Quale economia?
I limiti della “mano invisibile” del mercato
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
La teoria economica tradizionale ha prodotto un’abbondante letteratura, per dimostrare i vantaggi che possono essere assicurati alla collettività dal funzionamento di un libero mercato guidato da una presunta “mano invisibile”. E’ questa una visione dovuta al fondatore dell’economia moderna, Adam Smith, secondo il quale, quando i mercati sono lasciati funzionare per conto loro, senza che un’autorità sovraordinata pretenda di dirigerli, producono il massimo vantaggio per i singoli individui che vi operano, indipendentemente dalla loro intenzionalità, ma anche per l’intera collettività.
L’errore di chi, acriticamente, prende che sia considerata valida la visione smithiana consiste, secondo Kaushik Basu [economista indiano e docente presso la Cornell University di Ithaca nello Stato di New York e autore di “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”], nel non rendersi conto che il libero mercato della tradizione manualistica della teoria economica, pur avendo le qualità che le vengono attribuite, essa però è irrealistica; da ciò consegue che è privo di senso pensare che l’avvicinarsi “al modello di un mercato perfettamente libero” serva a condurre l’umanità “verso una qualche sorta di ideale sociale”.
L’assunto sottostante la concezione ortodossa del libero mercato è che la ricerca dell’interesse personale vada sempre a beneficio della società; ma questo assunto – a parere di Basu – implica che non esista alcun conflitto tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo dell’intera società. Sebbene la visione smithiana del mercato possa apparire ovvia, occorre tenere presente – afferma Basu – che l’assunto del libero mercato regolato dalla mano invisibile è rimasto senza dimostrazione per tanto tempo, sino a quando esso, a Novecento inoltrato, è stata dimostrata la sua validità formale, da parte di alcuni autori, tra i quali spiccano i nomi di Kenneth Arrow e Gèrard Debreu. Questi autori hanno formalmente dimostrato che, date certe condizioni iniziali, tutti gli individui, perseguendo il proprio interesse egoistico, conducono il sistema sociale ad uno stato ottimale; questa dimostrazione formale è divenuta nota come “primo teorema dell’economia del benessere”.
Il teorema non implica che l’assunto del libero mercato affermi qualcosa di sbagliato; le proposizioni in cui il teorema si articola, però, sono proposizioni condizionali, fondate su un sistema di ipotesi che valgono ad introdurre un insieme di condizioni iniziali che si suppongono date; queste, in quanto tali, valgono ad allontanare l’idea del mercato competitivo autoregolato dalla realtà. Un aspetto essenziale della condizioni iniziali è l’idea che il mercato e il funzionamento del sistema economico possano essere separati dalla società e dalle sue istituzioni politiche, mentre per poter valutare come realmente funziona il mercato occorre valutare congiuntamente le relazioni che intercorrono tra mercato, funzionamento del sistema economico, istituzioni politiche e società; non farlo – afferma Basu – costituisce un limite grave al funzionamento stabile e socialmente giusto del sistema economico. Llimite, questo, che sta alla base del conservatorismo di gran parte della teoria economica standard.
Pertanto, l’idea che un mercato interamente libero costituisca un obiettivo ideale da perseguire per ottimizzare la soddisfazione dell’interesse individuale e collettivo poggia su basi realisticamente improbabili. Queste basi sono un mito: “un mito – afferma Basu – che ha prodotto effetti di vastissima portata sul modo di valutare le decisioni di politica economica” e sulla possibilità di realizzare un ordine economico più stabile e socialmente equo. Poiché del primo teorema dell’economia del benessere, in virtù della sua forza intellettuale, ma anche del suo grande fascino estetico, se considerato isolatamente, ne è stato fatto un uso irragionevole, sino a comportare conseguenze negative riguardo al modo in cui sono decise le politiche economiche, Baso, col suo libro, intende criticare il pensiero economico dominante, per proporre un punto di vista alternativo riguardo al modo di funzionare dell’economia.
Lo scopo dell’economista indiano è di mostrare che il mercato può funzionare in modo diverso rispetto a quello assunto sulla base del mito della mano invisibile, per sostenere che i processi economici e sociali non si svolgono secondo ipotesi fideistiche, ma sulla base di una governance politicamente adottata e socialmente condivisa. L’efficienza e l’equità di un’economia di mercato – afferma Basu – sono “strettamente connesse alla natura della governance e delle istituzioni collettive di una società”. Ciò, peraltro, è quanto stabilisce il secondo “teorema dell’economia del benessere”, che i sostenitore del libero mercato incondizionato ignorano nelle loro analisi.
