Referendum The day after. È andato alle urne un Paese la cui maggioranza elettorale è incazzata come non mai. Il messaggio chiaro è stato: non continuate a scassare le istituzioni, a perdere tempo e a farcene perdere accanendovi su feticci per la vostra incapacità o indisponibilità a riformare quello che quotidianamente non funziona perché l’avete occupato voi fino all’ultimo posto. O cambiate o siete spacciati

The day afterdi Tonino Dessì
Dirò fin dall’apertura della giornata alcune cose sgradite, delle quali mi libero adesso, perché tanto prima o poi l’avrei fatto ugualmente.
Ieri i talk show hanno ricominciato a popolarsi di politicanti con le loro analisi tutte volte a spiegare come si può o meno rabberciare la situazione politica, fare una legge elettorale “che coniughi rappresentanza e governabilità”, rassicurare l’Europa e i mercati e via dicendo.
Qualche dissennato riparla del PD, anzi di Renzi, del 40 per cento “da cui ripartire”.
Mattarella “congela” Renzi fino all’approvazione della legge di stabilità, come se fosse, questa, un atto di ordinaria amministrazione e non un insieme di disposizioni e di decisioni di contenuto economico-finanziario che incidono su individui, famiglie e corpi sociali. Vorrò proprio vedere il rinnovo dei contratti pubblici, le misure sulle pensioni, le misure fiscali, il fondo sanitario, la scuola, i vari ottantacinque euro e le altre regalie promesse, il rilancio dell’occupazione, i vaucher: insomma, che “qualità” avranno le decisioni economico-finanziarie di fine anno.
E successivamente sarà la volta della legge elettorale, dopo le decisioni della Corte costituzionale: sarà proposto un altro marchingegno partitocratico a tutela della vera casta?
Ieri poi ho letto la miseranda dichiarazione di Pigliaru che si rifugia a Bolzano (austroitaliani intelligenti, sardi coglionazzi), facendo finta che il NO non abbia preso la batosta catastrofica che ha preso in tutte le Regioni speciali. “Il risultato evidenzia la necessità di decisioni e provvedimenti che la Giunta prenderà al più presto”. Roba da matti.
Intanto c’è ancora una parte di benpensanti del SI e del NO che giustificano o qualificano il proprio voto sul parametro “pro o contro Grillo”, manco stessero parlando di una malattia dermatologica.
Credo che non si sia capito molto, ancora, di quello che é successo domenica.
È andato alle urne un Paese la cui maggioranza elettorale è incazzata come non mai. Il messaggio chiaro è stato: non continuate a scassare le istituzioni, a perdere tempo e a farcene perdere accanendovi su feticci per la vostra incapacità o indisponibilità a riformare quello che quotidianamente non funziona perché l’avete occupato voi fino all’ultimo posto. O cambiate o siete spacciati.
Bene: continuate a illudervi che possa continuare il tran tran, la melassa, l’indistinto chiacchiericcio.
Io consiglio anche agli analisti di verificare, nei flussi elettorali, quale può esser stata l’influenza dei “riservisti”. Cioè di quegli astensionisti da anni cronicizzati i quali stavolta hanno deciso che era loro diritto e dovere intervenire.
Tempo fa, un velenoso Scalfari apostrofò il pentastellato Di Battista dicendogli: “Voi siete il partito che prende i voti degli astensionisti”.
Intendeva degli astensionisti politici, che però avevano votato.
Ora, immaginatevi, se riprende la solita solfa paludosa, che potrebbe succedere se altri “astensionisti” incazzati decidessero di votare alle elezioni politiche, per un partito che, piaccia o meno, ha sostenuto la difesa della Costituzione riqualificando la propria identità e la propria base politico-culturale senza poter esser più confuso pretestuosamente con i vostri rassicuranti babau preferiti, Brunetta e Salvini. Ci sarà un’occasione prossima, forse imminente, in cui il voto, al PD, a Brunetta, a Salvini, al M5S sarà ben distinto e distinguibile, dentro un quadro costituzionale democratico saldissimo e ormai fuori pericolo.
Ecco: io mi attenderei magari, da questo momento in poi, di leggere meno banalità e più riflessioni di una qualche maggior consapevolezza.
Buona giornata.
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Un diluvio: 18 milioni di NO
di Ottavio Olita su il manifesto sardo.

