Oltre brexit
Cohn-Bendit: i tre leader rilancino l’ideale federalista. O sarà un’usurpazione
di Stefano Montefiori
By sardegnasoprattutto/ 21 agosto 2016/ Società & Politica/
Il Corriere.it L’intellettuale e politico franco-tedesco: «L’unica via per andare avanti?
Difesa comune, mutualizzazione del debito e investimenti».
Che effetto le fa immaginare Merkel, Hollande e Renzi a Ventotene?
«Sono molto curioso di vedere che cosa faranno durante il summit. Ventotene è un luogo importante, carico di storia, potrebbero approfittarne per ridare forza all’Europa. Temo invece che continueranno a essere gli stessi che abbiamo visto all’opera in questi anni. E allora, se visiteranno la tomba di Altiero Spinelli, assisteremo a un’usurpazione della sua memoria, perché nessuno dei tre leader mostra di avere un vero progetto europeo».
Daniel Cohn-Bendit, 71 anni, è poco indulgente con il trio Merkel-Hollande-Renzi, e con la decisione simbolica di organizzare il vertice sulla portaerei Garibaldi ancorata vicino alla piccola isola del Tirreno: il «manifesto di Ventotene» scritto al confino da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann ha guidato l’impegno politico di Cohn-Bendit nei suoi vent’anni da deputato europeo ecologista.
Con Guy Verhofstadt, Sylvie Goulard e Isabelle Durant, nel 2010 Daniel Cohn-Bendit ha fondato al Parlamento europeo il «gruppo Spinelli», una rete di personalità di diversi orientamenti politici accomunate dal desiderio di anteporre gli interessi dell’Europa a quelli nazionali. Proprio come raccomandava nel manifesto di Ventotene Altiero Spinelli, negli ultimi anni sempre più inascoltato dai leader europei.
Che cosa si aspetta dal trio?
«Se rendendo omaggio a Spinelli vorranno rilanciare l’idea di un’Europa federale dico “bravi!”, ma non ci credo. Nelle loro parole non c’è mai alcun riferimento alla volontà di dare nuova forza all’Europa in senso federale».
La Francia è sempre stata più restia al federalismo, concetto in teoria più famigliare alla Germania. Ora anche Berlino sembra frenare. L’idea di un’Europa federale è ormai da considerarsi accantonata?
«Nella coppia franco-tedesca Merkel e Hollande mi sembrano ugualmente corresponsabili della mancanza di un progetto federalista. Si è fatta strada questa visione di una Europa delle nazioni, ma io continuo a credere in un’Europa federale, che ovviamente protegga e rispetti le diverse identità che rappresentano la sua ricchezza. Il solo modo di andare avanti è la mutualizzazione del debito, un rilancio degli investimenti, una difesa comune. Una maggiore condivisione di sovranità, per arrivare a una sovranità europea».
Di difesa comune si parlerà nel vertice di domani, ma qui torna il problema della Gran Bretagna, alla quale la Francia è legata da un importante trattato bilaterale sulla cooperazione militare.
«È il problema di una visione nella quale ogni Stato ha continuato a pensare prima di tutto ai suoi interessi».
Quanto influirà la Brexit?
«La Germania sembra disposta a concedere tempo alla Gran Bretagna, forse troppo. Londra vorrebbe essere “un po’ incinta”, ma deve capire che non è possibile. Ha scelto di uscire dall’Europa, ora ci lasci andare avanti».
Quali potrebbero essere i terreni di intesa tra Germania, Francia e Italia?
«Si dovrebbe cercare un compromesso sulla Siria, e su un grande progetto di investimento europeo. Se invece ciascuno resta sulle sue posizioni avremo i soliti accordi minimi che non significano nulla».
Si parla molto di un’opinione pubblica euroscettica. Ma ci sarebbero forze pronte invece a sostenere un nuovo progetto europeo?
«Un potenziale federalista esiste. In Francia per esempio il ministro Macron è molto attivo in senso europeista, in Germania le forze ci sono, potrebbero essere mobilitate se i leader ne fossero capaci».
La visione federalista è irrinunciabile?
«Io non dico che un’Europa federale si possa costruire in due anni. Ma è inevitabile andare verso una sovranità europea, e quindi verso un’Europa federale. Questo resta l’orizzonte. Sempre che si voglia avere un ruolo nella gestione della globalizzazione».
