Migranti

migranti-in-piazza-Carmine-8-9-15-208x300Immigrazione in Sardegna: cosa fare e cosa pensare. Giorgio Altieri, magistrato del Tribunale di Cagliari, analizza sul piano sociale e giuridico l’emergenza umanitaria che l’Occidente ha appena cominciato ad affrontare

Su La Nuova Sardegna del 16 settembre 2016
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Immigrazione in Sardegna: cosa fare e cosa pensare.

(La Nuova Sardegna) Pubblichiamo un’ampia e interessante riflessione di Giorgio Altieri, magistrato del Tribunale di Cagliari, sul tema attualissimo e scottante dei migranti, analizzato profondamente sia sul piano sociale che giuridico.

L’estate del 2016 è iniziata con le polemiche sull’accampamento di alcuni migranti in piazza Matteotti e si conclude con le proteste dei cittadini e dell’autorità comunale di Suni per l’insediamento di un centro di accoglienza, la violentissima aggressione a un parcheggiatore abusivo a Cagliari, la devastazione di un centro di accoglienza a Burcei, la protesta contro l’accoglienza di alcuni bambini stranieri al Microcitemico, una manifestazione (per fortuna poco frequentata) contro “l’invasione”. Sarebbe ingenuo pensare che si tratti di fatti isolati: la narrazione dominante del fenomeno migratorio in termini di invasione, i rigurgiti nazionalisti declinati in termini puramente egoistici e sfruttati in funzione di obiettivi politici locali, il clima di generale insoddisfazione e sfiducia nei confronti delle istituzioni, errori obiettivi nella non facile gestione dell’accoglienza concorrono a creare un clima di tensione che può facilmente sfociare in episodi che vanno dall’intolleranza allo squadrismo. La magistratura dovrà prestare la massima attenzione a questi fatti, inquadrarli nel contesto storico e culturale del tempo rifuggendo a letture riduttive, dare risposte ferme e sollecite. Ma un approccio serio non si può risolvere in un intervento meramente repressivo, l’ennesima risposta settoriale che non si fa carico della complessità delle questioni di fondo.
Piazza Matteotti: un atto di disobbedienza civile. Pensiamo, per fare un significativo esempio, alla vicenda di piazza Matteotti: davvero si tratta solo di un problema di ordine pubblico e di igiene, la cui soluzione può essere delegata alla Questura e alla Asl? E davvero è una questione di rilevanza esclusivamente locale, un problema che può essere ragionevolmente ascritto ad atteggiamenti lassisti ispirati al fantomatico filone di pensiero del “buonismo”? Quanto a quest’ultimo punto, basta leggere i giornali: lo stesso problema si presenta a Como con i migranti che intendono raggiungere la Svizzera, a Ventimiglia con quelli diretti in Francia, e in termini numericamente molto più consistenti a Calais, meta dei migranti che, dalla Francia, si dirigono in Inghilterra. Le ragioni di questo fenomeno si riconnettono alla Convenzione di Dublino del 1990, che regola in ambito europeo la competenza per l’esame delle domande di protezione internazionale. Nell’Unione Europea gli interessati, salvo che abbiano familiari in altri stati dell’UE o un precedente permesso di soggiorno, non possono scegliere liberamente lo stato di destinazione; la competenza spetta allo stato nel quale lo straniero ha fatto ingresso nel territorio dell’Unione.
Il sistema Dublino è così strutturato per evitare duplicazioni di domande, ma ha alcuni difetti fondamentali: non tiene conto delle aspirazioni delle persone in fuga, le quali spesso hanno dei punti di riferimento in specifici paesi dell’UE, e comporta una pressione insostenibile sui paesi di frontiera dell’Unione, perché le vie di ingresso all’Europa sono due, il Mare Mediterraneo e i Balcani, e dunque essenzialmente i migranti entrano nel territorio dell’Unione dall’Italia (circa 150.000 persone all’anno) o dalla Grecia (circa sei volte tanto). Gli stranieri che arrivano in Italia e che intendono migrare in altre zone d’Europa, per via di questo sistema, hanno l’obiettivo di non farsi identificare, in modo da cercare di passare in qualche modo la frontiera e cercare rifugio nei paesi di destinazione. Questo progetto però è complicato dal loro arrivo in un’isola; per questa ragione l’approdo in Sardegna delle navi coinvolte nell’operazione Triton ha condotto (soprattutto per gli stranieri di alcune nazionalità, i quali evidentemente fanno riferimento a comunità di connazionali) a forme di protesta eclatanti che hanno lo scopo di evitare l’identificazione e di ottenere di lasciare la Sardegna, per poi riversarsi alla frontiera di Ventimiglia. Si tratta, certo, di una violazione delle norme; ma di una violazione consapevole, un’obiezione di coscienza che nasce dal fatto oggettivo che il criterio di ripartizione dei rifugiati nell’UE è iniquo, come hanno riconosciuto gli stessi Parlamento e Commissione europea, i quali ne hanno chiesto il superamento.