“Credevo che piovesse, non che diluviasse”: è un proverbio umbro entrato nel linguaggio dalla politica italiana – per sconfitte o vittorie, a seconda dei casi – fin dal 1948 grazie all’importante esponente democristiano Attilio Piccioni.

Il diluvio che ha spazzato via la cosiddetta ‘riforma costituzionale’ è rappresentato da questi numeri: 18 milioni di NO, contro 12 milioni di SI’, vale a dire il 50 per cento in più: il 60% contro il 40%; in Sardegna addirittura il 72,2%; a Cagliari un dato intorno al 74%, così come ad Oristano. E queste incontrovertibili percentuali fanno riferimento ad una massiccia partecipazione popolare al voto, per di più per un referendum per il quale non era previsto un quorum: il 68,4% degli aventi diritto.

E’ proprio questo il dato su cui riflettere maggiormente. Gli italiani delle massicce astensioni, della stanchezza, delle delusioni, dell’incertezza sul futuro hanno invece voluto affermare con forza la loro fiducia nella democrazia e nella Carta Costituzionale che la garantisce. Sono stati soprattutto i giovani a fare questa scelta: circa l’80% dei ragazzi al di sotto dei 28 anni ha votato NO, tanti dei quali hanno urlato nei cortei e nelle piazze ‘Non in mio nome’.

Chi avrà ancora il coraggio di dire che è la vittoria della ‘conservazione’ contro il ‘cambiamento’?

La battaglia del Comitato per il NO costituito da ANPI, ARCI, CGIL ed altre associazioni di base è stata condotta contro il tentativo di rottamare la Carta fondamentale della Repubblica Democratica e Parlamentare per dare il potere in mano al governo e al suo capo.

Gli italiani hanno capito che si trattava di bocciare l’idea, periodicamente rispolverata, di affidarsi all’Uomo della Provvidenza, all’Uomo Solo al Comando, alla limitazione dei propri diritti, per privilegiare una fantomatica ‘stabilità’ la cui assenza è stata scaricata dal Presidente del Consiglio, dalla sua Ministra delle Riforme e da talune forze politiche sulla Costituzione, invece di assumersene la responsabilità.

Certo, ora assisteremo alla corsa di alcuni Partiti ad appropriarsi della vittoria che invece appartiene esclusivamente al popolo italiano. I lembi della giacca di Mattarella saranno tirati da una parte e dall’altra, ma di chi è la colpa di tutto questo? Solo ed esclusivamente di Renzi e della personalizzazione di un tema che invece riguardava la democrazia italiana, non il suo personale futuro politico. La coorte di lacché che lo ha sostenuto ha fatto il resto, così come è insopportabile l’atteggiamento di quanti, di fronte ad un documento così pericoloso per le sorti della democrazia parlamentare, hanno preferito non prendere posizione, aspettando, magari, di salire oggi sul carro dei nuovi vincitori.

Tutti questi, se non vogliono definitivamente uscire di scena, che la smettano di parlare di ‘ondata populista’. Se il ‘popolo è sovrano’ lo è sempre, anche quando prende direzioni proprie, diverse da quelle sognate dall’establishment di turno.

In questo scenario si staglia nettamente la Sardegna: è stata la regione d’Italia nella quale, percentualmente, si è avuta la più alta adesione al NO.

