Is Mirrionis è anche questo!
La Scuola Popolare dei Lavoratori di Is Mirrionis
Negli anni ’70 funzionò a Is Mirrionis la “Scuola Popolare dei Lavoratori di Is Mirrionis”, che ha consentito a centinaia di lavoratori del quartiere e del resto della città di acquisire una seria preparazione culturale, conseguendo -in alcuni casi- il titolo di licenza elementare e –nel maggior numero di casi- di media inferiore. Tale circostanza ha consentito a molti lavoratori migliori prospettive di lavoro e, spesso, il proseguimento di ulteriori percorsi formativi. Questa esperienza, condotta da un gruppo di universitari e di laureati, che si poneva nella scia degli insegnamenti di don Milani, pensatore cattolico e animatore della Scuola Popolare di Barbiana, ha costituito un grande esempio di solidarietà sociale e di pratica di riscatto culturale dei ceti popolari che oggi sembra importante ricordare, valorizzare, riproporre nei suoi elementi fondanti di solidarietà e impegno sociale e culturale.
Su questa esperienza è stato “costruito” un libro che in questi giorni viene presentato in città e in Sardegna. Per gentile concessione dell’Editore La Collina di seguito riproduciamo una delle introduzioni, autore Gianni Loy.
Ideali tradotti in pratica
di Gianni Loy
Abbiamo percorso un lungo camino, passo dopo passo. L’abbiamo percorso convinti che ogni esperienza potesse rimanere, a nostra disposizione, appena dietro l’angolo.
Oggi, quando l’iniziativa dei “reduci” dell’esperienza della “gloriosa” Scuola Popolare di Is Mirrionis ci impone una riflessione, non superficiale, dell’accaduto, scopriamo che è passato quasi mezzo secolo. Né parliamo. Ricostruiamo i fatti, per quanto possibile. Ci abbandoniamo, persino, a qualche confessione; all’epoca non ne avremmo avuto il coraggio. Ma tutto è prescritto. Prescritto, ma non dimenticato.
Ri-incontrarsi, anche se, in realtà, molti dei protagonisti non si sono affatto persi di vista durante tutti questi anni, consente persino di tornare a vivere, come in uno specchio, la passione e le emozioni che hanno dato senso ad uno spicchio della loro esperienza personale, consumata all’ombra di un edificio-simbolo, seminascosto tra le case popolari del quartiere di Is Mirrionis.
La storia presentata in questo libro è semplice, neppure troppo originale. Si tratta dell’evocazione dell’esperienza di una scuola popolare realizzata nel quartiere di Is Mirrionis tra il 1971 ed il 1976. In quegli anni, un gruppo di giovani, provenienti prevalentemente da esperienze maturate nel mondo cattolico, e, allo stesso tempo, politicamente impegnati nei movimenti, prevalentemente “extraparlamentari, ispirati alla grande rivoluzione culturale del 1968, hanno avvertito il “dovere” ed allo stesso tempo “il piacere” di mettere a disposizione i propri talenti a favore di altre persone che, avendo perso il treno della scuola ufficiale, avrebbero potuto avere un’opportunità di recupero scolastico conciliando il lavoro con la frequenza di quella scuola.
Che non era una scuola, come le altre. Anzi, si contrapponeva alla scuola ufficiale per finalità e per metodo. Uno degli obiettivi, come ricorda Giorgio Seguro, era quello di far si “che i lavoratori acquisissero più parole, anche una sola in più dei padroni, per poterli contrastare”. L’unico anello di congiunzione era costituito dal conseguimento del titolo di studio, visto che la licenza media poteva essere conseguita solo presentandosi, in qualità di privatisti, presso una scuola pubblica. Una scuola pubblica che, a dimostrazione dell’inconciliabilità persino del linguaggio, anziché, “promuovere”, “licenziava”. Ne sa qualcosa Avendrace che, avvezzo alla lingua del popolo, quando lesse sul tabellone di essere stato “licenziato” crollò in lacrime, convinto di essere stato bocciato!
I curatori del volume, opportunamente, non si sono cimentati nel tentativo di ricostruire cronologicamente, sin nei dettagli, tutta la storia di quell’esperienza. Hanno preferito mettere insieme i dati essenziali, i più significativi documenti dell’epoca, soprattutto i ricordi dei partecipanti, cioè degli insegnanti e degli allievi.
Insegnanti ed allievi le cui motivazioni iniziali, come si vedrà, differivano radicalmente ma che finiranno per essere complici di una esperienza comune. Non è un caso che alcuni degli insegnanti di allora, penso a Pietro Tardiola ed a Rosaria Cossu, lo ritengano, oggi, “un momento importante della nostra formazione”.
