Terremoto
Il terremoto è morte e devastazione, è paura, panico, vite distrutte, fine di sogni e speranze. Non si intravede un futuro. “Ricostruiremo tutto come era”, si magari! Fosse possibile sarebbe bello. Il terremoto porta via qualcosa che non è fatto soltanto di pietre che si rompono e si separano. Si porta via suoni, i rumori, le chiacchiere, gli sguardi, gli incontri e i luoghi. Tutto questo non si potrà ricostruire così come era. Resta la vita per chi l’ha salvata, resta la triste disperazione degli anziani che sanno di non avere più molto tempo per ricominciare da capo. Restano i ricordi e i resti di una comunità che ormai non è più. Non resta, per chi ne ha voglia, che provare a vivere e vedere se e come sarà possibile farlo.
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- Il parere e le proposte autorevoli di Renzo Piano.
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Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari.
di Gianni Loy
Il 28 ottobre al Centro di documentazione e studi delle donne, in via Falzarego 35, si è aperta la mostra fotografica di Anna Marceddu, dal titolo “Fiori di campo” incentrata su scatti effettuati, sopratutto a bambini, nel Campo rom di via San Paolo.
La mostra rimarrà aperta sino all’11 novembre 2016 e si potrà visitare nei giorni e nelle ore di apertura del Centro di documentazione e studi delle donne.
Mattina h. 9.45-13.00 – dal martedì al venerdì
Sera h. 16.00-19.30 – martedì e giovedì .
Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari. Erano uomini, donne bambini, molti i bambini e le bambine, animavano le aie di terra battuta che separavano le baracche di legno le une dalle altre. I mestieri erano quelli di sempre, dalla raccolta dei metalli alla questua, meglio se accompagnata da un bambino o, in mancanza, da un gomitolo di stracci avvolto in una piccola coperta, in grado di trarre in inganno i passanti meno avveduti.
Quanto il campo era in via San Paolo, l’acqua veniva attinta alle fontanelle e conservata in bidoni o piccole cisterne. La luce, nel senso dell’energia elettrica, veniva dall’alto. Non dal sole, ma dai cavi che penzolavano tra i pali di legno. Mani abili sapevano attingere a quell’energia. Appendevano, non visti, i cavi che portavano la luce. Il tepore, quando non era il sole, lo portava il fuoco. Quel fuoco amico ma anche traditore, che, quando impazziva, riduceva in cenere la baracca e, talvolta, si portava via bambini che sorridevano alla vita.
Quando il campo era in via San Paolo, Negiba, era una matriarca, possedeva autorità sui propri figli e figlie. Ma i maschi e le femmine avevano capannelli diversi. Era nel capannello dei maschi, dove le donne erano ancora escluse, che si prendevano le decisioni. Essi, i maschi, rappresentavano la comunità del campo. Del resto, solo i maschi incominciavano a frequentare la scuola, anche se solo per acquisire quelle elementari abilità, la lettura e la scrittura, che incominciavano a rivelarsi utili nelle relazioni sociali.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, erano uomini e donne arrivati da poco, in fuga dalle guerre dei Balcani. Uomini e donne, che nella terra d’origine vivevano nelle case, inventavano un nuovo modello di sopravvivenza nella periferia della città, l’unico spazio loro concesso dal pregiudizio, quello si, che già offuscava le menti di chi aveva assimilato e tramandava lo stereotipo negativo dello zingaro brutto, sporco e cattivo.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, non risulta che nessun bambino o bambina del circondario sia stata sottratta alla propria famiglia da una zingara rapitrice. Non risulta neppure successivamente, per la verità, che qualche bambino sia scomparso per mano degli zingari.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, gli indigeni civilizzati immaginavano di essere l’ombelico del mondo ed ostentavano superiorità. Non sapevano che anche quegli zingari, a loro volta pensavano di essere loro al centro dell’universo, che quegli zingari possedevano una visione semplificata del mondo, dove le persone si dividevano i due soli grandi gruppi, da una parte gli zingari e, dall’altra parte, senza alcuna ulteriore distinzione, tutti quelli che zingari non sono, quelli che essi continuano a chiamare, con accezione vagamente dispregiativa, i gagè, cioè i non zingari.