Ben il 72,2% ha scelto una strada diversa da quella indicata dai governanti regionali. Governanti che hanno preferito guardare al loro partito politico, piuttosto che agli interessi dei sardi. Come si poteva accettare lo stravolgimento dell’articolo 117? Come si poteva far finta di nulla di fronte alla nefasta clausola della ‘Supremazia?’ Come si potevano giudicare credibili le assicurazioni dell’eternamente sorridente Maria Elena Boschi, contraddette da quello che c’era scritto nel testo da lei stessa proposto? (E a Cagliari il NO si è attestato sul 69,71%)

Tutti scenari negativi, dunque? No, tutt’altro. I lunghissimi mesi della campagna referendaria combattuta dal Presidente del Consiglio, dal Governo e dalla sua maggioranza a suon di slogans e con una insopportabile sovraesposizione mediatica – senza che mai siano intervenute le cosiddette autorità di garanzia – hanno consentito ai comitati per il NO sparsi in tutta Italia di ritrovare i cittadini.

Centinaia e centinaia di incontri, confronti, dibattiti hanno riproposto una partecipazione alla vita collettiva che negli ultimi trent’anni è stata progressivamente cancellata dalle forze politiche le quali hanno preferito i salotti – televisivi o alto borghesi -, i ‘vertici’ con i padroni del vapore, i Marchionne piuttosto che i Landini, le Camusso, i dirigenti sindacali regionali.

Questa grande, spontanea e umanissima mobilitazione non va dispersa. I Comitati – che dovranno inventarsi un nuovo nome – devono riuscire a dare continuità a questa voglia di discussione e di passione politica che si è risvegliata nel Paese. Anche per evitare che a qualcun altro venga ancora una volta l’idea di individuare un qualche Uomo della Provvidenza.

Figura alla quale qualche settimana fa, scrivendo del clima che si respirava nella battaglia referendaria, avevo voluto dare un avvertimento, citando un autore toscano, Andrea Casotti, che in una sua opera del 1734, ‘La Celidonia’, scrisse: Chi troppo in alto sal/Cade sovente precipitevolissimevolmente.
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Domenica si è espressa una grande sfiducia in chi ha voluto mettere mani alla Carta e in chi in Sardegna se ne è fatto testimone e araldo della rinuncia all’Autonomia. Per chi ha a cuore il nostro riscatto di sardi, il nostro bisogno storico di autogoverno, è un dato da cui partire. Va costruito, i segni sono forti. Bisogna coglierli.
serieta-signoriGli italiani e i sardi non amano le avventure istituzionali
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ Società & Politica/

Troppe interpretazioni sulle motivazioni del rifiuto delle riforme istituzionali finiscono per essere un velo che nasconde la motivazione principe di quel no. Renzi ha giocato tutto per il tutto e ha perso. Su di lui si sono scaricate tensioni che nulla avevano a che fare con i referendum. Presidente del Consiglio non eletto in parlamento, ha cercato l’ordalia che lo legittimasse davanti all’elettorato, l’ha avuta.

Succede quando si personalizza. Si è andati oltre le predicazioni salviniane e dell’M5S, oltre la frustrazione e il rancore di chi è vittima dell’impoverimento, dei giovani che sbarcano il lunario tra un voucher e l’altro, del malessere che si è impadronito di una società che non riesce più a sperare. Tutta questa cacofonia di messaggi, ha nascosto la verità. Gli italiani non vogliono che la loro Carta Fondamentale venga stravolta. Nel 2006, regnante Berlusconi era avvenuto lo stesso e con dati quasi identici. 20016: Sì 40,9%, No 59,1% – 2006 Sì 38,71% No 61,29%.

Anche allora quel referendum venne caricato di significati altri, anche allora si voleva che Silvio Berlusconi andasse via, ma l’ex cav. non si dimise. Renzi paradossalmente dovrebbe essere contento, è riuscito a fare meglio del suo mentore ed ha tenuto i voti che il PD ebbe alle ultime europee. La conferma del dato dovrebbe diventare lezione appresa. Non si può cambiare la costituzione in modo così profondo, si possono fare aggiustamenti come è avvenuto più volte negli ultimi sessant’otto anni, non si può procedere come elefanti in un negozio di chincaglierie.

