SAVE THE CHILDREN
13 «Punti Luce» contro la povertà educativa
di Fiorella Farinelli, su Rocca*
Marta, 15 anni, racconta felice della gita scolastica a Trento, «non avevo mai visto niente fuori da Bari». Anche perché andarci non era scontato. Da quando il padre non ha più il suo lavoro e si arrangia come può raccogliendo rottami – «se va bene, sono tra 20 e 30 Euro al giorno, e come si fa con moglie e tre figli?» – anche una visita d’istruzione da pochi soldi può essere troppo. Come la scuola di musica, il corso di inglese, lo sport, il cinema, un libro. Serviva che qualcuno capisse che anche un piccolo viaggio con i compagni di scuola può far sentire un po’ più uguali, e magari scatenare immagini e speranze di un futuro migliore. «Voglio fare lo chef, non importa dove, basta che lavoro, che riesco a fare bene e da sola». – segue -
L’aiuto è venuto da uno dei tredici «Punti Luce» di Save The Children, che di casi così può documentarne qualche migliaio da quando ha cominciato a combattere una battaglia molto speciale contro la «povertà educativa». Tredici centri per ragazzi in difficoltà, soprattutto nel Sud ma non solo, perché di povertà educativa, intesa come nessun stimolo culturale nell’ambiente in cui si vive, niente che sviluppi curiosità e faccia emergere vocazioni e talenti, ce n’è dappertutto in quest’Italia impoverita e stressata dalla crisi. Nelle periferie più desolate delle grandi città, e anche in certi piccoli centri tagliati fuori
da tutto.
Uno dei «Punti-Luce» – chiamati così per via della lampada di Aladino – è a Barre, quartiere notoriamente difficile di Napoli. La locandina dice che lì si fanno interventi di supporto scolastico, giochi, sport, teatro e che si danno aiuti anche individuali. Questi ultimi, una volta borse di studio, ora si chiamano «doti», come nel caso di Marta, e ci sono anche dei tutor a dare una mano nelle circostanze più problematiche. Ma di iniziative promosse da Save The Children ce ne sono anche nel Nord, per esempio a Genova. E la scuola? «La scuola al centro», afferma orgogliosamente uno dei programmi finanziati di recente dal Miur.
scuola: un ospedale che cura i sani e respinge i malati
Tutto vero, nell’adolescenza è a scuola che si giocano le partite decisive, ma si sa anche che la scuola da sola non basta, e che in molti casi l’offerta educativa pubblica non solo non è la soluzione ma è piuttosto il problema. Povertà strutturali e professionali che fanno perdere il gusto di imparare, insuccessi che spingono ad abbandoni precoci, l’«ascensore sociale» che ha smesso di funzionare. Perché la scuola italiana, in ambito Ocse, è tra quelle che stentano di più a «rimuovere gli ostacoli» di cui parla la nostra Costituzione, quelli che derivano dal disagio economico, sociale,
culturale di partenza. È come un ospedale che cura i sani e respinge i malati, denunciavano negli anni sessanta i ragazzi di Barbiana. E cinquant’anni dopo i numeri dell’insuccesso scolastico grave – quello che stacca la spina dell’apprendimento e spinge ad abbandonare o a non utilizzare al meglio i percorsi scolastici – dicono che i malati, ancora oggi, sono davvero tanti. I figli della depressione economica, delle tantissime famiglie con pochi strumenti culturali, dell’immigrazione. Fino ai «minori stranieri non accompagnati» che sbarcano sempre più numerosi sulle nostre cose.
il piccolo miracolo
Ma perché fra le tante esperienze di collaborazione con la scuola promosse da onlus, associazioni, cooperative – quel «terzo settore» sempre più attivo nel rammendare i buchi di un welfare maltrattato, e nell’inventare nuovi modelli di funzionamento – spiccano in queste settimane proprio quelle di Save The Children? Perché l’associazione è riuscita, tra rapporti, denunce, e azzeccate campagne di comunicazione, a fare un piccolo miracolo. Non solo a imporre all’agenda di una politica distratta da tutt’altro la necessità di interventi sulla povertà educativa – se non sulla povertà tout court – dei minori, ma anche a convincere che c’è bisogno di interventi nuovi, con soggetti gestionali e
modelli diversi da quelli tradizionali. Perché non si tratta di continuare come sempre a dare qualche risorsa in più alle istituzioni scolastiche per la «prevenzione della dispersione» o di rimpinguare servizi socio-assistenziali ridotti allo stremo da anni di «austerità», ma di far crescere nei contesti locali opportunità di socializzazione, gioco, apprendimento diverse per metodi e contenuti da quelle tipiche della scuola, e offerte quindi anche ai minori che la scuola l’hanno già abbandonata o che sono a rischio.
