Dossier della Caritas 2016. Solidarietà e rivoluzione

Copertina-caritas-2016-singolaIl Dossier della Caritas diocesana 2016 si inserisce pienamente nel percorso di preparazione della settimana sociale che si terrà a Cagliari nel mese di ottobre del prossimo anno e che ha per titolo “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. Il tema del lavoro in Sardegna rappresenta una priorità ed è fonte di grande preoccupazione perché il sistema economico continua a peggiorare.
Il contesto regionale. Secondo il rapporto Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno), nel corso del periodo 2000 – 2015 il PIL sardo è diminuito del 3,8 per cento e praticamente tutti i principali parametri economici portano il segno negativo. Per esempio, nel settore agricolo il valore aggiunto pro capite è in drastica riduzione, dato che era di 28,7 mila euro nel 2014 e di 23,9 mila euro nel 2015. La stessa cosa si riscontra nel terziario. In questo caso cresce il valore aggiunto del settore così come cresce l’occupazione ma diminuisce il valore aggiunto pro capite che passa 49,9 mila euro a 49 mila euro. Ben più consistenti sono le negatività del comparto industriale che nell’aggregato dell’industria in senso stretto, registra un calo degli addetti a 51,1 mila erano 53,1 mila l’anno precedente e 62,3 mila nel 2000.
Ancora più pesante è la situazione delle costruzioni che relativamente agli occupati registra una flessione di 5 mila unità tra il 2014 e il 2015 e di 15 mila rispetto al 2000.
In buona sostanza l’economia non riesce a ripartire, sottolineando una certa difficoltà del sistema economico regionale a sganciarsi dalla spirale recessiva.
Il tasso di disoccupazione (aggregato maschile e femminile) raggiunge il picco massimo nel 2014 con il 18,6% che è anche punto di flesso; nel 2015 il tasso è sceso al 17,4%. Il problema dei giovani appare uno degli elementi più preoccupanti che assume per alcuni aspetti il carattere della drammaticità. Lo scoraggiante scenario di riferimento, infatti, vede aumentare il numero dei giovani, fra i 15 e i 24 anni, che decidono di non studiare, non essere occupati in attività lavorative né impegnati in attività formative: sono coloro che rientrano nella categoria NEET (neither in employment nor in education and training). Se per l’Europa (EU 27) il valore rimane attorno al 12,5% per lo stesso periodo di riferimento, 2014, per la Sardegna questo valore nell’ultimo triennio ha addirittura più che raddoppiato la media europea, raggiungendo nel 2014 un picco del 27,7% che, tradotto in numeri semplici, vuol dire che quasi un ragazzo su tre è in condizione di non impiego né formazione. Questa scarsa capacità di assorbimento si traduce in un tasso di disoccupazione giovanile in forte crescita nel periodo, passato dal 30,78% del 2010 che ha rappresentato il minimo fino al 44,27% nel 2014 che scende di 1,87 punti percentuali (42,4%) nel 2015. Sono numeri che se letti congiuntamente con i NEET e con il tasso di dispersione scolastica riportato dal MIUR per il quinquennio 2009/10-2013/14 pari al 36,2% (27,9% media italiana) danno una visione molto preoccupante per il futuro delle giovani generazioni, con una particolare gravità per coloro che posseggono un titolo di studio. Il numero di disoccupati in possesso di un titolo di laurea o superiore è passato da 1 ogni 17,8 nel 2009 – aumentando fino a 1 disoccupato laureato ogni 18,5 laureati nel 2011 – a 1 disoccupato ogni 12,8 laureati nel 2015. Sono numeri che lasciano presagire un decadimento del vantaggio competitivo del titolo di studio e della specializzazione nel mercato del lavoro isolano. Se poi si va a vedere l’ultimo rapporto Censis uscito proprio nel mese di dicembre il quadro che appare assume tinte ancora più fosche. Rispetto alla media della popolazione, oggi le famiglie dei giovani con meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1 % e una ricchezza inferiore del 41,1 %. Tutto ciò incide naturalmente sui fenomeni connessi e in particolare sulla povertà. Le persone a rischio di povertà o esclusione sociale in Sardegna sono il 36,6 % dei residenti, ben 8 punti in più della media italiana, aspetto che viene taciuto a livello politico.
All’impoverimento economico si accompagna il rischio dell’impoverimento morale, perché si cercano rimedi illusori attraverso i giochi d’azzardo legalizzati; molto opportunamente contro questa tendenza si sta impegnando da anni la Caritas attraverso la Fondazione antiusura, il Prestito della speranza, l’azione di educazione alla gestione delle risorse finanziarie.
Caratteristiche fondamentali dei soggetti assistiti dalla Caritas