Il secondo teorema, infatti, ridimensiona il mito smithiano, affermando che, modificando opportunamente le dotazioni iniziali dei componenti il sistema sociale attraverso politiche ridistributive, un’economia concorrenziale consente di raggiungere qualsivoglia stato sociale ottimale, in corrispondenza del quale è massimizzata l’utilità collettiva. Se si considera anche questo secondo teoreme, diventa chiaro – sottolinea Basu – che, se si vuole che il sistema sociale disponga di un’economia efficiente ed equa sul piano distributivo, occorre un governo del mercato ed istituzioni politiche idonee a contenere le disuguaglianze; se queste sono associate a situazioni di povertà, come capita spesso nei sistemi capitalistici, occorrerà combattere per prima quest’ultima, in quanto, sebbene le disuguagluanze siano di per sé un male, esse possono essere tollerate se servono a sconfiggere la povertà.
Cercare di conseguire miglioramenti dello stato sociale, anche attraverso politiche economiche dagli effetti limitati sul piano del cambiamento, non significa che queste politiche siano compatibili con lo scopo più generale di realizzare un mondo migliore; esse servono – sottolinea Basu – “a tener vive le speranze di riforme più generali, capaci di eliminare la povertà dal pianeta […] e di riportare la disuguaglianza, oggi schizzata ad altezze incomprensibili, a livelli più tollerabili”. Un mondo siffatto non sarebbe “semplicemente efficiente, come vogliono essere le economie di mercato, ma anche giusto”, da risultare perciò meno instabile sul piano politico, sociale ed economico. Il fatto che si rinunci a realizzare questo stato del mondo, vale solo a dimostrare che “la forma di capitalismo a cui gran parte del mondo si affida o a cui gran parte del mondo aspira è un sistema clamorosamente iniquo”.
Ciò accade, a parere di Basu, perché i “corifei” della teoria economica tradizionale hanno concorso a radicare il convincimento che basti perfezionare il sistema vigente perché tutto vada bene; si tratta di un convincimento propagato, a volte consapevolmente e a volte no, nell’interesse di chi ha da guadagnare dalla permanenza dell’iniquità del sistema.
L’aspirazione a un cambiamento dello stato esistente del mondo sarebbe irrazionale se esistesse una qualche legge che dimostrasse l’immodificabilità dello status quo; ma poiché il secondo teorema dell’economia del benessere dimostra la possibilità di realizzare altri sistemi sociali alternatici a quello esistente, è giusto – afferma l’economista indiano – cercare di mitigare “la nostra propensione all’egoismo”, senza impegnarci instancabilmente a cercare di cogliere ogni vantaggio che ci si presenta.
In conclusione, è giusto aspirare a realizzare consapevolmente, senza che ci si affidi a presunte autonome capacità di regolazione del libero mercato, un mondo migliore ed è anche giusto pensare di poterlo realizzare sebbene non risulti compatibile con il sistema degli incentivi descritto dai manuali dell’economia tradizionale a supporto del comportamento razionale dal punto di vista economico. E’ giusto pensare di poter realizzare tutto ciò, soprattutto da parte di coloro che si trovano in stato di necessità, senza averne colpa, all’interno di sistemi sociali dotati di tante risorse da consentire di poter funzionare in condizioni di massima efficienza, pur realizzando una società giusta e solidale.
Soprattutto, in generale e in linea di principio, è giusto pensare, indipendentemente dallo stato di bisogno di ciascuno, di poter rimuovere il mito della mano invisibile, coltivato e conservato dai sostenitori del sistema vigente; soprattutto se questi ultimi si conservano sempre disposti a sostenere che la povertà di una parte della società è l’esatta misura della sua produttività e che la sua costante presenza è essenziale per non alterare gli incentivi necessari per realizzare un “reddito medio” più elevato, unico e valido parametro in base al quale misurare la rimozione della piaga dell’indigenza e dell’ingiustizia. Il conservatorismo sarà duro a morire, ma l’esperienza storica ha lasciato in eredità delle generazioni presenti un’esperienza da non permettere sonni tranquilli per chi persevera nel sostenere, a tutti i costi, per buona una visione della società che la ragione rifiuta.
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La situazione italiana
Da Linkiesta
La recessione è alle porte: tre proposte per evitare la catastrofe
Il Pil del secondo trimestre del 2016 segna crescita zero e lo spettro di un nuovo rallentamento dell’economia italiana si avvicina. Bisogna prendere atto che tutto quel che è stato fatto non ha funzionato come doveva. Perché i problemi sono altrove e si possono risolvere
di Francesco Cancellato
Zero. Il Pil italiano nel secondo trimestre del 2016 non cresce nemmeno di un decimale di percentuale, secondo le stime dell’Istat. Se pensate che questo voglia dire calma piatta, tuttavia, vi sbagliate di grosso. E per capirlo non serve un PhD in economia. Basta saper guardare un grafico, infatti, per accorgersi che l’aria tira decisamente al ribasso, che il vento della ripresa ha smesso di soffiare. Che dopo cinque trimestri consecutivi di crescita il rischio concreto è quello di riprecipitare in una nuova recessione.
