I bambini futuro del Paese. Ma dove?

Le infrastrutture che servono, in un paese come l’Italia, non sono solo l’alta velocità o i ponti. Le emergenze non sono solo i terremoti o i profughi. Ci sono anche le infrastrutture immateriali, si chiamano educazione, cultura, intelligenza. Tutti ambiti in cui negli ultimi decenni abbiamo perduto molto, e senza sufficienti capacità di recupero e di sviluppo.
rocca 2014 25
DENATALITÀ
ma il bambino dove lo metto?

di Fiorella Farinelli, su Rocca.

Stiamo perdendo tante cose, in Italia. Anche tanti, troppi, bambini. Nel 2015 – quinto anno consecutivo di una fecondità sempre più debole: solo 1,35 bambini per donna – i nuovi nati sono stati 488mila, ben 15mila in meno rispetto al 2014, mai così pochi dall’ultimo dopoguerra, quasi la metà rispetto agli anni Sessanta/Settanta. Ci sono ricette utili, capaci di invertire la rotta? Tante, ovviamente, almeno quante sono le facce di questa specialissima e poliedrica perdita. Che riguarda l’oggi, ma anche il domani, se non altro perché meno bambini significano inevitabilmente, nei prossimi anni, meno giovani, e dunque di sicuro anche in futuro sempre meno bambini. Delle tante ricette possibili per incoraggiare un andamento demografico più equilibrato, dunque, quali stiamo scegliendo? Solo nella stessa compagine politica ora al governo, ne vivono almeno due. Da un lato chi punta sui bonus bebé, dall’altro chi al centro mette il rilancio dei servizi educativi 0-6, gli asili nido fino ai 3 anni e le scuole per l’infanzia dai 3 ai 6. Due posizioni evidentemente molto diverse – la prima ha l’occhio soprattutto al consenso immediato, magari anche elettorale, di chi ha già bambini piccoli; la seconda, più lungimirante, è finalizzata invece a rassicurare chi i figli li vorrebbe ma ha paura di deciderlo che, se lo farà, non mancheranno per nessuno, e in nessuna parte dei paese, luoghi educativi di qualità e a costi accessibili per aiutarli a farli crescere bene.

asili-nido senza risorse

Due posizioni, due scelte, che in tempi di finanza pubblica generosa possono anche essere complementari, come avviene in effetti in altri paesi. Ma nell’Italia di oggi? Oggi, solo per uno sviluppo omogeneo degli asili nido su tutto il territorio nazionale ci vorrebbe un investimento di almeno 1 miliardo e mezzo, forse di più. Risorse che non ci sono, o che si preferisce destinare ad altro. Basterebbero, per cominciare, anche investimenti più modesti, analoghi a quelli che fece nel 2007 il governo Prodi con il suo «piano nazionale asili-nido» di 800 milioni, in parte statali in parte regionali. Ma, nella legge di stabilità, non se ne vedono tracce, o sono troppo labili – 100 milioni su una voce, 80 sull’altra, 150 su un’altra ancora – niente che assomigli a un programma organico e di lungo respiro. L’Italia si presenta come un cavallo asmatico, anche su questo. Eppure è proprio qui che rischia di perdere mordente l’ambizioso provvedimento di delega al governo nato con la Buona Scuola (scadenza ormai prossima, nel gennaio 2017, ma Renzi assicura che ci sarà prima del 4 dicembre) in cui si prevede, tra l’altro, il funzionamento integrato e «in continuità» tra asili nido e scuole per l’infanzia. Nonché il rispetto – final- mente – delle indicazioni europee di un sistema di nidi con una «copertura» della domanda potenziale pari al 33%. I conti, però, si fanno in fretta. E raccontano una realtà difficile. Oggi in Italia ci sono 1 milione e 620mila bambini sotto i 3 anni, i posti negli asili nido sono solo 360.134 (il 22,4% della copertura) e per arrivare al traguardo ne occorrerebbero 534.600. Tantissimi nel Sud, dove solo l’11% della domanda potenziale trova posto (il 2% in Calabria). Non solo. Cittadinanzattiva, l’associazione di responsabilità civica che ogni anno pubblica un monitoraggio puntuale dei nidi, spiega che in molte realtà del CentroNord le tariffe sono così alte – grazie al regime di «servizio a domanda individuale» dei nidi che impone agli utenti di coprire una parte consistente dei costi, e grazie soprattutto alle sofferenze nei bilanci degli Enti Locali – da essere sempre più proibitive per i numerosi nuclei familiari che non nuotano affatto nell’oro (anche più di 500 Euro mensili, in alcune città del Nord, contro i 100 della Svezia e i 150 della Germania). Tutt’altro che «competitive», queste tariffe, con la decisione, per le mamme che guadagnano meno di 1000 Euro, di rinunciare al lavoro. Con in più il problema che, dove i nidi sono di più e di migliore qualità, i Comuni non ce la fanno più a sostenerne il costo, e infatti nell’ultimo anno hanno speso il 3% in meno rispetto al precedente scaricando sempre di più il servizio sui nidi privati convenzionati (il 58% del totale ormai, solitamente di qualità peggiore dei nidi pubblici). Dove invece ce ne sono pochi, non ci sono proprio le risorse – né le leggi e i regolamenti – per programmi di significativa compensazione del tantissimo che manca.

come si fa senza le nonne?