In media sono circa 800 i pasti giornalieri preparati dalla Cucina Caritas, con punte di oltre mille nei momenti di maggiore difficoltà; gli assistiti nel corso del 2016 sono stati 2.259, di cui 1.098 donne (48,6%) e 1.161 uomini (51,4%).
La maggioranza degli utenti risulta essere di cittadinanza italiana, in una percentuale pari al 73,3% del totale (1.607 soggetti tra i quali sono annoverati anche coloro in possesso della doppia cittadinanza) contro il 26,7% di stranieri (pari a 584 soggetti).
Il paesi più rappresentati risultano essere la Romania (15,0%), Nigeria (13,7%), Senegal (11,9%), Mali (8,0%), Bosnia – Erzegovina (5,4%) e Marocco (5,4%).
A conferma di quanto rilevato nelle scorse edizioni, anche l’analisi al 2016 attesta che la fascia d’età prevalente nell’evidenziare situazioni di disagio comprende i soggetti di età compresa tra i 35 e 44 anni (25,5)%, seguita dalla classe 45-54 anni (23,6%).
Gli utenti transitati nei vari Centri d’Ascolto della Caritas Diocesana di Cagliari nel 2016 nella prevalenza dei casi risultano avere un domicilio (90,1%). I senza dimora rappresentano una minoranza (7,9 %).
Il titolo di studio maggiormente diffuso è la licenza media inferiore (47,6%) seguita dalla Licenza Elementare (20,1%); leggendo quindi il dato cumulato relativo ai due titoli di studio emerge che circa il 67,7% degliassistiti possiede al massimo la licenza media inferiore.
Il dato al 2016 registra inoltre che il 3,5% degli assistiti possiede una laurea (contro il 3,1% dell’anno precedente), e che aggiungendo a tale categoria i possessori di Diploma Universitario, pari allo 0,4%, si arriva a una percentuale del 3,9%. Possiamo quindi affermare che, sebbene continuino a prevalere i titoli di studio bassi, rispetto agli anni precedenti si sono registrati dei sensibili aumenti di utenti in possesso di laurea o diploma di scuola secondaria superiore.
Lo status di disoccupato caratterizza oltre il 60% degli utenti rilevati (51,8% disoccupati in cerca di un nuovo impiego e 11,5% disoccupati in cerca di prima occupazione). Aggiungendo alla quota dei disoccupati i pensionati (6,0%), gli inabili al lavoro (1,7%) e le casalinghe (9,5%) emerge come complessivamente oltre il 75% degli utenti osservati non lavora. Quanto agli assistiti in possesso di un’occupazione, questa condizione è dichiarata dal 16,7% dei maschi e dal 12,5% delle donne. La categoria dei pensionati è presente nel 7,1% delle comunicazioni dei maschi e nel 6,0% delle dichiarazioni delle donne.
I valori medi osservati evidenziano che i bisogni degli assistiti sono in prevalenza di natura economica (31,7% nel 2015 e 33,9% nel 2016), segnale importante della frequente condizione di povertà che pare colpire un terzo degli utenti dei Centri d’Ascolto.
Negli ultimi due anni osservati (2015 e 2016) le richieste dell’utenza in più dell’80% dei casi hanno riguardato il semplice ascolto (27,4% e 18,5%), i sussidi economici (24,9% e 26,5%), la necessità di beni e servizi materiali (19,7% e 22,3%) e il lavoro (13,4% e 11,5%). Il dato relativo all’orientamento indica che la quota associata è passata dal 5,3% del 2015 all’8,0% del 2016, mentre le altre casistiche hanno fatto registrare valori sotto il 4%.
Notevole è poi l’attività svolta a favore dell’immigrazione, sia da parte della Caritas, sia da parte delle cooperative, non solo attraverso i centri d’ascolto, ma anche tramite l’erogazione di numerosi tipi di servizi, come l’attività dei medici ambulatoriali, lo sportello farmaceutico, la distribuzione di pacchi alimentari, libri, giocattoli, etc., gli interventi per i senza dimora (docce, etc.). Un insieme di servizi ampio e di crescente complessità dato il continuo incremento degli individui che, in numero sempre maggiore, si rivolgono alla Caritas.
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GIOVANI e FEDE
Atlante-Farnese_02atei? un’indagine sorprendente
di Giannino Piana su Rocca 23/2016

Nonostante la grande difficoltà che si ha oggi ad interpretare il mondo giovanile, sia per le marcate differenze esistenti al suo interno che per la estrema mobilità che lo caratterizza, si può dire che il fenomeno della «non credenza» (o forse più radicalmente dell’«ateismo») è in esso in consistente crescita. A rilevare, con chiarezza, questo dato è una ricerca nazionale condotta di recente da Franco Garelli e pubblicata dall’editrice Il Mulino (Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna 2016, pp. 231) su un ampio campione di giovani dai 18 ai 29 anni, residenti nelle diverse aree geografiche della nostra penisola e appartenenti alle diverse classi sociali.

