La memoria è per sempre
La memoria è per sempre
di Raffaele Deidda
By sardegnasoprattutto/ 24 gennaio 2014/ Culture/ One Comment
[Oggi] è il 27 gennaio, il Giorno della Memoria. Istituito per legge nel 2000, con l’adesione dell’Italia alla proposta internazionale che vuole ricordare le vittime dell’olocausto proprio in questa data. Questa la motivazione: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Chiedo scusa a chi già conosce la storia che racconto ormai da anni, già pubblicata in diversi giornali e siti on line. Sono consapevole di essere ripetitivo. Sento però il dovere di raccontarla ancora e la racconterò anche in futuro per chi non la conosce. Lo devo soprattutto al protagonista di questa storia, a cui l’ho promesso, e a tutte le vittime dell’immane tragedia che il mondo ricorda col nome di Shoah.
Il ricordo primo va alla metà degli anni sessanta, quando risuonavano le note della canzone di Francesco Guccini “Auschwitz” eseguita dall’Equipe 84, che stimolavano la lettura del libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”, testimonianza di un avvenimento storico e tragico, che lo stesso Levi aveva dichiarato di scrivere “per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi”. Quelle note e quel libro hanno accompagnato il mio desiderio, coltivato negli anni, di visitare Auschwitz. Poi realizzato solo in età adulta.
Jerzy Junosza Kowalewski è la guida polacca che nell’agosto 1999 mi accompagnò nella visita al campo di sterminio di Auschwitz. Aveva allora 75 anni. La visita al campo era stata emozionalmente devastante. Chi non è mai stato ad Auschwitz non può forse capire fino in fondo quale disumana, feroce bestialità si sia dispiegata in quella, come in altre località, dove la belva umana ha potuto compiere un atto così terribile finalizzato alla cosiddetta “soluzione finale”, all’eliminazione fisica di milioni di persone: ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici. Stranamente quell’anziano signore polacco, educato, gentile, che padroneggiava diverse lingue straniere, era stato quasi sereno, distaccato, nell’accompagnarmi nei luoghi dell’olocausto. Non aveva manifestato emozioni particolari durante la visita che trasferiva orrore, raccapriccio, e faceva stringere dolorosamente la bocca dello stomaco.
Eppure Jerzy Kowalewski aveva vissuto una vita complicata da raccontare e quasi impossibile da credere per la sua drammaticità. Imprigionato dai russi nel 1940 in quanto figlio di un ufficiale dell’esercito polacco, era riuscito rocambolescamente a scappare e a tornare a Varsavia, dove aveva partecipato al movimento di resistenza contro gli occupanti nazisti nel reparto del maggiore Henryk Dobrzanski, noto col pseudonimo di “Hubal”. Fu successivamente arrestato dai tedeschi e rinchiuso nella terribile prigione di Pawiak, dove venne torturato nel corso di estenuanti interrogatori e dove conobbe padre Massimiliano Kolbe, che lo assistette durante la sua permanenza nell’ospedale della prigione. Nel 1942 fu trasferito ad Auschwitz, da cui venne ancora trasferito prima nel campo di concentramento di Lordo-Rosen e poi in quello di Dachau, vicino a Monaco di Baviera.
La liberazione avvenne ad opera della 45.ma Divisione di Fanteria USA il 29 aprile 1945. Kowalewski trascorse molte settimane in un ospedale militare americano e, una volta rimessosi, si unì al Corpo d’Armata polacco ed arrivò in Italia. Dall’Italia si trasferì a Londra e da lì in Argentina, per poi tornare in Polonia.
Durante la visita al campo di concentramento Kowalewski mi aveva anche raccontato della sua collaborazione nel fornire dati e testimonianze a Primo Levi per la scrittura del libro “Se questo è un uomo”. L’anziano signore polacco mi aveva esibito con orgoglio una cartella contenente gli scambi epistolari con Levi, non nascondendo la soddisfazione di aver anche corretto alcuni errori di datazione e di localizzazione fatti dallo scrittore italiano sopravvissuto alla deportazione.
