Oggi giovedì 12 gennaio 2017
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Il concetto che ci guida: Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà (Antonio Gramsci).
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L’alternativa necessaria – di Stefano Puddu Crespellani su Sardegna Mondo.
Stefano Puddu Crespellani (grafico, artista, attivista politico a cavallo tra Sardegna e Catalogna) ragiona sulla situazione politica sarda e i suoi possibili sviluppi, con l’urgenza che il tema merita.
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Il primo colpo della battaglia elettorale
Norma Rangeri su il manifesto
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L’alternativa necessaria – di Stefano Puddu Crespellani su Sardegna Mondo.
Stefano Puddu Crespellani (grafico, artista, attivista politico a cavallo tra Sardegna e Catalogna) ragiona sulla situazione politica sarda e i suoi possibili sviluppi, con l’urgenza che il tema merita.
Il tempo, nelle ultime settimane, si è accelerato. Viviamo equilibri sommamente instabili. La politica, in particolare, è un territorio sismico. In Sardegna forse più che altrove.
Non c’è da stupirsi: sia la demografia che l’economia cominciano a avvertire i rischi delle piramidi invertite, con la base che si assottiglia mentre i piani alti vengono caricati di eccessivo peso. Così, il disagio di chi vive in basso sta diventando progressivamente insostenibile. E quando l’edificio è traballante, la cosa riguarda anche chi sta sopra.
Il neoliberalismo, che ha conquistato il mondo e le menti delle persone grazie al suo potenziale pubblicitario di seduzione, sta mostrando sempre più la sua ferocia sottostante.
Crisi, povertà, guerre, scandali e disastri sono il risvolto di un biglietto da visita in carta patinata, che ormai non inganna più nessuno. Il fatto di avere perduto consenso, però, non ne ha ridotto l’efficacia.
Perché si tratta di un sistema che si alimenta delle crisi che produce, e attraverso di esse si rafforza. I miti della sicurezza, dell’efficienza, della modernità, come beni supremi da proteggere, ci fanno tollerare una gestione sempre più autoritaria di uno “stato di emergenza” divenuto ormai strutturale e permanente.
Accentramento del potere e riduzione delle garanzie: ecco il nostro pane quotidiano, che purtroppo non rimette i nostri debiti bensì li accresce. Tutt’al più, ogni tanto, ci viene restituito come elemosina ciò che ci è stato sottratto come diritto.
Nel frattempo, il sistema neoliberale sta penetrando sempre più in profondità nel tessuto legale e amministrativo, con un lavoro instancabile di riscrittura delle regole e modificazione dei procedimenti, fino a renderlo inestirpabile, se non lo fermiamo in tempo.
È stata questa, per esempio, la strategia della riforma costituzionale: sancire nella Carta fondamentale dello Stato l’irrilevanza progressiva del popolo, un tempo sovrano.
Ma c’è stata una sorpresa, una parziale novità: sono apparsi gli anticorpi. Contro la prepotenza del quesito, la risposta della maggioranza silenziosa è stato un fragoroso NO.
L’interpretazione esatta del senso di quel voto non può darla nessuno, ma in ogni caso ha la natura dello scacco: dice in modo chiaro che non basta avere un sacco di soldi, il controllo dei media, le star televisive, per imporre le proprie decisioni; perché c’è ancora un popolo —pensante, sofferente, desiderante— che non è disposto a scomparire dalla scena.
Spesso si tratta del popolo degli astenuti, così poco monitorato, così dato per perduto, così irriducibile ai balletti elettorali; persone deluse dalla politica, ma non certo disposte a farsi ingannare all’infinito. Chi vuole novità, deve avere più coraggio nello scrutare questa vasta area buia.
In Sardegna, come sappiamo, la scoppola referendaria è stata ancor più dura. Un vero e proprio scatto di ribellione, un rigurgito di dignità da parte di un popolo stanco di non poter decidere su niente.
Allo specifico costituzionale si aggiungeva, senza dubbio, una elevatissima quota di insoddisfazione per le politiche autonomiste, dopo tre anni di “futuro” che non comincia mai.
Per molti è stato duro constatare nei fatti l’equivalenza perfetta tra centrosinistra e centrodestra. La continuità tra i due governi —in teoria opposti— è stata tristissima. In alcuni casi si è riusciti a peggiorare, come per la questione linguistica.
Ma soprattutto si è arrivati a un vertice assoluto di sudditanza verso i poteri romani: la spinta accentratrice renziana veniva qui accolta con un entusiasmo succursalista davvero imbarazzante.
Francesco Pigliaru, che ha svolto ottimamente il ruolo di candidato-foglia di fico per coprire le miserie e le faide interne del PD, non è riuscito a tenere in pugno le redini di una compagine già dal principio piuttosto disunita.