Questo è alla fin fine il messaggio. È sperabile che in futuro passi questo desiderio insano delle classi dirigenti di mettere mano ad una Costituzione che nel bene e nel male ha assicurato al Paese decenni di stabilità. Sì stabilità, perché questo valore a cui sono sensibili i mercati è dato dalle istituzioni e non certo dai governi.

Nella Prima Repubblica, gli esecutivi duravano in media pochi mesi, ma l’Italia era uno dei paesi più stabili dell’Occidente, perché saldi erano i suoi ordinamenti. Ora chi in Italia e all’estero affastella il voto del NO in un indistinto populismo non vuole rendersi conto, o lo fa in maniera deliberata, che la ragione prima è stata la difesa della Carta. È responsabilità delle classi dirigenti avere trasformato una crisi della politica in crisi istituzionale.

Sono loro i populisti che facendosi forti di post-verità rilanciate da tutti i mezzi di informazione e dalle reti sociali, hanno tentato di scaricare sull’elettorato la loro contraddizione. Sono loro che si sono inventati la categoria del nemico da rottamare, non volevano con-vincere ma vincere, ed hanno perso. L’altro versante di interesse per noi, è come il referendum sia stato vissuto in Sardegna, che risulta la regione dove il rifiuto delle modifiche costituzionali ha raggiunto i valori più alti, questa volta maggiori anche del 2006. 2016, Sì 27,7%, No 72,3% – 2006 Sì 38,71%, No 61,69. Eppure la critica all’istituto regionale e alla sua autonomia in questi anni ha raggiunto quasi il parossismo.

Basti pensare alle campagne di stampa dove giornalisti di chiara fama hanno accusato le regioni di essere luoghi con la spesa senza controllo. Il disastro della regione siciliana usato come indicatore di un fallimento generale. Nonostante questo, e le critiche legittime che in Sardegna si fanno, alla fine la stragrande maggioranza dei sardi ha votato perché quell’istituto, benché incompleto e deficitario permanesse. Non è servito a nulla il racconto del Presidente Pigliaru e della ministra Boschi.

Nessuno ha creduto che il Titolo V rimanesse, o che l’autonomia venisse rafforzata. Anche nel voto sardo hanno pesato il malessere e le disattenzioni governative, la lontananza di questa giunta dai bisogni dei sardi, ma a mio avviso oggi come nel 2006 la difesa dell’autonomia è stato il collante unitario. La clausola di supremazia dell’interesse nazionale era presente nella riforma berlusconiana come in quella di Renzi, e in entrambi i casi rifiutata.

Oggi, rispetto al 2006 la Sardegna ha un problema in più, è governata da un presidente che ha agito e si è mosso per negare il suo ruolo e per impedirlo ai suoi successori. Posizione che non ebbero i presidenti delle provincie quando si fecero i referendum per la loro abolizione; loro lottarono fino all’ultimo per difendere l’ente che rappresentavano pro tempore. Tutto questo è populismo? Oppure è una sana difesa degli istituti democratici? È evidente che si tratta di democrazia, la migliore. Nessuno abbandona una casa imperfetta se non ha di meglio con cui sostituirla.

Meglio un’Autonomia imperfetta alla Nova Perfetta Fusione. La Sardegna oggi è governata da una giunta che non è riuscita a cogliere il sentire intimo di chi dovrebbe rappresentare e dovrebbe agire di conseguenza: dimettersi. Però non lo farà. I referendum sono cosa diversa dalle elezioni politiche o amministrative, quel 72,3% del No in Sardegna non è possibile intestarlo ad una forza politica, molti sono gli autori di quel successo.

Domenica si è espressa una grande sfiducia in chi ha voluto mettere mani alla Carta e in chi in Sardegna se ne è fatto testimone e araldo della rinuncia all’Autonomia. Per chi ha a cuore il nostro riscatto di sardi, il nostro bisogno storico di autogoverno, è un dato da cui partire. Va costruito, i segni sono forti. Bisogna coglierli.
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BUONA VOLONTà 10 DIC 16
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Gustavo

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