Buone riflessioni da parte di un neokeynesiano prudente

pensatore sotto lunaAppunti di politica economica e dintorni
di Tonino Dessì
Che siamo in deflazione permanente ogni tanto viene anche scritto.
La deflazione è una delle bestie peggiori per un’economia, in particolare regionale (come quella europea), o locale (come quella italiana).
In genere il tema, politicamente e giornalisticamente, dopo esser stato evocato, non viene approfondito, perché persino gli economisti più seri non hanno mai fornito una “ricetta” efficace per affrontarlo.
Il più delle volte, nei testi “sacri” di ogni autore e scuola, si descrive il fenomeno, si glissa sui complessi problemi teorici e pratici che rendono difficile ogni intervento e poi si rinvia al compiersi di cicli o all’evolversi di precedenti vicende storiche.
La deflazione in corso però non è mondiale, ma specificamente europea, resa possibile come fatto “regionale” dall’essere il sistema economico europeo ancora relativamente chiuso e aggravata dal permanere di un assetto politico-istituzionale continentale ancorato ai criteri elaborati in un periodo nel quale gli obiettivi fondamentali sono stati individuati nella lotta all’inflazione e nel controllo incrociato del deficit pubblico degli Stati membri.
Ne sono scaturiti più di vent’anni di politiche deflazionistiche, dalle quali l’UE non riesce a uscire anche perché dovrebbe modificare gli ultimi trattati nonchè i connessi limiti statutari di missione della BCE. Non solo: occorrerebbe anche revocare le modifiche introdotte, in ossequio a quelle scelte, negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri, come è accaduto con la costituzionalizzazione del pareggio “reale” del bilancio nell’articolo 81 della Costituzione italiana, intervenuta sotto il Governo Monti.
Una modifica politico-ideologica sorprendente, all’interno di una Costituzione politicamente e ideologicamente “aperta” (per non abusare anche in questo campo del termine “laica”).
Quella disposizione contrasta con ogni principio finanziario, perché contiene il divieto di finanziare la spesa pubblica in deficit.
Tant’è che siamo al paradosso di dover far finta che si tratti di una disposizione appena “programmatica”, ma non cogente, altrimenti sorgerebbe questione immediata di incostituzionalità di ogni manovra di bilancio successiva.
Tutte le leggi di stabilità, infatti, fino ad oggi, hanno continuato a finanziare in deficit non solo la (poca) spesa per investimenti, ma anche la (crescente) spesa corrente e segnatamente quella dello Stato centrale, mentre quella delle Regioni e degli enti locali è stata strangolata, con tutte le ricadute che conosciamo sul livello dei servizi di competenza delle autonomie territoriali.
A margine, quindi, ragion di più per lasciare in pace la Costituzione, toccandola il minimo indispensabile.
Ma anche in un contesto che è di ampiezza continentale, da parte del Governo italiano (e della classe dirigente imprenditoriale di principale riferimento) si è continuato a commettere errori specifici e a non compiere alcune scelte che avrebbero consentito una navigazione più proficua del tirare a campare fra qualche elargizione propagandistica (gli ottanta euro), qualche demagogia fiscale a danno della finanza locale (l’eliminazione dell’IMU sulla prima casa malamente compensata da parziali erogazioni derivate centrali) e quotidiani annunci di improbabili attese di incremento del PIL, smentite dai dati della contabilità nazionale cinque minuti dopo l’ultimo tweet.
Valentino Parlato spiega alcune di queste cose in modo semplice e consiglio a chi sopravviva alla lettura del mio post di leggerle. – segue –
Manca tuttavia, tra le questioni importanti di cui scrive Parlato, almeno un punto, che io aggiungo per completezza: la lotta alla corruzione.
Non dico che il problema sia nato col Governo Renzi.
Tuttavia le evidenze del MOSE, dell’EXPO e di Mafia Capitale sono emerse proprio in contemporanea sotto questo Governo, dimostrando l’immensa taglia che paghiamo alla pubblica e privata corruzione.
Sarebbe lecito perciò aspettarsi che il problema venga affrontato di petto, strutturalmente, come una delle priorità temporali effettive, non, anche questo, solo all’interno di polemiche difensive (penso a Milano e soprattutto a Roma), alla fin fine galleggiando oziosamente nell’ordinaria caciara della politica fatta sui media.
Buone riflessioni da parte di un neokeynesiano prudente.
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Dall’articolo di Valentino Parlato sul manifesto del 16 agosto 2016.
(…)
Fino a ieri il governo ha scelto di non seguire le quattro linee d’azione da tempo suggerite dai migliori economisti (fra cui amici de il manifesto come Alberto Burgio, Pierluigi Ciocca, Giorgio Lunghini), che provo a riassumere:

Investire il danaro pubblico in infrastrutture utili ai cittadini (messa in sicurezza del territorio) e a un tempo capaci di sostenere sia la domanda globale sia la produttività del sistema. Se il punto di Pil dissipato in trasferimenti a imprese e famiglie fosse stato così investito, l’economia sarebbe, se non in crescita, in ripresa (2% l’anno?) e lo stesso disavanzo pubblico sarebbe minore rispetto al Pil.

Imporre la concorrenza, chiarendo in via definitiva alle imprese italiane che il profitto va ricercato attraverso efficienza e innovazione, invece di scaturire da sussidi statali, da posizioni di rendita, dal taglio dei salari consentito dalla contrattazione aziendale.

Riformare con urgenza e in modo organico, secondo una sinergica visione d’assieme, l’ordinamento giuridico dell’economia, segnatamente nel diritto societario, fallimentare, processuale, dei contratti pubblici di appalto e fornitura. Ne dipendono punti di Pil.

Correggere una distribuzione dei redditi fra le più sperequate nel novero dei paesi industriali, a cominciare da una vera lotta all’evasione fiscale e contributiva.

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