Come normalmente accade in questi casi non è l’Europa che si oppone alle innovazioni, ma gli stati nazionali; il superamento del sistema Dublino non è stato accettato dal Consiglio, il quale si è limitato a introdurre dei temperamenti, e in particolare il meccanismo compensativo della c.d. relocation. La relocation, tuttavia, per una serie di ragioni ha attenuato il problema ma non lo ha risolto; e in ogni caso l’ottica che ha guidato il Consiglio è esclusivamente quella di una perequazione tra gli stati membri, senza alcuna considerazione per le scelte e le aspirazioni di persone in fuga dalla guerra o dalle persecuzioni, le quali hanno fatto la scelta di Antigone: “Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte degli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre […] Per timore di un uomo io non potevo subire il castigo degli dei! Non si tratta, dunque, di antagonismo, arroganza o “irriconoscenza”, ma di una forma di disobbedienza civile, che può essere contrastata – in alcuni casi, ad esempio, la Polizia sta procedendo a identificazioni forzate – ma deve essere considerata con rispetto e soprattutto compresa.
La percezione delle ragioni del disagio è necessaria per attivare strumenti che possano contribuire a risolvere il problema; in molti casi, ad esempio, si tratta di persone che potrebbero aver diritto al ricongiungimento familiare ma non conoscono le procedure, e quindi avrebbero bisogno di assistenza legale; in altri casi un’opera di mediazione, ad esempio con l’offerta di sistemazioni più adeguate, può ottenere risultati positivi; e così via. È necessario, in altri termini, che l’approccio sia individuale, centrato sui problemi di quella singola persona, e non sull’immagine della città offerta ai crocieristi; altrimenti gli stranieri andranno via da piazza Matteotti ma si trasferiranno in qualche altro luogo pubblico vicino al porto (magari nei portici di via Roma, come due anni fa, o nell’area portuale, come un anno fa), con l’aspettativa di riuscire un giorno, in qualche modo, a imbarcarsi clandestinamente su una nave in partenza verso la speranza.
La seconda accoglienza. È contraddittorio, del resto, che da un lato si stigmatizzi il rifiuto dell’accoglienza da parte dei migranti, e dall’altro lato si rifiuti loro l’accoglienza, come è avvenuto – con il beneplacito delle amministrazioni cittadine – a Suni e a Burcei. L’individuazione di Cagliari come uno dei porti di smistamento dei migranti soccorsi in mare nell’ambito dell’operazione Triton comporta maggiori oneri per la prima accoglienza, anche se non si tratta di uno degli scali principali; Cagliari infatti è all’undicesimo posto per numero di persone sbarcate, mentre Porto Torres è al diciassettesimo. Non bisogna però confondere le operazioni di prima accoglienza con la permanenza nella regione. I migranti, una volta giunti in Italia e completate le operazioni di prima accoglienza, vengono infatti smistati nel territorio nazionale in base a percentuali predeterminate (per la Sardegna il 2,96 %, una delle più basse in Italia), proporzionali alla popolazione, al prodotto interno lordo delle singole regioni e al numero di migranti già presenti. Si tratta dunque di una ripartizione equa e basata sulla solidarietà nazionale, ed è del tutto infondata, come ha ben chiarito la Prefettura, l’idea che le quote non siano state rispettate (o che non si sia tenuto conto degli sbarchi diretti). Più semplicemente, le percentuali si traducono in previsioni numeriche che sono predeterminate per consentire ai singoli territori di predisporre le strutture, ma ovviamente possono mutare in qualsiasi momento in seguito a operazioni di soccorso in mare di centinaia o migliaia di persone.
