Oggi, sabato 5 novembre 2016

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democraziaoggi loghettoChe cosa significa cambiare la Costituzione?
Commento a un articolo di Enzo Cheli su “Il Mulino”.
- Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.

Enzo Cheli, noto costituzionalista, ha pubblicato su “Il Mulino” 4/2016, un articolo (“Che cosa significa cambiare la Costituzione”) che è tra i più pregnanti fra i tanti che da tempo compaiono sui massmedia italiani; l’importanza dell’articolo di Cheli sta nel fatto che il suo ragionamento non è intriso di tutti gli arzigogoli che la contrapposizione politica in atto suggerisce ai vari autori, della quale unico responsabile è l’attuale maggioranza di governo, con il suo leader massimo in testa; l’articolo è invece particolarmente interessante per la natura “tecnica” con cui l’autore, dopo aver spiegato cosa sia una Costituzione, passa ad analizzare la proposta di modifica della Costituzione repubblicana, sulla quale gli italiani, nel prossimi mesi, saranno chiamati ad esprimere il loro voto.
Cheli, dopo aver premesso che le Costituzioni, più che nella politica, “affondano le loro radici nella storia delle società che sono chiamate a regolare”, sottolinea come le stesse, essendo destinate ad esprimere, oltre che “le basi della convivenza sociale, anche le regole fondamentali del gioco politico”, per reggere la prova del tempo “devono risultare condivise, se non da tutti, quanto meno dal numero più alto possibile dei giocatori in campo”; giocatori, che sono poi i cittadini chiamati a esprimere il loro gradimento sul tipo di Costituzione che viene loro proposta.
Perché i cittadini possano esprimere responsabilmente il loro voto sulla riforma della Costituzione vigente dovranno valutare il senso della proposta di riforma, i suoi obiettivi e il modo in cui tali obiettivi potranno essere perseguiti; inoltre, quel che più conta, gli stessi cittadini dovranno valutare se gli obiettivi proposti rispondono all’urgenza di risolvere i problemi che si pongono al presente, e che si porranno prevedibilmente in futuro, all’interno della società nella quale vivono; questa valutazione riveste una particolare importanza, perché attraverso essa dovrà essere espresso un giudizio sull’adeguatezza degli obiettivi e sull’appropriatezza delle modalità con cui perseguirli.
Riguardo agli obiettivi della proposta di riforma, a parere di Cheli, non vi sarebbero dubbi; anche se sul piano sociale ciò può non essere vero, sul piano “tecnico” la riforma mira in primo luogo a rafforzare la stabilità dei governi, per porre rimedio a un “difetto d’origine” dell’impianto costituzionale repubblicano; anche l’esistenza di questo presunto difetto tecnico originario può non risultare vero sul piano strettamente sociale, se si considera che l’instabilità dei governi ha avuto le sue manifestazioni più patologiche negli ultimi lustri, con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica” e la crisi del sistema dei partiti.
Per realizzare la stabilità dei governi, la proposta di riforma assume la sostituzione dell’attuale “bicameralismo paritario” con un “bicameralismo differenziato”, posto in relazione con un nuovo assetto dello “Stato regionale”, adottato dai costituenti dopo il secondo conflitto mondiale e modificato una prima volta nel 2001 con la riforma del Titolo V, allorché è stato introdotto in Italia il non bene specificato federalismo fiscale. Se passasse la riforma costituzionale proposta, con l’introduzione del bicameralismo differenziato, la Camera diverrebbe l’unico ramo del Parlamento ad essere titolare del voto di fiducia e a risultare decisivo nell’approvazione dell’indirizzo politico nazionale; mentre il Senato assumerebbe il ruolo di organo rappresentativo del sistema della autonomie locali. Si tratta, a parere di Cheli, di una riforma che, in astratto, può sembrare ben fondata, sebbene il modo in cui il Senato dovrà essere portatore degli interessi del sistema delle autonomie locali dia luogo a non pochi dubbi sulla sua efficacia, nella situazione in cui versa ora il Paese.
I dubbi, secondo Cheli, nascono però anche sul piano tecnico, allorché si passi a considerare, sia il nuovo assetto del bicameralismo differenziato, che il nuovo assetto di Stato regionale. Il dubbio riguardo al tipo di bicameralismo proposto attiene al fatto di voler non solo ridurre i tempi di approvazione delle leggi, ma anche migliorare “le capacità operative del nuovo Senato”. La struttura del nuovo Senato e le sue competenze lo espongono, a parere di Cheli, al rischio d’essere ridotto a un’”appendice del tutto inutile e ingombrante” dell’attività di governo; infatti, le regole introdotte riguardo alla composizione e alle competenze del nuovo Senato sembrano – afferma Cheli – “orientate a costruire, più che un ‘bicameralimso differenziato’, un ‘bicameralimso squilibrato’”, destinato a reiterare la conflittualità tra le due Camere del nuovo Parlamento.
Inoltre, Celi sostiene che esistono dubbi anche riguardo al nuovo modello di Stato regionale prefigurato dalla proposta di riforma, non solo per un aggravamento del centralismo statale, ma anche e soprattutto per via della conflittualità che l’indeterminatezza della distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni varrà a conservare, senza affatto diminuire quella, già grave, originata dalla riforma apportata nel 2001 del Titolo V della Costituzione repubblicana vigente.
Se si tiene conto di quanto sin qui esposto, si può quindi dire che, sebbene gli obiettivi siano tecnicamente giustificati, la proposta di riforma presenti molti dubbi sulla loro adeguatezza, con il rischio che i risultati conseguibili, se la proposta di riforma dovesse superare la prova referendaria, possano essere del tutto opposti a quelli sperati; ciò avrebbe la conseguenza con la conseguenza di “incidere negativamente anche sulla stabilità e sull’efficacia di quelle funzioni di governo che la riforma intenderebbe, invece, potenziare”.
