“La sovranità appartiene al popolo” ?

logo CQDemocrazia, se il popolo non conta più nulla
di Angelo Cannatà su MicroMega

Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo.

Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i Movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il Paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?

A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del Paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), “l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher”. Camusso ha ragione: “Non c’è libertà nel lavoro senza diritti”. Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.

È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: “Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita”). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale?

È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così. Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro Paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo.

Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il Paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.

(16 gennaio 2017)
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Verso i referendum sul Job Act
di Roberto Mirasola su il manifesto sardo

No al referendum sull’articolo 18 è questa l’inesorabile decisione che la Corte Costituzionale ha espresso mercoledì 11 gennaio. La decisione di per se lascia perplessi ma prima di poter esprimere giudizi di merito è opportuno aspettare le motivazioni della sentenza.

Ad ogni modo vengono ammessi gli altri due quesiti posti all’attenzione della suprema Corte: i voucher e la clausola di responsabilità negli appalti per le imprese appaltanti e appaltatrici. Non bisogna dunque demordere visto la pressione del governo, (e per la verità non solo la sua), intenzionato ad apportare alcune modifiche per evitare il referendum. Non bisogna dimenticare che l’ultima parola spetta alla Corte di Cassazione che se dovesse rilevare modifiche sostanziali potrebbe far saltare il previsto referendum. Insomma non bisogna mollare la presa vista l’importanza della posta in palio. Il dibattito pubblico al riguardo è già partito e le posizioni sono le più disparate possibili, ma tutte mirano a salvaguardare la normativa sui voucher, seppure con modifiche.

C’è chi vuole inserire delle quote massime di voucher in proporzione al numero degli occupati in azienda, chi ritiene che il loro utilizzo si debba limitare ad alcuni settori di attività e chi invece ritiene sia sufficiente rivedere i limiti reddituali che ciascun lavoratore può percepire in un anno. Tutti invece sono d’accordo nel ritenere che in effetti in questi anni vi è stato un abuso dello strumento legislativo nato, come ai più piace sottolineare, per far emergere il lavoro nero. La verità è che lo strumento dei voucher non è altro che l’ultima frontiera del precariato ed è scorretto parlare di abuso, visto che è stata proprio l’evoluzione normativa ad allargarne il raggio di utilizzo. Il lavoro temporaneo accessorio, meglio conosciuto con il nome di battaglia di “ voucher”, nasce per regolamentare forme di lavoro occasionale non rientranti in lavori previsti dalla contrattazione collettiva. In realtà negli anni si amplia la platea di coloro che possono utilizzare i voucher così come le prestazioni lavorative previste e vanno a riempire tutte le tipologie lavorative.

Oggi persino i professionisti possono prestare la loro opera con i voucher. Naturalmente niente accade per caso e tutto questo si è verificato perché lo strumento legislativo stesso lo consentiva. In definitiva già dall’inizio si poteva prevedere ciò che sarebbe successo in seguito. Ciò che occorre è un cambio di mentalità nel legiferare sul lavoro. È infatti dal pacchetto Treu in poi che si alimentano forme di precariato senza che si risolva il problema della disoccupazione e il motivo è molto semplice: per creare occupazione bisogna ridurre il costo del lavoro. È evidente che il carico contributivo e fiscale che un azienda oggi sostiene è fin troppo oneroso. Ma neanche questo può essere sufficiente senza una politica industriale oggi mancante.

È evidente che con salari bassi e domanda interna mai in ripresa è poco pensabile che le imprese possano pensare ad assumere. Sono dunque necessarie politiche espansive che possano far ripartire i consumi oggi legati al palo. Bisogna dire che tutto questo diventa difficile in un contesto di austerità imposta dai vertici europei. Insomma da fare ce ne sarebbe tanto, occorre però una visione politica bene chiara e soprattutto in discontinuità con i tempi. Staremo a vedere.
(16 gennaio 2017)

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