Che cosa vuol dire, in questo quadro, realizzare quella «continuità» educativa tra asili nido e scuole per l’infanzia dettata dalla Buona Scuola, se non la novità, in verità discutibile, di una regia unificata dei due settori da parte di un ministero, la pubblica istruzione, che di asili nido pub- blici, cioè quelli istituiti e gestiti dai Comuni, finora non si è mai occupato? Solo l’affermazione che sì, anche gli asili nido, d’ora in avanti faranno parte di quel paradiso di qualità ed efficienza che si chiama sistema di istruzione? Un po’ più di cen- tralismo, in verità, potrebbe essere utile, visto che sui nidi ci sono 18 diverse leggi regionali con poste di bilancio diversissime. E va bene anche prevedere che sia le educatrici dei nidi che le insegnanti di scuola per l’infanzia siano più qualificate (laurea triennale per entrambe e formazione continua: ci vorrebbe proprio, con l’inquietante diffondersi di sciatti, talora persino violenti, metodi «educativi»), ma la sostanza è che per dare significato a questo ventaglio di proposte occorrono nuove risorse. E tante. In primis sul versante dei nidi, che dovrebbero uscire dal regime di servizio a domanda individuale per entrare in quello dei servizi sociali ed educativi e quindi pesare di più sulla fiscalità generale, ma anche sul versante delle scuole per l’infanzia. Dove la partecipazione dei bambini dai 3 ai 6 anni supera sì il 90%, ma scontando che 1 bambino straniero su 4 non ci va, e che in molte aree del Sud le scuole non sono a tempo pieno, quindi senza mensa, e con orari solo antimeridiani. Una autentica panacea per le mamme che lavorano, e anche per quelle che il lavoro cercano in ogni modo di trovarlo. Come si fa, in quei casi, senza le nonne?

un vero contrasto alla povertà

Vedremo. Rischia di smarrirsi, intanto, il nocciolo duro della questione. Che è fatto di due parti. La prima sta nello stretto intreccio tra carenze quantitative e qualitative dei servizi educativi per l’infanzia, difficoltà delle giovani donne a mantenere il lavoro o a cercarlo al primo e ancora di più al secondo figlio, calo precipitoso della fecondità. La seconda, ancora più importante, nel diritto dei bambini – sempre più spesso figli unici, sempre più diffusamente poveri – a crescere fin dal primo anno di vita in ambienti ricchi di giochi, stimoli e relazioni, tutelati dal punto di vista igienico e sanitario, ben nutriti e ben accuditi in spazi anche all’aperto. Si fa anche così, allargando i posti negli asili nido, il contrasto della povertà, la crescita dell’occupazione femminile (da un lato nuovo personale, dall’altro più donne in grado di lavorare e di formarsi per farlo). E poi c’è il versante specificamente educativo. Lo sanno tutti, ormai, che sono proprio i primi anni di vita quelli decisivi per acquisire una disponibilità positiva all’apprendimento, che imparare a giocare, costruire, dipingere con i coetanei in un ambiente sereno, ben attrezzato e ben guidato da adulti competenti, fa la differenza. Anche rispetto al futuro ingresso nella scuola. Anche per l’acquisizione delle capacità cognitive e relazionali che fanno la sicurezza affettiva e la consapevolezza di sé dei bambini. Lo si vede, fra l’altro, per i piccoli di origine straniera. È un disastro che 1 su 4, nell’indifferenza generale, non frequenti la scuola per l’infanzia. Significa che molti di loro, anche nati qui, arrivano in prima elementare senza aver acquisito quella familiarità con la lingua italiana che si impara dai coetanei e che è indispensabile a non subire ritardi e insuccessi fin dai primi anni di scuola. E questo vale anche per i bambini italiani, purtroppo tanti, che senza asili nido o in scuole materne a orario ridotto vivono in contesti poveri di stimoli, sballottati tra nonne e sostegni familiari improvvisati, lasciati troppo presto davanti alla televisione. Sempre più spesso anche in famiglie costrette a lesinare nell’alimentazione, nelle cure mediche, nelle attività motorie, nei consumi culturali.

educazione cultura intelligenza

Le infrastrutture che servono, in un paese come l’Italia, non sono solo l’alta velocità o i ponti. Le emergenze non sono solo i terremoti o i profughi. Ci sono anche le infrastrutture immateriali, si chiamano educazione, cultura, intelligenza. Tutti ambiti in cui negli ultimi decenni abbiamo perduto molto, e senza sufficienti capacità di recupero e di sviluppo. Senza, si direbbe, neppure la capacità di far leva, per una diffusione sull’intero territorio nazionale, sui nostri migliori modelli educativi realizzati in alcune aree del Centro-Nord e imitati in tutto il mondo per qualità organizzativa e pedagogica. Gli asili nido di Reggio Emilia, le scuole dell’infanzia di Milano e di Torino, i servizi per l’infanzia di tante città della Toscana. Quelli delle esperienze di «Nati per leggere», dell’educazione musicale, dei progetti di prima robotica, del multilinguismo, delle mattine nei teatri e nei laboratori didattici dei musei. Quelli degli «Orti a scuola» (P. Tonelli, Rocca n. 7/2016) e delle scoperte nei boschi. Suonano false, allora, le immancabili dichiarazioni della politica sulla centralità dei temi dell’infanzia. Sui bambini/futuro del Paese.

Fiorella Farinelli
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rocca 24 2016
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Grafico asili Istat

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