Il 28% dei giovani indagati si dichiarano infatti «non credenti» e l’aspetto più sorprendente è costituito dal tasso di accelerazione che tale fenomeno ha avuto negli ultimi anni, se si considera che l’incremento odierno è del 40% superiore rispetto al 2007, anno in cui è stata condotta, con criteri analoghi, una indagine sulla situazione religiosa in ambito giovanile. Se a questo si aggiunge che il numero dei giovani che manifestano in maniera convinta la loro fede si è ridotto negli ultimi venti anni del 30% – essi rappresentano oggi circa il 10,5% dell’intera popolazione giovanile – si ha un quadro della situazione che non può che suscitare allarme nei responsabili delle istituzioni religiose e negli operatori pastorali.

le ragioni del distacco

Il fenomeno, peraltro più contenuto rispetto ad alcune aree europee, coinvolge maggiormente le zone più avanzate del Nord e i soggetti con istruzione più elevata e riguarda – anche questo è un elemento significativo – giovani che per oltre il 90% hanno ricevuto il battesimo e fatta la prima comunione (un po’ meno la cresima) e per il 68% hanno frequentato, almeno per qualche tempo, la parrocchia e l’oratorio. Le ragioni di questo distacco, che risulta ancora più rilevante se si assomma a coloro che si professano «non credenti» il numero consistente di «atei pratici», cioè di coloro che pur dichiarandosi credenti vivono «come se Dio non esistesse», sono molte e di diversa natura. Ciò che le accomuna è tuttavia una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera la conoscenza sperimentale e la considerazione che non è necessario il ricorso a Dio per condurre una vita sensata e moralmente corretta.

Nel primo caso, ad esercitare un ruolo determinante è l’affermarsi della mentalità positivista e scientista, che induce – direbbe Gabriel Marcel – all’assunzione di un atteggiamento «problematico» con l’esclusione conseguente del «senso del mistero», che viene identificato con l’«irrazionale» o con il «magico». Nel secondo, oltre alla constatazione della scarsa testimonianza resa da coloro che si dicono «credenti», i quali ispirano spesso la loro condotta alla logica mondana, un’importanza decisiva riveste il processo di secolarizzazione, che ha reso evidente l’autonomia dell’etica dalla religione, la possibilità cioè di fondarla sulla ragione umana e perciò di condurre una vita onesta a prescindere dal riferimento religioso. In ambedue i casi ad essere messa sotto processo è la religiosità tradizionale che risulta a molti priva di una vera convinzione di fede, improntata a una visione precettistica e di facciata e basata ancora sulla immagine di un Dio giustiziere.

Ma a questi fattori che coinvolgono la significatività della fede e la sua capacità di tradursi nell’acquisizione di stili di vita umanizzanti si associano (e si assommano) fattori esterni, che hanno direttamente a che fare con il difficile rapporto con la chiesa, caratterizzato, in molti casi, da un rifiuto radicale, causato da ragioni sia ideologiche che pratiche. Alla contestazione della mediazione ecclesiale, frutto di un sentire religioso sempre più soggettivo ed autonomo, si accompagna la denuncia dell’anacronismo delle posizioni ecclesiastiche su molte questioni attuali di carattere etico – si pensi soltanto alla morale sessuale e familiare e alla bioetica – e, ancor più radicalmente, la reazione nei confronti dell’atteggiamento dogmatico, dello stretto intreccio con la politica (e con il potere in generale) e della contro testimonianza del mondo ecclesiastico: devastanti sono stati, al riguardo, gli scandali recenti provocati dal fenomeno dei preti pedofili e da Vatileaks.