Il lettore potrà osservare quanto l’esperienza personale di ciascuno sia stata intensa e coinvolgente. Ottavio Olita, che l’ha vissuta da docente, la definisce “una delle più importanti della mia vita”. Per Giorgio Seguro “fu una palestra fondamentale” Lino Bistrussu, che invece era un allievo, afferma che “dopo 40 anni ancora mi viene la pelle d’oca a ricordarlo”. In ogni caso, una esperienza che “ha segnato la vita di tutti coloro che l’hanno vissuta”, come ricorda Gianni Ibba.
Fermarsi alle emozioni personali, per quanto appassionanti, sarebbe però fuorviante. Un’attenta lettura delle emozioni che zampillano dal ricordo dei protagonisti, perché di emozioni si tratta, ci introduce immediatamente al rapporto tra l’esperienza individuale di ciascuno e la storia, tra l’esperienza individuale e quella interpersonale, al nesso tra la scuola e la politica, al peso degli ideali nella pratica quotidiana.
La storia. L’esperienza della Scuola Popolare di Is Mirrionis, è stata possibile perché nel 1968 c’è stata la rivolta studentesca, perché qualche anno prima c’è stato il concilio Vaticano II, perché don Milani, sulla base dell’esperienza maturata con la Scuola di Barbiana, ha spedito la sua celebre Lettera ad una professoressa, perché i metalmeccanici hanno rivendicato il diritto all’istruzione dei lavoratori e conquistato le 150 ore….…
Ed infatti, la Scuola Popolare di Is Mirrionis, non è stata solo scuola, è stato luogo “alto” di elaborazione politica, ovviamente di quella politica fondata sui movimenti ispirati alla soddisfazione di bisogni, che si schierava dalla parte di persone non volevano più rassegnarsi alla rassegnazione. E’ stata anche partecipe del grande movimento di rivendicazione per la casa la cui scintilla era stata innescata nel quartiere di Sant’Elia: “Se non abbiam la casa la colpa è di qualcuno ….”, è stata soggetto attivo della battaglia contro l’abolizione della legge sul divorzio, ha sofferto il golpe cileno …
Ma non trova la sua ragione soltanto nell’essersi sviluppata nel solco della storia, quantomeno di quella storia che sembrava darci ragione, ma che non ha poi mantenuto le promesse, ma anche nella solidarietà tra le tante esperienze di quegli anni che, con proprie peculiarità, esplodevano in altre parti della città ed in tutta la Sardegna.
C’era un filo ideale che legava quelle esperienze, che ci legava tutti quanti. Mi permetto di affermarlo perché, pur non avendo partecipato all’esperienza della Scuola Popolare di Is Mirrionis, mi sentivo partecipe dell’esperienza collettiva: per aver partecipato alla Scuola Popolare di Stampace, per aver promosso, in quegli anni, la realizzazione delle 150 ore all’Università, per la similitudine del percorso di formazione, per l’amicizia e il comune impegno politico con molti di quanti oggi riflettono su quell’esperienza.
Per tentare di far comprendere quanto sia stata importante la Scuola Popolare di Is Mirrionis, ora che è intervenuta la prescrizione, ora che, per l’età, si allentano i lacci dell’autocensura, confesso di portarmi appresso un grande cruccio: quello di non aver partecipato a quella esperienza.
Quello di dover confessare, di dover dir sospirando: “io non c’era”. Lo dico perché ho sempre invidiato, lungo tutti questi anni, il senso di appartenenza di quanti hanno vissuto quella esperienza, che non a caso ho definito “gloriosa”, mentre io, che pure condividevo le aspirazioni e gli ideali di quel tempo e di quegli amici, di quei compagni…” io non c’era”.
Quel senso di appartenenza emerge, ad esempio, dalle parole di Vittorio Urracci, altro “allievo”, che oggi non ricorda solo di aver “tanti ricordi belli” ma, soprattutto, afferma che: “la scuola popolare per me è continuata per tanto tempo”.
In questa asserzione di Vittorio, per molti altri implicita, risiede uno dei principali significati. Si è trattato di un’esperienza non transeunte, non come l’adolescenza, destinata a lasciare il posto alla giovinezza, poi all’età adulta. Non come una semplice stagione della vita, che col tempo può persino diventarci estranea, pur potendo continuare ad esser meta di rivisitazione, con distaccato compiacimento, o con pentimento. No. Quell’esperienza ha lasciato segni indelebili, ha forgiato, ha impresso un imprinting culturale definitivo.
Per questo, molti di quei militanti di allora continuano a somigliare a se stessi. Anche se il brodo di cultura di quegli anni non c’è più. Anche se viviamo in un mondo ormai estraneo rispetto a quello che ci ha cullato negli anni che, per noi, hanno conciso con quelli della giovinezza.