La leggenda urbana del superamento delle quote, ampiamente strumentalizzata per attaccare l’attuale Giunta regionale incapace di “fare la voce grossa” con il Governo (polemica che in sé rientrerebbe nella normale dinamica pluralistica, se non contribuisse a generare una visione distorta i cui costi umani sono pagati da persone deboli), è una delle tante che circolano sulla materia. Un’altra è quella dell’imposizione della presenza dei centri di accoglienza alle popolazioni locali. In estrema sintesi, il sistema di seconda accoglienza – denominato SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) -, destinato ad accogliere i richiedenti asilo, si fonda su progetti predisposti dagli enti locali e approvati dal Governo. Negli ultimi anni vi è una tendenza crescente degli enti locali a disertare i bandi SPRAR, e quindi a rinunciare alla compartecipazione democratica al sistema di accoglienza, che poi viene richiesta a gran voce quando si profila la possibilità dell’apertura di centri di accoglienza straordinaria che, a quel punto, rappresentano una scelta obbligata. L’insufficienza dei posti SPRAR, infatti, obbliga le Prefetture a ricorrere sempre più al sistema dei centri di accoglienza straordinaria, individuati direttamente attraverso una pubblicazione rivolta a soggetti privati; sistema che dovrebbe essere residuale, ma ad oggi copre circa il 76% del fabbisogno.
In Sardegna questo fenomeno è ancora più marcato: ci sono 5.000 migranti ospitati nelle strutture temporanee e 171 nelle strutture SPRAR, e questo ha una serie di ricadute negative, non solo perché le popolazioni locali – invece di prendersela con la mancanza di progettualità dei propri amministratori – la vedono come un’imposizione centralistica, ma anche perché il sistema è obiettivamente meno garantito e controllato rispetto a quello dello SPRAR. I progetti dello SPRAR, infatti, devono prevedere un’accoglienza integrata, il coinvolgimento dei territori, l’integrazione linguistica, la tutela sanitaria, psicologica, legale, e in molti casi – ad esempio in Calabria – hanno avuto ricadute molto positive sul territorio in termini di occupazione e di servizi (ad esempio scuole di paesi spopolati dell’interno, che altrimenti sarebbero state chiuse, sono rimaste aperte per la presenza dei minori stranieri); le statistiche escludono che vi sia stata una maggiore incidenza di reati. Viceversa, la rinuncia al sistema SPRAR e la crescente difficoltà delle Prefetture a fronte di urgenze da risolvere in tempi strettissimi comportano una difficoltà a creare un sistema di accoglienza che vada oltre la semplice ospitalità alberghiera; in molte strutture non esistono mediatori culturali – indispensabili per garantire la pacifica convivenza di persone di diverse etnie e provenienze, con vissuti difficili, scaraventate in un contesto sconosciuto -, in altre vi è promiscuità tra persone deboli e altre che potenzialmente ne possono sfruttare la debolezza, per non parlare di veri e propri abusi che sono già all’attenzione della magistratura (ad esempio imposizione di professionisti di fiducia, ricatti sul pocket money, allontanamenti strumentali, mancati pagamenti da parte di comuni ai quali erano state regolarmente accreditate le risorse).
È indubbiamente necessario che i controlli siano più penetranti e che la distribuzione dei migranti sia fatta con maggiore attenzione e criterio (è stato fatto un grande sforzo per i soggetti più deboli, i minori non accompagnati); ma è anche necessario, se si vogliono ottenere risultati positivi e evitare il collasso di un sistema che si regge in gran parte grazie alla dedizione e alla professionalità di alcune istituzioni e enti di volontariato (la Polizia di Stato, la Prefettura, la Asl, la Caritas), che gli enti locali partecipino attivamente, invece di rifugiarsi nella scelta deresponsabilizzante di un sistema alternativo basato sull’iniziativa privata, per poi lamentarsene. Gli sbarchi diretti.
