che pensa che il drammatico impoverimento della democrazia non sia liberazione da una gabbia filistea ma il logorarsi del terreno più favorevole allo sviluppo di un lungo processo sociale, di cose da ripensare ce ne sono non poche. Conquistare la società ancor prima del potere statale – questo è stato il comunismo italiano, forse l’esperienza più ricca ancorché così travisata dalla sinistra anglosassone – implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto. Non sarà il capitalismo nel suo divenire che produrrà di per sé il suo becchino. Meno che mai. Proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale-lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.

Tutte cose che si possono fare, naturalmente. Ha ragione il filosofo francese Alain Badiou quando dice che la scienza ci insegna che un successo è sempre preceduto da tanti fallimenti, perché questa è la ricerca. Sono anche convinta che il famoso sarto di Ulm, assunto da Bertold Brecht come apologo del comunismo, si è sì schiantato gettandosi dal campanile per dimostrare che l’uomo poteva volare, ma poi l’uomo ha effettivamente volato.

Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi. Dubito però che saremo molto convincenti se non sapremo dire ai nostri compagni di avventura di quali attrezzi avremo bisogno per non subire la stessa sorte del sarto.

Che ci si debba impegnare, evitando di farsi paralizzare da TINA (there is no alternative) – il mostro del XXI secolo – è fuori discussione. Resto convinta di quanto diceva Sartre: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche».

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