Le Scuole Popolari oggi più che mai. Oggi il dibattito a La Collina
La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
Oggi, mercoledì 14 dicembre, sarà presentato a La Collina di Serdiana il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” . Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?
(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)
La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.
Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.
Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.
«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».
Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?
«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».
Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?
«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».
L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?
«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».
Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?
«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
—————————
- La pagina fb dell’evento.
————————–
————————————
Scuola: se la salviamo ci salva. Una priorità anche per la Sardegna
La parola chiave sia “cura”, non successo, non competitività, non occupabilità
di Franco Meloni, su Aladinews del 10 ottobre 2016.
Ogni anno all’apertura dell’anno scolastico i media ci ricordano che la scuola italiana non gode di buona salute: molti edifici vetusti e non “a norma”, ritardi burocratici nelle nomine dei docenti, nonché precariato diffuso e instabilità delle sedi per gli stessi, e così via. La situazione della scuola sarda è ancor più preoccupante in relazione ai dati allarmanti della dispersione scolastica. Il Rapporto Crenos 2016 afferma che il tasso di abbandono scolastico è, infatti, tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment nor Training ).
A fronte di questa situazione la Regione ha messo in campo nel passato diversi programmi, sostenuti da ingenti finanziamenti (comunitari, governativi, regionali), tutti dimostratisi inefficaci. Speriamo ora nell’ultimo progetto, denominato “Iscol@”, recentemente avviato. Prevede investimenti nell’edilizia scolastica, l’ampliamento dell’offerta formativa e professionale. Avrà durata triennale e i fondi a disposizione ammontano a 358,2 milioni. Il progetto è stato aperto al confronto sul web e in presenza – coinvolgendo cittadini, docenti e famiglie, Agenzie formative, Comuni e altri enti locali – che in qualche modo lo ha migliorato. Allo stato non è possibile un’attendibile valutazione per capire se si è riusciti a escogitare qualcosa di efficace o se si registrerà l’ennesimo fallimento.
Per evitarlo, non ci aiutano certo le politiche di “dimensionamento” degli interventi in materia di utilizzo delle sedi scolastiche stabilite dalla Giunta regionale, laddove per ragioni di risparmio si chiudono le scuole dei piccoli paesi, concentrando le classi in quelli più grossi. Con queste politiche si contribuisce allo spopolamento dei paesi della Sardegna. Più degli amministratori lo hanno capito le mamme dei bambini che si oppongono alla chiusura delle scuole. In tema, l’economista Paolo Savona ha espresso tempo fa un concetto che sembra proprio dar loro ragione, sostenendo che “una buona scuola oggi vale perfino più di una buona azienda per la disseminazione degli effetti positivi che essa crea”.
Ma al di là delle pur importanti rivendicazioni di strutture adeguate e di maggiori risorse per la scuola, con Fiorella Farinelli, giornalista di Rocca, concordiamo che le domande di fondo che tutti dovremmo porci sono altre. “Perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto? Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti? Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini? Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare? E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?”. Allora è necessaria una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni, nel ricupero dei valori che devono informare la scuola. In questa prospettiva “ è «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive”. E in Sardegna c’è spazio e voglia di lavorare in questa direzione? Il progetto Iscol@ può servire allo scopo? Cerchiamo insieme le risposte e teniamo vivo il dibattito.
———————-
E’ on line Rocca del 1° gennaio 2017!
Lascia un Commento