L’assenza di un modello di gestione e di un “nord” programmatico da seguire ha reso la giunta inoperante su tutte le sfide strategiche: mobilità, lavoro, zone interne, pubblica amministrazione, sostenibilità, lingua, ecc. Il progressivo scollamento dei “professori” dalla realtà sociale, e il posizionamento succube al renzismo, l’hanno esposto a un crescendo di attacchi frontali e, infine, a una bocciatura senza appello.
È di queste settimane, purtroppo, la notizia di un Pigliaru sofferente. Non è dato sapere a quali tensioni interne e esterne si è visto sottoposto, ma dispiace pensare che la politica, così come viene concepita oggi, possa diventare un pericolo diretto per la salute di chi ne è coinvolto.
La malattia non si augura a nessuno, ma pur con i migliori auspici per un rapido recupero del Presidente, le voci di un finale prematuro della legislatura cominciano a circolare. Da qui, una ulteriore accelerazione degli eventi in vista di un ipotetico scenario di elezioni anticipate.
L’interesse per sapere cosa farà il centrodestra, per superare la situazione di sbandamento e relativa irrilevanza che attraversa, è piuttosto scarso; troverà certamente modi di riaggregarsi attorno a una proposta mediocre, che a suon di milioni verrà contrabbandata come panacea.
Più rilevante è, invece, capire cosa farà il PD per sfuggire al tonfo elettorale, viste le premesse del referendum. Circola con insistenza, in questi giorni, l’ipotesi di un vero e proprio “patto col diavolo”, che consiste nel dare una riverniciatura sovranista alla coalizione, in una operazione di ingegneria elettorale capitanata dal duo Antonello Cabras–Paolo Maninchedda.
Avrebbero a loro favore una legge elettorale truffaldina, concepita a uso e consumo delle coalizioni maggioritarie, che la giunta attuale si è appunto ben guardata dal modificare, com’era invece giusto e necessario.
Se queste voci si confermano, vediamo profilarsi nitidamente uno scenario di “democrazia impoverita”, con decisioni prese a tavolino da pochissime persone, che giocano tutte le loro carte non sul coinvolgimento democratico ma sull’intreccio dei “pacchetti di voti” e delle relazioni di favore con grandi centri di interesse.
La politica sarda verrà ulteriormente piegata alla logica dei favoritismi, occupata da eserciti di fedelissimi, piazzati come pedine in ogni luogo di potere, sia pur piccolo, dello scacchiere regionale. La regressione democratica a cui andremmo incontro fa spavento anche solo a immaginarla. E non sarebbe certo di corta durata.
A fronte di questa eventualità, si presenta in modo quasi ovvio il bisogno di costruire, in tempi brevi e senza sbandamenti, un polo politico alternativo, sulla base di principi semplici e chiari, e attorno a punti programmatici fondamentali, condivisibili dalla grande maggioranza dei sardi.
Questa proposta politica deve nascere in modo nuovo pur non essendo nuova. La sua prima premessa è quella di segnare una discontinuità chiara con il malgoverno degli ultimi decenni.
Non sono pensabili commistioni, né con gli attori politici che hanno portato la Sardegna allo stato di sfacelo in cui si trova, né con le forze politiche a cui si rifanno, il cui quartier generale sta fuori dall’Isola.
La proposta si rivolge e vuole agglutinare tutte le sarde e tutti i sardi liberi, che hanno l’onestà come bandiera, l’autogoverno come prospettiva e il bene comune della Sardegna come orizzonte.
Ci vuole anche una volontà chiara di ripudio del cannibalismo politico così di moda negli ultimi tempi: al contrario, per chi ha a cuore la Sardegna, diventa prioritario l’impegno di bonificare il terreno politico da faide, guerre, giochi sottobanco, capibastone e quant’altro.
Il modello da seguire è quello di una “democrazia aumentata”, basata sul rispetto, sulla partecipazione, sul riconoscimento reciproco, sul dialogo franco e sulla capacità di tendere con lealtà a obiettivi comuni.
Uno di questi, tra i primi impegni da prendere, è quello di elaborare una nuova legge elettorale per la Sardegna, che ristabilisca condizioni favorevoli per ricostruire il patto politico soggiacente alla rappresentanza.
Sul piano della proposta, bisogna ricominciare a costruire là dove le necessità sono maggiori, ovvero dalla base: dalle “zone interne”, dall’attività primaria, dal bisogno di lavoro e dignità.
Si tratta di rinunciare a inseguire i miti di una “modernità” per pochi fortunati e lavorare invece per costruire sinergie territoriali durevoli per tutti. Occorre superare la logica del neoliberalismo competitivo e spietato, e investire di nuovo in sostenibilità e cooperazione, nei beni comuni, nella creazione di comunità resilienti.