Operazione non banale che però, per il momento, ha segnato qualche successo. È stato così costituito dal governo un Fondo di 400 milioni di Euro per tre anni (300 stanziati dall’ultima legge di stabilità, 100 aggiunti da un certo numero di Fondazioni bancarie) che finanzierà progetti di contrasto della povertà educativa che dovranno essere presentati, in risposta a un apposito bando previsto per la fine dell’estate, da partenariati tra pubblico e privato. Con la presenza obbligatoria, quindi, e anzi con un ruolo finalmente centrale dei soggetti del terzo settore, le associazioni, le onlus, le cooperative, il volontariato, che animano i territori con iniziative culturali e di costruzione di socialità e relazioni. A gestire il Fondo, quindi, non sarà il Ministero di viale Trastevere, che ha finora distribuito alle scuole considerevoli risorse europee senza apprezzabili risultati, ma un mix tra Fondazioni e Forum del Terzo settore. Funzionerà? Ce ne sono le premesse. Va detto comunque che il Rapporto di Save The Children sulla povertà educati- va, presentato nel settembre 2015, ha messo sul piatto numeri ed analisi che neppure una politica autoreferenziale e instancabilmente autoelogiativa come la nostra può facilmente rimuovere. Non che i guai del paese siano attribuibili tutti a chi ne tiene pro tempore il timone, ma è un fatto che sulla povertà – e sull’allargamento delle diseguaglianze – si sia finora fatto ben poco. I minori in condizione di povertà assoluta sono, nel 2014, più di un milione, di cui 861mila vivono in famiglie dove c’è almeno un adulto occupato: segno che oggi un reddito da lavoro non basta, perché tra saltuarietà delle occupazioni e fenomeni di sottoretribuzione, sono moltissimi i lavori insufficienti a far vivere dignitosamente una famiglia.
I dati Istat richiamati nel Rapporto raccontano che dal 2006 l’incidenza della povertà assoluta nelle famiglie con almeno un minore è triplicata, passando dal 2,8 all’8,4%. Quanto alla povertà relativa, cioè a una condizione appena al di sopra della soglia di sopravvivenza, la sua incidenza riguarda il 15% delle famiglie nel Nord e nel Centro e il 30% nelle aree meridionali, con picchi altissimi nelle famiglie con due-tre figli (in testa, in questa classifica della vergogna, la Sicilia, seguita da Campania e Calabria). Si tratta di oltre 2 milioni di minori, 1 su 5.
c’è di peggio che nascere poveri
Ma la povertà educativa, che è povertà anche di opportunità, non coincide con la sola povertà economica: se questa ne è causa, ne è spesso anche l’effetto. Perché c’è di peggio che nascere poveri, ed è essere condannati a restarlo per mancanza di opportunità di crescita e di strategie efficaci di contrasto delle tante diverse povertà. E qui vengono in ballo anche altri numeri. Quasi la metà dei minori in età scolare non ha mai letto un libro se non sco- lastico. Il 70% non ha mai visitato un sito archeologico. Il 55% non è mai entrato in un museo. Il 45% non svolge alcuna attività sportiva.
A disegnare la mappa delle povertà immateriali ci sono poi i dati sull’apprendimento. In Italia, al 24esimo posto su 34 paesi Ocse, il 24,7% dei 15enni non supera il livello minimo di competenze in matematica, e il 19,5% in lettura. Da noi, del resto, si investe meno che in altri paesi sui minori e sulle famiglie con minori.
Anche sul versante dell’offerta educativa, al di là dell’enfasi politica degli ultimi tempi sulla «Buona Scuola», insistentemente magnificata come l’incipit di un nuovo mondo, la copertura della domanda di asili nido è ferma da tempo sul 17% medio nazionale, con una forbice che va dal 27% dell’Emilia Romagna al 5% della Calabria. Nella disattenzione generale, un abbondante 25% dei bambini tra 3 e 5 anni con back ground migratorio non frequenta la scuola per l’infanzia, rischiando così di arrivare a dover misurarsi nella scuola primaria con l’apprendimento di lettura e scritture senza aver potuto familiarizzarsi per tempo con l’italiano parlato. Se sono l’85% del totale le classi di scuola elementare di Milano con tempo pieno e servizio di mensa, i numeri precipitano su percentuali assai più modeste nel Centro-Sud, dove anche le scuole per l’infanzia funzionano spesso con orario solo antimeridiano e dove parte dell’offerta – quella delle scuole paritarie – impone alle famiglie costi e tariffe non sempre facilmente sostenibili.
una strada innovativa
Ancora peggiore la situazione del tempo pieno e delle mense nella scuola media. Più del 50% degli studenti studia in istituti scolastici inappropriati dal punto di vista delle strutture, dei laboratori, della connessione rapida a internet. Il 16%, quasi il doppio del dato medio europeo, non arriva a un diploma o a una qualifica professionale (ma ad abbandonare troppo presto gli studi sono più del 34% degli studenti stranieri, falcidiati da ritardi scolastici e bocciature). E sempre, sistematicamente e con poche eccezioni, i risultati migliori hanno alle spalle le famiglie economicamente e culturalmente più forti, con i risultati peggiori che si addensano invece nelle fasce più deboli. E nei territori più poveri di opportunità gratuite di crescita culturale aperte ai ragazzi.
Che ci sia molto da fare è evidente. Che si sappia sempre come farlo non è detto. Che ci provi con qualche successo un’organizzazione del privato sociale è segno dei tempi. Gli obiettivi e le proposte operative elencati puntigliosamente nel rapporto di Save The Children offrono però una strada innovativa che sarebbe bene sostenere e sviluppare. Vedremo.
Fiorella Farinelli
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2016
SAVE THE CHILDREN

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