Lo diciamo subito, senza alcuna reticenza: per l’economia italiana è una prospettiva devastante. Perché non avviene né nel mezzo di una tempesta finanziaria globale, come nel 2008-2009, né in una fase di politiche di tagli e austerità, come nel 2011-2012. Se mai precipiterà di nuovo in territorio negativo, l’economia italiana, lo farà nonostante gli 80 euro che dovevano rilanciare i consumi, nonostante il Jobs Act che doveva rilanciare l’occupazione e gli investimenti esteri, nonostante lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione che doveva dare ossigeno alle imprese,nonostante il quantitative easing che doveva far ripartire i prezzi e nonostante la benevolenza della commissione europea che ha chiuso un occhio e mezzo (forse pure di più) sul mancato rispetto italiano del fiscal compact e degli impegni presi sulla riduzione del debito pubblico.
Non solo non ci sono scuse, insomma. Non ci dovrebbero nemmeno essere motivi tali da spiegare l’ennesima frenata. Che per la cronaca è, come ormai da prassi, più brusca rispetto a quelle dei nostri partner continentali. Se non la presa di coscienza che la nostra economia ha problemi molto più seri di quelli che immaginavamo. E ha bisogno di cure molto più radicali di quelle che pensavamo. Proviamo a suggerirne tre.
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Investire nel digitale per combattere la disoccupazione giovanile, spostare la spesa pubblica dai vecchi a giovani per tornare a fare figli, portare le piccole imprese in Borsa per ricapitalizzare il sistema produttivo: solo così possiamo davvero ripartire
Primo: una disoccupazione giovanile incompatibile con lo sviluppo. Non fosse altro per il fatto che i giovani sono quel pezzo di popolazione in possesso di saperi e competenze che potrebbero cambiare i destini delle nostre imprese, facendo far loro – finalmente – un salto nel terzo millennio e nell’economia digitale, recuperando quella maledetta produttività che oggi sembra una chimera. Domanda: invece di incentivi a pioggia e regali assortiti – Confindustria ancora ringrazia per l’abolizione dell’articolo 18 – perché non si è vincolato il sostegno alle imprese a un deciso investimento nell’economia digitale? E perché la banda larga è ancora lì, nel libro dei sogni?
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Secondo: una piramide demografica altrettanto insostenibile, con una popolazione che non fa figli e invecchia sempre più. E con la ricchezza che si sposta sempre più nelle tasche di chi è meno giovane. Risultato: stallo dei consumi (i giovani spendono, i vecchi risparmiano) e un sistema di welfare che diventa insostenibile. Ci ripetiamo, anche in questo caso: oggi le pensioni si mangiano il 27,9% della spesa nazionale, mentre il sostegno alle famiglie il 2,3%. Sono il dato più alto e più basso d’Europa, rispettivamente (Grecia esclusa). Delle due, una: o si alza ancora l’età pensionabile, o si decide che i diritti acquisiti non sono più un dogma. In ogni caso, bisogna spostare un bel po’ di risorse dai vecchi ai giovani.
Terzo: c’è bisogno di un new deal finanziario. Secondo una ricerca di Res Pubblica, se la capitalizzazione delle piccole e medie imprese aumentasse del 20%, l’effetto sarebbe pari a 0,6 punti di Pil e gli occupati crescerebbero quasi di 160mila unità. Questa ricapitalizzazione non può più essere garantita dalle sole banche. Un po’ perché molte di loro navigano in cattive acque. Un po’ perché, pur con lodevoli eccezioni, le sofferenze che hanno in pancia sono la prova della loro incapacità nell’erogare credito soldi a chi se lo merita davvero. La soluzione si chiama capitale di rischio. Le piccole imprese italiane vanno incentivate in ogni modo ad andare in Borsa a raccogliere capitali. Missione impossibile? No. In vent’anni, le quotazioni delle imprese in Aim Uk hanno prodotto una raccolta di circa 90 miliardi di sterline, generando una crescita della capitalizzazione da 10 a 50 miliardi, 800mila posti di lavoro e un punto e mezzo di prodotto interno lordo. Quel che servirebbe a noi, per poter rimettere in moto tutto e ripartire davvero.
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