Avere a cuore la Sardegna significa lavorare per liberarsi da servitù e sudditanze, siano esse militari, industriali, culturali o politiche. Si tratta di promuovere al massimo il potenziale culturale dei sardi, cioè rendere prioritari l’apprendimento, la formazione, la ricerca.
Occorrono politiche coraggiose e anche fantasiose di promozione della lingua, associata alla creatività, alla cultura, agli scambi. Tutto questo e un’altra infinità di cose, da fare insieme, da pensare e scrivere con il contributo di ciascuno.
Una cosa è chiara: un polo alternativo, oggi, va fatto per convincere la maggioranza dei sardi che è arrivato il momento di cambiare, di provare una strada nuova. L’unico modo per convincerli è quello che il progetto sia uno solo, maturo e coeso.
Una proposta dove ci sia il meglio di tutto quello che è stato fatto finora. Come sempre accade, per convincere gli altri della bontà della proposta dobbiamo esserne convinti noi, prima.
La situazione ci chiede di esserci tutti, e di esserci bene, convinti, trovando l’accordo su patti nobili e giusti, ineccepibili. Una proposta che cresca dalla base e coinvolga chi normalmente si sente inascoltato e escluso. Se siamo capaci di pensarla, saremo capaci di farla. E allora verrà fuori anche chi sarà capace di guidarla.
S.P.C.
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EDITORIALE
Il primo colpo della battaglia elettorale
Norma Rangeri su il manifesto
EDIZIONE DEL 12.01.2017
PUBBLICATO 11.1.2017, 23:59
Quale sarebbe la forza di una campagna referendaria sul lavoro in Italia non è difficile da immaginare. Quale valenza avrebbe, per la sinistra, ingaggiare, così come è già accaduto per il referendum sulla Costituzione, una battaglia elettorale, politica, culturale sul tema cruciale dell’occupazione è altrettanto evidente. Aver dichiarato inammissibile il quesito sull’articolo 18, come ha fatto ieri la Corte Costituzionale, è sicuramente un pessimo segnale, ma non decisivo. Certo, una Repubblica che si proclama fondata sul lavoro sforna, nella realtà, leggi che negano la pari dignità tra lavoratore e datore di lavoro (ti licenzio, il perché non ti riguarda, prendi un bonus e a casa). Vedremo quali saranno le motivazioni della sentenza per un esito comunque combattuto tra i 14 giudici.
Ma sbaglia chi pensa che il tema dei voucher, la modalità di lavoro non di una minoranza di pensionati, bensì dell’area centrale dell’occupazione, quella dei 35 anni, sarebbe di minor impatto nella mobilitazione e nel voto. Al contrario, assisteremmo a una partecipazione massiccia dei giovani, e di quei cittadini che oggi, specialmente nel Sud, subiscono il pesante arretramento nelle condizioni, materiali e morali, della loro vita.
Il condizionale naturalmente è d’obbligo perché è sempre possibile un intervento legislativo che neutralizzi il referendum, e perché se con la sentenza della Corte Costituzionale è comunque iniziata la campagna elettorale resta tutto da vedere di quale natura sarà: se si tratterà della corsa referendaria contro voucher e appalti, o se, invece, tra qualche mese saremo chiamati a eleggere i parlamentari della prossima legislatura.
Oggi sui muri delle nostre città parleranno i primi manifesti della Cgil con l’invito a votare due sì. Dopo aver raccolto oltre tre milioni di firme, il sindacato di Susanna Camusso, in questa settimana obiettivo prediletto dei giornaloni, è ben intenzionato a battere nelle urne le politiche del lavoro promosse dal jobs act. Quelle stesse così orgogliosamente rivendicate dall’attuale presidente del consiglio Gentiloni, e dal suo predecessore Renzi.
Tuttavia è evidente che un bandolo della matassa è nelle mani dell’ex presidente Renzi, e delle forze che a lui si riferiscono. Sarà massimo il suo impegno per evitare di sprofondare di nuovo sul terreno sfavorevole dello scontro referendario, preferendogli le elezioni anticipate (bruciando così il terzo governo del Pd). Ma qui il gioco dei Palazzi è sovrano, le alchimie piuttosto fumose, le trappole trasversali in agguato. Intanto, pur in maniera meno diretta che nel caso dei quesiti referendari, sarà ancora il Palazzo della Consulta a definire su quali premesse potranno agire le correnti dei partiti per definire una legge elettorale post-Italicum. Così come sarà Palazzo Chigi a decidere come staccare la spina a se stesso, con il partito di maggioranza che, attraverso alcuni suoi esponenti di primo piano, va dicendosi pronto anche al gesto estremo di ritirare la fiducia al suo governo. Poi, su tutti, a dire la sua sarà il Palazzo del Quirinale. Mattarella ha detto sì il 4 dicembre, appoggia il Jobs act, ha aperto l’ombrello sul governo fotocopia, ma non sarà facile schierarlo tra i pasdaran del voto anticipato.
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