Si può, in definitiva, affermare che la religione ha perso di credibilità e di funzione sociale, mentre, a sua volta, la chiesa, che registra un forte ritardo sul terreno della comunicazione, sia a causa del linguaggio arcaico della predicazione e della catechesi, sia di un vero e proprio deficit relazionale, motivato soprattutto dalla scarsa disponibilità dei sacerdoti – anche per la loro radicale riduzione numerica – a farsi trovare e ad ascoltare.

luci e ombre della situazione

In realtà, a ben vedere, l’estraneità alla fede, che i giovani non hanno oggi remore a manifestare – questo è forse uno dei motivi per cui i «non credenti» appaiono quantitativamente più numerosi del passato – è addebitabile, in ultima analisi, a un clima culturale, in cui individualismo libertario, materialismo, consumismo e logica mercantile sembrano divenuti gli unici criteri ai quali ispirare la propria condotta. Le difficoltà a vivere la fede, qualche volta persino a rendere pubblica la propria appartenenza religiosa – come osserva D. Hervieu-Léger riferendosi in particolare alla situazione francese – sono molto più accentuate che in passato. Il vangelo è oggi più che mai «segno di contraddizione»; è un messaggio controcorrente, alternativo alla logica dominante, e dunque faticoso da accettare e fare proprio, anche se grandemente liberante. Accanto alle ombre non mancano tuttavia le luci. A colpire nell’inchiesta di Garelli è, a tale proposito, la persistenza nel mondo giovanile di una consistente domanda di senso e l’ammissione da parte del 67% dei giovani interpellati che «credere in Dio» è un atteggiamento plausibile, nonché il riconoscimento che il bisogno religioso ha un carattere perenne, perché costituisce una delle risposte più autorevoli alla questione del senso. E ancora più significativa è la constatazione che la fede di quanti si definiscono credenti, lungi dal dipendere da condizionamenti ambientali o da convenzioni sociali, è la risultante di una scelta responsabile, non abitudinaria, ma radicata su convinzioni profonde, che conducono sul piano esistenziale a comportamenti maggiormente coerenti.

un nuovo modello di religiosità

La crisi della fede, d’altronde – è questo un tratto che l’analisi di Garelli non manca di rilevare – non significa abbandono di ogni forma di spiritualità, che ha tuttavia carattere eminentemente individuale e che riveste connotati strettamente immanenti, non identificandosi con il rapporto con l’Altro ma con il proprio mondo interiore. Una spiritualità, dunque, di carattere tendenzialmente orizzontale, volta a conferire armonia e benessere alla persona. A questa accezione ci si riferisce nell’inchiesta quando si parla di milieu olistico, alludendo a un contatto con il sé mediante la convergenza positiva di corpo, mente e anima. Questo giustifica anche l’accostamento alla spiritualità orientale, induista e buddista in particolare, sia pure interpretate in forme occidentali spesso vaghe e imprecise, nonché la diffusione, più in generale, di esperienze alternative, per quanto in misura ancora piuttosto ridotta.

D’altra parte, anche laddove, come in molti casi, si dà una sovrapposizione tra spiritualità e religione – quest’ultima rappresentata in primo luogo dal cattolicesimo per la persistenza piuttosto diffusa di una subcultura cattolica – l’esigenza che prevale è quella di ritagliarsi una fede su misura, rispondente alle proprie esigenze, con la tendenza perciò a vivere una credenza senza appartenenza.

Questo spiega anche come i confini tra credenti e non credenti non siano così netti; religione ed ateismo non sono categorie monolitiche e fisse, e come la spiritualità costituisca una sorta di «zona intermedia» o «terra di mezzo» tra di esse. Spiega come il mondo giovanile si presenti cioè come un mondo articolato, con una ricca gamma di posizioni intermedie e con frequenti oscillazioni tra i due poli. Ma spiega soprattutto come sussista su ambedue i fronti un senso di profonda tolleranza e di rispetto di scelte diverse e una convergenza nella critica ai modelli religiosi prevalenti e alla chiesa di cui si salvano soltanto le realtà impegnate nel sociale e nell’aiuto ai poveri.

L’indagine di Garelli non si accontenta tuttavia di descrivere la situazione presente. Lascia intravedere gli orientamenti che le diverse agenzie educative – dalla famiglia alla scuola, alla parrocchia, fino alle associazioni e ai movimenti – oggi non sempre all’altezza dei bisogni veri, devono mettere in campo, se intendono fornire ai giovani strumenti adeguati per reagire alla situazione di crisi valoriale e religiosa attuale e far maturare scelte religiose dotate di autenticità e di solidità. La posta in gioco è infatti assai alta. La fede riveste ancor oggi un ruolo di prim’ordine per la promozione della persona e per la costruzione di una società più giusta e più solidale.
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Rocca 23 2016 1 dic
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Auguri buone feste 16-17

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