Un problema ancora diverso è quello degli sbarchi diretti di persone che provengono dall’area maghrebina (perlopiù tunisini e algerini), che hanno avuto una netta ripresa quest’estate dopo anni di calma. La ripresa degli sbarchi diretti è una conseguenza della chiusura del CARA di Elmas. Negli anni scorsi, infatti, gli sbarchi erano fortemente diminuiti perché gli immigrati, appena arrivati nell’isola, venivano immediatamente identificati e espulsi. La notizia della chiusura del centro, evidentemente, si è presto diffusa, e gli sbarchi sono ripresi più di prima, creando dei problemi di sovraccarico ulteriore del sistema di prima accoglienza e anche di piccola criminalità economica. Si tratta infatti di migranti economici, che non possono e non intendono usufruire del programma di protezione per i rifugiati e che arrivano in Sardegna privi di risorse e con l’intenzione di partire quanto prima; tutti fattori potenzialmente criminogeni, perché ovviamente, non avendo presentato domanda di asilo e non godendo del pocket money (2,50 euro al giorno, non certo 35 euro come nelle leggende), i migranti tendono a cercare illegalmente – spesso ai danni di altri stranieri – le risorse necessarie per acquistare il biglietto di viaggio. Il Governo ha proposto l’istituzione in Sardegna di un hotspot, cioè di un centro per la prima identificazione analogo a quelli esistenti a Pozzallo, Lampedusa, Trapani e Taranto; ma il progetto, oltre a opposizioni corporative, ha sorprendentemente registrato il diniego del Presidente della Regione e del Sindaco di Cagliari, verosimilmente per l’idea erronea che il centro – funzionale all’immediata espulsione delle persone che non hanno diritto all’asilo e non lo richiedono – possa determinare un maggiore flusso di immigrazione nel capoluogo.
La narrazione dell’immigrazione. I temi accennati, e i molti altri che si propongono quotidianamente (ad esempio quelli dei minori stranieri non accompagnati, o della durata delle procedure), danno l’idea della complessità dei problemi, contrapposta alla semplificazione che viene proposta all’opinione pubblica. La retorica dell’invasione, gli allarmismi sull’aumento della criminalità o dei pericoli sa-nitari (puntualmente smentiti dagli organi ufficiali), le teorie del complotto, gli attacchi all’immaginaria categoria di pensiero del “buonismo” fioccano nei social media e negli articoli urlati dei giornali meno seri, dando vita ad un discorso composto da pochi fatti (non sempre presentati correttamente) e molto storytelling.
Si può parlare seriamente di invasione per l’arrivo di 150.000 persone – che solo in parte si trattengono in Italia – in un paese che ha quasi sessanta milioni di abitanti? I numeri sono chiari: l’Italia è uno dei paesi con il minore indice di rifugiati in rapporto alla popo-lazione; meno di un terzo, per intendersi, rispetto alla Germania. In Sardegna si parla di 12.000 persone in tre anni; in Sicilia, in un anno, sbarcano 85.000 stranieri. Tutte persone che l’Italia ha il dovere di accogliere, in virtù di norme internazionali cogenti alle quali nessun Governo si potrebbe sottrarre; e non si vede perché il territorio sardo, o quello di alcuni comuni, dovrebbe essere esentato dal dare un contributo proporzionale alla pro-pria popolazione e alle proprie risorse economiche. Eppure esiste una fascia consistente della popolazione che è pronta a giustificare fatti gravi, magari facendo – come alcuni organi di stampa – sottili distinguo tra gli esecrabili atti vandalici e la giusta reazione di cittadini esasperati da chissà cosa (secondo l’archetipo degli “italiani brava gente” costretti alla legittima difesa), visto che parliamo di centri che non accolgono neanche una persona e di pericoli futuri e immaginari.
La verità è che il discorso pubblico dell’invasione, per la sua capacità di semplificare la realtà e di offrire soluzioni tanto immediate quanto fiabesche, fa presa su molte persone e rischia di diventare egemone – e di causare manifestazioni d’odio razziale sempre più gravi – se non sarà adeguatamente contrastato da letture complesse, insistenti, fondate su dati obiettivi.
Di fronte a un’emergenza umanitaria senza precedenti, sulla quale si misura la nostra democrazia e la nostra civiltà, questa è la responsabilità delle istituzioni, dei mass media, degli intellettuali e dei singoli cittadini.

16 settembre 2016

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