A fine visita lo stavo salutando e ringraziando, scambiando con lui la promessa di rivederci o quantomeno di sentirci telefonicamente, quando avvenne qualcosa di sconvolgente. Una giovane guida, che accompagnava un gruppo in ingresso al campo, chiamava da una distanza di qualche decina di metri con voce concitata Kowalesky, gli chiedeva di non andar via, di aspettare. Nel gruppo da lei guidato c’era un anziano spagnolo, anch’egli sopravvissuto di Auschwitz, che aveva domandato se il suo compagno di prigionia Jerzy fosse ancora in vita.
Ho già testimoniato e confermo di non aver mai provato un’emozione così forte in tutta la mia vita, nell’assistere all’abbraccio interminabile fra quei due uomini e nel vedere gli occhi di Kowalesky finalmente bagnarsi di lacrime, un fiume irrefrenabile di lacrime, mentre urlava: “Hermano, mi hermano!” La mano tremava mentre cercavo di scattare una fotografia del loro abbraccio. Non conosco il nome dell’anziano spagnolo. So solo che è un uomo, un “hermano”, un fratello, che la banalità del male aveva deciso di sopprimere forse perché ebreo, oppure testimone di Geova, oppure oppositore politico, oppure omosessuale. Forse perché, semplicemente, non appartenente alla razza ariana, la razza eletta.
Porto da allora con me il ricordo di quell’abbraccio che non mi consente di dimenticare, mai.
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La memoria deve andare alle radici
Gianna Lai – Anpi Cagliari, su Democraziaoggi
Viene da lontano la persecuzione razziale, ha radici lontane, contro un popolo appartenente da due millenni alla storia dell’Europa. ‘Benché Auschwitz resti in larga parte inspiegabile, lo studio del genocidio degli ebrei è un’inesauribile fonte di riflessione che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza e della storia degli uomini‘, dice Annette Wiewiorka, in “Auschwitz spiegato a mia figlia”, Einaudi, 1999. E ci fa ‘riflettere sul funzionamento dello Stato moderno: deportazione e camere a gas non sarebbero stati possibili senza la complicità di molti. C’è stato bisogno di impiegati per preparare tutti quegli schedari, delle forze dell’ordine per arrestare gli ebrei, di funzionari per organizzare il lager, di salariati per sorvegliarli e di tante altre persone per condurre gli autobus fino alle stazioni, guidare i treni fino ai centri di sterminio, programmare gli orari‘. Interi apparati burocratici al servizio di classi dirigenti e imprenditori, nelle città e nelle campagne. Quelle stesse élites borghesi che si accapparrarono masse enormi di lavoratori schiavi a costo zero, ormai decise a sostenere la guerra totale di conquista, unico scenario possibile perché persecuzione e genocidio possano (verificarsi) succedere. Intesa di massa, consenso ampio in buona parte del Paese. Ma anche in una buona parte delle classi dirigenti europee ci fu adesione alla politica di Hitler se, nel giro di poco tempo, l’esercito tedesco potè invadere e imporre governi fantoccio, collaborazionisti (Quisling tra i primi, in Norvegia), su quasi tutto l’Occidente. Che adottarono, a loro volta, politiche di persecuzione contro ebrei, oppositori e comunisti e zingari, nel terribile scenario della seconda guerra mondiale.