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Come promesso sul precedente numero di Rocca (n. 15 del 1° agosto 2016) Umberto Allegretti prosegue le sue riflessioni sull’esito referendario della Gran Bretagna, aggiornate con le ultime novità. Puntualmente anche noi di Aladinews riprendiamo il suo articolo (apparso sul successivo numero di Rocca, n. 16-17 agosto/settembre 2016) ribadendo l’importanza delle questioni nella prospettiva del “che fare?” per l’Europa. Ringraziamo anche in questa circostanza la redazione di Rocca e, in particolare, il direttore Gino Bulla, auspicando che si concretizzi l’idea degli “Amici sardi della Cittadella di Assisi” per l’organizzazione di un’apposita conferenza di Umberto Allegretti a Cagliari, in collaborazione con l’associazione culturale “Stampaxi” e con la Fondazione di Sardegna.
di Umberto Allegretti, su Rocca n. 16-17 agosto/settembre 2016*
Dopo un mese dal referendum che ha votato per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (23 giugno), le sue conseguenze non sono chiare né nel Paese protagonista né nei suoi partner europei. La diversità e contraddittorietà delle idee espresse per darvi seguito sono infatti apparse massime; sembra che, come diceva Mao, grande sia la confusione sotto il cielo.
uno stato confusionale
Confusione, innanzi tutto, nella stessa Gran Bretagna: non tanto per la permanente volontà di adesione all’Ue da parte della Scozia, che pone problemi non semplici, e per l’ulteriore anche più complicato passo che potrebbe tentare nella stessa direzione l’Irlanda del Nord. Ma, prima di tutto, per gli effetti prodottisi in seno alle diverse parti politiche del Regno Unito. I dissensi sono solo in parte riflesso delle differenze di voto tra l’elettorato giovanile (che ha però votato unicamente per il 30%) e quello colto e londinese che hanno in maggioranza votato Remain, mentre gli anziani, le zone interne e le regioni proletarie si sono prevalentemente espressi per il Leave, ma con un tasso di presenza elettorale di circa l’80%. Maggiori sono i dissidi di origine largamente personale tra i leader in seno ai vari par- titi, tanto da far parlare, in Gran Bretagna e fuori, di un dramma shakespeariano di tradimenti (con tanto di presenza di lady Macbeth nell’opera di incitamento della signora Gove verso il marito già candidato). Alla fine le lotte in seno al maggioritario Partito conservatore hanno trovato un epilogo nella designazione alla presidenza di Theresa May, la quale ha rapidamente formato il proprio governo.
Nonostante qualche resipiscenza nel Paese rispetto al risultato del voto, senza peraltro possibilità di una seconda consultazione popolare e semmai con l’eventualità di convocare nuove elezioni generali per ricavare chiarezza sulle tendenze dell’elettorato, le prime dichiarazioni del nuovo governo e la sua stessa composizione (che include un personaggio controvertibile quale il già pro-Brexit Johnson) non hanno un contenuto rassicurante.
Anche nell’Unione le reazioni non sono univoche. A parte quelle di favore per il risultato referendario quelle, prevalenti, di sfavore hanno avuto diverso andamento. Alcuni leader, come il capo del governo italiano, si sono espressi per una veloce condotta delle trattative sulla fuoriuscita effettiva del Regno Unito, richieste dal Trattato di Lisbona per regolare i complessi problemi risultanti dall’abbandono di uno Stato membro. Altri, come nell’iniziale atteggiamento della maggiore rappresentante politica dell’Europa, la tedesca Angela Merkel (ma non del suo super-ministro Schaüble), hanno invece patrocinato un’uscita morbida e lenta, per ragioni che non appaiono del tutto chiare e coerenti. La prima tesi sembra ormai prevalere.
trattative Ue-Gran Bretagna
Si arriva però ai limiti della farsa quando da personaggi di entrambe le parti taluno auspica che il rapporto tra Gran Bretagna e Unione resti quello di «amici, alleati, partner», quasi che sia possibile, come è stato con humour rilevato, che «esista una mezza strada fra il divorzio e la stabilità dell’unione». Proprio questa seconda è la posizione della politica britannica, che aspira alla costruzione di un legame tra Ue e Uk simile al rapporto dell’Unione con la Norvegia (si vorrebbe addirittura un «Norway plus»). Ma può un componente, fuoriuscito da un’unione che gli ha accordato tante deroghe e privilegi rispetto agli altri membri, pretendere ora uno statuto ancor più privilegiato?