Secondo Cheli, dunque, i dubbi non investono la necessità che la Costituzione vigente possa essere modificata, ma l’adeguatezza degli strumenti previsti per il conseguimento degli obiettivi dichiarati; ciò perché gli strumenti, dal punto di vista della loro efficacia, “non sembrano corrispondere ad un principio di coerenza con gli obiettivi prescelti”. Questa conclusione spinge Cheli ad osservare che, per quanto una riforma costituzionale possa interessare tutti e sia, quindi, un problema da non lasciare in via esclusiva ai soli tecnici-costituzionalisti, non deve essere trascurata la necessità di tener conto del loro parere, in considerazione del fatto che questo può essere d’aiuto allorché devono essere affrontati i molti “problemi che una riforma costituzionale viene a mettere in campo così da compiere su questo terreno scelte appropriate”.
Ma è solo sul piano tecnico che una riforma costituzionale deve essere valutata? Certamente no, se è vero, come afferma Cheli, che le costituzioni nascono per unire; se esse non giustificano il motivo per cui devono essere rispettate, è inevitabile che godano di poco consenso. Oltre che sul piano tecnico, perciò, una proposta di riforma, parziale o totale, di una Costituzione vigente deve necessariamente potersi giustificare sul piano della sua capacità di dare, come già si è detto, soluzioni condivise ai problemi sociali; solo così è possibile garantire ad una Costituzione il necessario “patriottismo costituzionale”, in grado di dare forza e spessore, come afferma Cheli “alle ragioni destinate a sorreggere le vita della comunità” (E.Cheli, “Nata per unire. La Costituzione italiana tra storia e realtà”).
Se così stanno le cose, di fonte alla proposta di riforma della Carta costituzionale vigente, è naturale che i cittadini si chiedano se oggi il “patriottismo costituzionale” che è stato possibile costruire intorno alla Carta adottata nel dopoguerra, può essere oggi riproposto a supporto di quella che potrebbe essere adottata se la riforma approvata dall’attuale maggioranza governativa dovesse superare la prova referendaria. Se si considerano le profonde contrapposizioni oggi esistenti tra i singoli territori che compongono l’intero Paese e tra i diversi gruppi sociali, risulta difficile pensare che la maggioranza degli italiani non aspiri ancora alla difesa dei diritti connessi a tutte le libertà personali e al metodo della democrazia che la Costituzione repubblicana è valsa ad affermate; ma risulta in egual modo difficile pensare che la stessa maggioranza sia soddisfatta del modo in cui sono stati garantiti i cosiddetti diritti sociali.
Sotto questo aspetto, nei gruppi sociali economicamente più deboli, da un lato, è maturata l’aspirazione a una revisione della Carta idonea a rendere il “patriottismo costituzionale” più forte e diffuso; dall’altro lato, si è anche consolidata una larga sfiducia riguardo agli strumenti previsti dalla Carta repubblicana vigente per dare ampia ed equa attuazione ai diritti sociali. Questa doppia tendenza giustifica ampiamente la posizione di chi da tempo sta invocando una riforma costituzionale; ma se se la riforma deve servire per rinforzare su basi rinnovate il “patriottismo costituzionale” a supporto dell’unità nazionale, c’è da chiedersi quali debbano essere le riforme che sarebbe giusto adottare.
Per formulare una corretta proposta di riforma sarebbe stato necessario diagnosticare prima le cause dei mali ai quali si intendeva fare fronte; per quanto concerne la riforma per la quale gli italiani sono chiamati ad esprimere il loro voto, chi l’ha elaborata ed approvata avrebbe dovuto riconoscere che le cause riguardano prevalentemente, non tanto la funzionalità del modello costituzionale vigente, quanto la sua inadeguatezza riguardo ad alcuni dei diritti sanciti, soprattutto per quelli sociali; si sarebbero dovute riconoscere, per esempio, le crescenti difficoltà ad assicurare a tutti il lavoro e i conseguenti ostacoli che si oppongono alla rimozione, o quantomeno al contenimento, delle profonde disuguaglianze distributive che gli alti livelli di disoccupazione irreversibile stanno determinando.
Il non aver colto l’inadeguatezza del vecchio impianto costituzionale rispetto ad alcuni dei principi fondamentali che indicano gli obiettivi sociali sulla cui perseguibilità è fondato il “patriottismo costituzionale” repubblicano e l’aver privilegiato solo la riforma degli strumenti originariamente previsti per il loro perseguimento, in funzione di altre finalità, da alcuni considerate causa dei mali sociali, contribuirà a peggiorare la credibilità del sistema politico su cui è fondata la tenuta dell’unità del sistema sociale dell’Italia. E’ nel senso di una diminuzione delle cause del disagio sociale che la riforma costituzionale avrebbe dovuto essere formulata, nella consapevolezza che la legge fondamentale di un sistema sociale deve essere sempre tenuta funzionalmente efficiente, per via del fatto che essa serve per tenere uniti i cittadini che l’adottano e non per disunirli.
Tale consapevolezza sarebbe dovuta essere presente nelle forze politiche che hanno elaborato la proposta di riforma, in relazione anche al fatto che questa se approvata, varrà a promuovere un’attività politica per il governo del sistema sociale italiano che, al pari di molti altri sistemi sociali europei, è destinato a vedere aumentata la propria complessità, a causa della nuova dimensione sociale e giuridica dei problemi, che trascende i ristretti limiti dei confini degli Stati nazionali.

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