Nella mia esperienza di insegnante, ho sempre avuto difficoltà a far intendere, ai giovani d’oggi, i movimenti di allora, la rivolta degli studenti, il femminismo, l’autunno caldo dei lavoratori.
Per poterli intendere, infatti, occorre prendere atto che, nel corso degli anni, è intervenuta una profonda mutazione antropologica. Quegli studenti, quegli operai, quelle donne, capaci di far traballare il potere e, soprattutto, di imporre al paese profonde riforme sociali, sul piano culturale e su quello legislativo, possedevano un patrimonio di valori, una fisionomia culturale, assai diversa da quello che oggi comunemente percepiamo. I valori dell’uguaglianza e della solidarietà, l’idea della democrazia diretta, ad esempio, consentivano l’audacia che ha caratterizzato quegli anni e, conseguentemente, ha consentito che venissero raggiunti risultati talora esaltanti.
Formidabili quegli anni, amava definirli un militante che ha rappresentato, probabilmente, la più nota icona del movimento degli studenti di quegli anni di contestazione.
I “reduci” che si raccontano in questo libro, appartengono ancora in larga parte a quella specie, costituiscono un frammento, un piccolo frammento, di quella aspirazione universale che, in diversi luoghi della terra, condivideva un obiettivo, forse una speranza o magari un’utopia.
Un obiettivo semplice, persino ingenuo, come ricorda Franco Meloni: “volevamo, semplicemente, cambiare il mondo, muovendoci concretamene nel nostro piccolo, che però ci sembrava grande”.
Né più né meno di quanto aspirano tutti i Don Chisciotte della terra che, di quando in quando, compaiono in qualche parte del mondo convinti di poter combattere l’ingiustizia e le diseguaglianze.
E’ stato quell’ideale, ingenuo quanto si voglia, ma che si era convinti fosse a portata di mano, che ha fornito le forze per un impegno appassionato e rigoroso.
Sono stati, per molti, anni di militanza “dura”, ispirata ad un impegno e ad un rigore morale persino eccessivo. La confessione di Fulvia Putzolu, una delle tante “confessioni” venute alla luce in occasione della preparazione di questo volume, è persino commovente: rivela, oggi, di aver disertato la festa di laurea di una sua cara amica “perché nella scuola popolare era stata indetta una riunione alla quale io sentivo il dovere di non mancare”. Facile, oggi, pensare che si sia trattato di una esagerazione. Oggi.
Poi il tempo è volato, la Scuola Popolare, nel 1976, ha cessato la sua attività. Con un bilancio lusinghiero e con un bagaglio che molti di quei compagni di un tempo hanno continuato a spendere in altre imprese, sociali e politiche.
Naturale che, alla fine, quei “reduci” si chiedano se quella esperienza, magari con forme diverse, possa avere un seguito.
A chi non farebbe piacere che i sogni si avverino? Ma, a questo punto si è costretti a prendere coscienza delle differenze. Perché allora, osserva Ottavio Olita, “docenti, discenti, tutti insieme, avevamo in comune un bisogno di partecipazione, scolarizzazione, aggregazione, di discussione, di conoscenza” mentre oggi “c’è la presunzione che tutto il mondo è conosciuto perché gli strumenti tecnologici ci metterebbero nelle condizioni di farlo”. Alla “tensione emotiva prodotta dalle differenze ideologiche e culturali di allora” aggiunge Giuseppe Corso, “è subentrata l’indifferenza”. Insomma, oggi la società produce “forme di isolamento mostruose”, sono ancora parole di Ottavio Olita.
Un’esperienza del genere potrebbe essere ripresa con formule adeguate ai tempi. Magari, come timidamente suggerisce Marcello Belelli, “sarà necessario leggere e decodificare i nuovi bisogni politici, inconsapevoli, inespressi”.
Il desiderio è forte, ma viene espresso timidamente, con titubanza. Più come omaggio a se stessi, a quel tempo, che con la convinzione che si possa davvero riaprire, magari negli stessi locali, quella straordinaria esperienza il cui ecclettismo si sforzava di testimoniare il nuovo umanesimo che costituiva aspirazione del tempo. Perché “non ci sono le condizioni di allora”, come suggerisce Gianni Ibba.
La verità è che quella gloriosa esperienza non è ancora terminata. Vive, non solamente nel ricordo, ma anche nella patica personale e politica di molti di quei compagni.
Non può essere replicata semplicemente perché non è ancora terminata. Ed il motivo per cui non può essere ripetuta, lo spiega efficacemente Lina Ibba. “perché è stata unica”.
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