Perché per comprendere la Shoah bisogna studiarne le premesse di lunga durata, in un contesto ancora più ampio di quello della storia dell’antisemitismo tedesco, e allargare lo sguardo alle radici europee del nazismo, ‘portando l’attenzione all’ancoraggio profondo del nazismo, della sua violenza, dei suoi genocidi, nella storia dell’Occidente, dell’Europa del capitalismo industriale, del colonialismo, dell’imperialismo, della rivoluzione scientifica e tecnica, l’Europa del darwinismo sociale e dell’eugenismo, l’Europa del lungo XIX secolo concluso nei campi di battaglia della prima guerra mondiale‘, si legge in E. Traverso, La violenza nazista, il Mulino, 2002. Così in Italia la politica razziale del fascismo è da vedere in rapporto al nazionalismo e all’espansionismo coloniale, fino poi all’accelerazione totalitaria del ‘36 e al suo corpo di leggi razziali ‘che, dopo quella della Germania nazista, si presentava come la più imponente legislazione antiebraica esistente nel mondo intero‘, dice Enzo Collotti in La politica razzista del regime fascista. Fino alla notte del 16 ottobre 1943, quando 1017 cittadini italiani ebrei del ghetto di Roma (a due chilometri dal Vaticano, precisa Furio Colombo), furono deportati ad Auschwitz e quasi tutti uccisi. Fino alle corresponsabilità della Repubblica sociale di Salò nella deportazione degli ebrei, ma anche degli zingari, dei comunisti e dei partigiani, degli oppositori e dei militari, che si rifiutarono di entrare nell’esercito tedesco.
“Auschwitz fa parte della storia europea,[…..] probabilmente è l’avvenimento più europeo di tutta la storia del Novecento”, dice ancora Annette Wiewiorka. E allora, storicizzare la Shoah significa problematizzare il passato e cercare di costruirne un possibile senso, contro ogni sentimento di impotenza, di pura angoscia e smarrimento, che potrebbe colpire in particolre gli studenti e i giovani. Contro ogni semplificazione centrata sulla natura malvagia dell’uomo, sull’idea del nazismo come parentesi storica, per riflettere, con lo storico, sul come e sul perché del genocidio. Collocare l’evento nella storia, perchè non diventi per l’uomo qualunque ‘realtà aliena che non gli appartiene e non lo coinvolge‘, G. Gozzini in Lager e gulag, B Mondadori, 2002. Da qui la necessità di un confronto con altri crimini e genocidi: la Shoah, ‘come qualsiasi altro avvenimento storico, può e deve essere oggetto di paragone, senza che per questo ne venga negata la singolarità‘. E attraverso la singolarità storica della Shoah, individuare quelle caratteristiche che sono presenti anche in altre violenze di massa e gli elementi specifici e differenti. Un approfondimento comparativo tra genocidio ebraico e altri stermini: da quello degli zingari, degli oppositori politici e dei comunisti, degli omossessuali dei malati mentali, fino al genocidio degli Armeni, al Ruanda, ecc.
Per concludere con E. Traverso, ‘Il processo di distruzione degli ebrei d’Europa, le leggi razziali, la persecuzione, la deportazione, la concentrazione e lo sterminio, fanno di Auschwitz un laboratorio privilegiato per studiare l’immenso potenziale del mondo moderno. Se all’origine di questo crimine c’è un’intenzione di annientamento, esso implica, d’altra parte, strutture fondamentali della società industriale. Auschwitz realizza la fusione dell’antisemitismo e del razzismo con la prigione, la fabbrica capitalistica, l’amministrazione burocratico- razionale. In questo senso il genocidio ebraico costituisce un paradigma della modernità piuttosto che la sua negazione‘. Paradigma della violenza del XX secolo, e strumento per la comprensione delle sue diverse manifestazioni.
La Giornata della Memoria a settant’anni dalla approvazione della nostra Carta costituzionale, che per ben due volte abbiamo difeso e salvato contro governi e maggioranze ideologicamente orientate verso la restrizione delle garanzie, dell’uguaglianza, dei diritti. Della democrazia quindi, che proprio dall’impegno degli oppositori al nazifascismo nasce in Europa, per dare risposte al cittadino, e consapevolezza, anche di fronte alla violenza degli stati e del potere.
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