Guardando poi alla sostanza, nonostante la convinzione secondo cui ci sono nella struttura dell’Unione e nelle sue politiche carenze che hanno provocato l’atteggiamento dell’elettorato britannico e potrebbero provocarne di simili in altri Paesi, i divari si fanno anche maggiori. Se tutti coloro che non hanno una pregiudiziale nazionalistica auspicano un potenziamento dell’unità europea in direzione federale che dovrebbe tradursi in modifiche profonde delle istituzioni, c’è divisione tra chi ritiene che, proprio attribuendo il Brexit alla mancanza di un vero progresso in senso federale, è tempo di por mano a inno- vazioni di questo tipo. E chi invece è dell’opinione che non è questo il momento per procedere a modificazioni organizzative che i popoli europei, e soprattutto quelli dell’Est, attestati su posizioni fortemente «nazionali», avvertirebbero come una sfida inadatta alla situazione attuale, nella quale essi sentono piuttosto il bisogno della soluzione di problemi politici, economici e sociali.
È certo che sono da migliorare la politica economica e quella bancaria, la crescita e l’occupazione giovanile, la politica culturale e di ricerca e la sicurezza. Cameron ha spiegato – e i primi atteggiamenti del governo May, nettamente di destra malgrado qualche cenno a un miglioramento della politica sociale, lo confermerebbero – che la ragione fondamentale del Brexit sta nell’insoddisfazione inglese in merito alla libera circolazione delle persone, perfino tra Regno Unito e partner europei, benché la politica migratoria (tranne in parte nel caso tedesco) non sia certo ampia né solidale. Per molti, troppi, l’enfasi sulla sicurezza porta a una politica di immigrazione restrittiva, senza valutare quali gravi condizioni portano, non solo i popoli in guerra aperta come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan, ma quelli della cerchia della fame – l’Africa subsahariana innanzi tutto – a affrontare la morte in mare o nelle lunghe marce nel deserto e lungo i Balcani. E quindi si manca soprattutto al consenso necessario a una delle migliori proposte di Renzi, quella di una sorta di «Piano Marshall per l’Africa» (proposta che abbiamo personalmente sentito condividere da un personaggio certo non secondario come Prodi), dotato delle necessarie garanzie ma che elevi il tenore di vita di quei Paesi e spinga la gente a rimanervi.
la questione bancaria
La questione bancaria vede forti contrapposizioni tra i governi italiano e tedesco, il primo deciso a un eccezionale intervento di Stato per salvare i risparmiatori dalle difficoltà di una serie di istituti di credito, il secondo contrario; solo di recente sembrano delinearsi (ma ancora, mentre scriviamo, con grosse incertezze) possibilità più vicine alla posizione del nostro Paese. Analoga contrapposizione continua a sussistere sulla questione dei bond europei, voluti da Paesi come l’Italia e negati dalla Germania, ossessionata dalle paure di una sua responsabilità economica. Se queste ed altre cose non si fanno, per esempio nelle politiche sociali, ciò in parte dipende dall’«indebolimento della Francia», così che la Germania sembra un protagonista dell’Unione drammaticamente «solitario» (così ancora Prodi, e Habermas sul Corriere della Sera del 10 luglio è arrivato a dire che la sua patria è «un’egemone riluttante», «insensibile ed incapace»).
Il cambiamento delle politiche va chiesto dai popoli con più forte voce, senza perciò andare alla rottura, che non farebbe se non danni maggiori. Oppure dobbiamo pensare che gli atteggiamenti dei membri europei dell’Est siano l’ultimo frutto avvelenato del comunismo sovietico, in cui a un’ideologia ipercapitalistica si accompagna una scarsa propensione alla libertà e alla solidarietà? Giustamente scriveva poco tempo fa Napolitano che, se non vogliamo ritenere che la loro simultanea ammissione all’Unione sia stato un errore, un errore sicuramente fu non far capire loro bene quali limitazioni di sovranità e quali obblighi di solidarietà erano a base di quell’adesione.
Al momento attuale – se il Brexit è il «suicidio» dell’Uk (così lo si è sentito giustamente chiamare da Prodi) e anche «l’omicidio» dell’Unione – è assai meno prevedibile che cosa accadrà dell’Ue dopo quest’evento. Ma è lecito esprimere una previsione non pessimistica. Vedendo i danni che certamente il Brexit sta provocando nella vita europea, la minaccia di uscita dall’Unione di altri Paesi o di loro porzioni dovrebbe essere meno probabile e i nocumenti all’economia del Continente potrebbero, con saggi comportamenti, essere ben dominati. E infatti, secondo un’inchiesta di cui dà atto Le Monde, nella mag- gior parte dei Paesi membri (ma il maggior pessimismo si verificherebbe proprio in Italia) dopo il Brexit si starebbe producendo una rinascita di sentimento pro-europeo e perfino pro-euro.
* ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2016
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