Quando il campo era in via San Poalo, un giorno, una donna fece portare un grande cubo di cemento proprio nel mezzo di quell’insediamento che cominciava ad essere definito come “abusivo”. Fece portare banchi, lavagne e quaderni. L’energia elettrica la fornirono, cortesemente, gli stessi abitanti del campo. Così nacque una scuola. Ma una scuola particolare, che solo le donne potevano frequentare, mentre i maschi, anche se solo per qualche ora, dovevano farsi carico dei bambini. Coi loro figli in braccio, qualche volta, si affacciavano con curiosità alle finestre della classe.
Quando il campo era in via San Paolo, quegli uomini e quelle donne, quelli che con tono vagamente dispregiativo chiamavamo zingari, continuavano a trasmettere ai loro figli ed ai loro nipoti, anche se non conoscevano la scrittura, una incomprensibile lingua dal sapore orientale. Mentre noi, gli eruditi, insegnavamo ai nostri figli una lingua affatto diversa da quella che avevamo appreso dai nostri padri.
Quando il campo era in via San Paolo, una giovane donna di nome Anna, aveva incominciato ad aggirarsi nel campo con una macchina fotografica, affascinata dalla profondità in bianco e nero di quei volti. Rubava espressioni vitali, per poi farle rivivere in una camera oscura ed esibirle in una prima mostra fotografica che, per la verità, non fu mai inaugurata.
Quando il campo era in via San Paolo, gli zingari più avveduti, o più ricchi, costruivano le loro case su due piani, ed offrivano agli ospiti un caffè già zuccherato con la mamma nel fondo. L’insediamento aveva la parvenza di una piccola comunità organizzata ed autosufficiente
Quando il campo era in via San Paolo, quell’interminabile fila di baracche offriva un’immagine indecente ai primi visitatori che, provenienti dall’aeroporto, entravano in città. Almeno così sosteneva il sindaco di allora, che decise di spostarli tutti all’interno di un unico campo, lontano dalla città, condannandoli a vivere in roulotte.
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Ora quel campo non esiste più. Neppure gli zingari esistono più, anche se qualche volta ancora si sente l’espressione “zingaro di merda”. Adesso si chiamano rom, ma non si sa se ciò sia dovuto ad una autentica presa di coscienza o, più semplicemente, al fascino, insincero, del politicamene corretto, o del politically correct, a voler essere ancor più à la page.
Ora che quel campo non esiste più, non esiste neppure l’altro campo, quello della 554, quello dove avrebbero dovuto vivere ciascuna famiglia in una piazzola, all’interno di roulotte, perché gli amministratori fingevano che, nonostante fossero diventati rom, continuassero ad essere dei nomadi vagabondi.
Ora che quel campo non esiste più, e neppure l’altro, sono stati sparsi nel territorio, nei comuni limitrofi. Vivono, provvisoriamente, in case, sino a quando non si sa.
Ora che quel campo non esiste più quel cubo di cemento che aveva ospitato la scuola, è diventato, forse, lo spogliatoio del vicino campo di calcio, o magari il transitorio ricovero abusivo per qualche senzatetto.
Ora che quel campo non esiste più, Anna Marceddu non ha perso affatto la passione per la fotografia. Accostando al bianco e nero delle origini la nuova tecnologia del colore, continua a lavorare sui volti, soprattutto dei bambini, di persone che non sono più zingari, né nomadi, e forse neppure rom. Molti, infatti, e sempre più, sono semplicemente cittadini italiani. E siccome la nostra Costituzione, (che Dio ce la conservi) riconosce a tutti i suoi cittadini pari dignità sociale, dovrebbero essere proprio uguali a noi. Uguali, ma anche differenti, come tutti. Con tratti peculiari ed espressioni, tuttavia, che non sfuggono all’occhio di un obiettivo attento e curioso. Se proprio lo volessimo, potrebbero persino parlarci.
Gianni Loy – 28 ottobre 2016
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