il popolo degli sfiduciati
GENERAZIONE NEET
il popolo degli sfiduciati
di Pietro Greco*
Li chiamano «generazione Neet». Sono i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni che né lavorano né studiano né si formano. Nessun Paese europeo, documenta il recente rapporto Bruegel, ne ha tanti quanto l’Italia di questi ragazzi costretti all’inedia: 2,4 milioni. Il fenomeno è in crescita. Tra il 2007 e il 2013 i Neet sono aumentati di sette punti percentuali, dal 16% al 23% dell’intera popolazione in quella fascia di età. Ma non sono generici «figli della crisi» economica innescata nel 2007 dal fallimento negli Stati Uniti della Lehman Brothers ed estesasi all’Europa. Perché in Germania, in questo stesso periodo, la «generazione Neet» è addirittura diminuita, passando dall’8,9% a un pressoché fisiologico 6,3%. Quanti, più o meno, ce ne sono anche in Danimarca o in Olanda.
ragazzi che vivono nell’inedia
I giovani Neet nel nostro paese sono figli di una crisi specifica, quella che interessa l’Italia da almeno trent’anni. Come dimostra il fatto che già prima della lunga crisi recessiva i Neet in Italia si distinguevano sia per numero assoluto sia per durata del periodo di inedia. Se in Norvegia il periodo Neet nel 2008 durava in media appena sessanta giorni, in Italia si allungava a 42 mesi: il 16% dei giovani costretti a poco meno di quattro anni di totale inattività. E tutto questo prima della crisi globale. Oggi i numeri che fotografano la situazione variano. Secondo il rapporto Noi Italia del nostro Istituto Nazionale di Statistica, in questo momento i Neet italiani sono 2,5 milioni, pari al 26% della popolazione giovanile. Ma quelle fornite da diversi istituti di ricerca sono statistiche che si differenziano per scarti tutto sommato piccoli. In ogni caso, qualunque sia il loro numero, restano i problemi a essi associati: quale sarà il loro futuro? E quale sarà il futuro dell’Italia con così tanti Neet?
A queste domande ha cercato di rispondere il gruppo di giovani ricercatori napoletani concedendo molte pagine della loro rivista, Futuri, a un vero esperto, Alessandro Rosina, nell’ambito di un numero monografico dedicato alla Rivoluzione demografica. Non è un caso che questi giovani ricercatori si interroghino sul futuro dei Neet. Perché, sostiene Alessandro Rosina, che è autore di un libro, Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, pubblicato di recente, che propone il quadro più aggiornato sulla condizione di questi ragazzi, l’unica novità che negli ultimi anni è intervenuta in Italia rispetto ai Neet è che finalmente è aumentata la consapevolezza della loro esistenza.
L’acronimo Neet è stato coniato in Gran Bretagna piuttosto di recente, nel 1999, quando la Social Exclusion Unit – l’equivalente della Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale in Italia – verificò la forte incidenza tra i giovanissimi inglesi di Not in Employment, Education or Training: di ragazzi che non lavoravano, non andavano a scuola o all’università e non si formavano in alcun modo. Vivevano nell’inedia. Ben presto ci si accorse che ragazzi in queste condizioni erano diffusi in tutto il mondo occidentale e, sia pure in forme affatto diverse, anche nei Paesi a economia emergente e in via di sviluppo. Si trattava (si tratta) di un fenomeno globale.
perché i Neet?
Non è semplice rispondere a questa domanda. Intanto perché, non bisogna mai dimenticarlo, ogni ragazzo è un caso a sé. Ha la sua individualità, la sua psicologia, la sua volontà, la sua libertà. Tuttavia la condizione di un ragazzo-individuo è frutto di una serie di concause esterne. I sociologi individuano tre tipologie di fattori che la determinano: micro (l’individualità del ragazzo, appunto, ma anche l’ambiente familiare), meso (l’ambiente scolastico) e macro (l’economia, la società).
Non c’è dubbio che le prime due tipologie di fattori sono di estrema importanza. Un ragazzo tende a chiudersi nell’inedia anche perché ha difficoltà di relazioni, scarsa autostima, scarsa volontà o perché vive in un ambiente familiare poco stimolante. Spesso perché non trova stimoli e integrazione neppure a scuola. Ma, poiché stiamo parlando di grandi numeri, focalizziamo qui l’attenzione sui fattori economici e sociali più generali.
la generazione della «non speranza» e quella dei «senza fiducia»
Lo ha dimostrato già qualche anno fa Anne Sonnet, un’esperta arruolata dall’Ocse, che ha studiato la «Japanese Economic Crisis» degli anni ’90 del secolo scorso: la generazione Neet nasce in Giappone con la recessione economica, l’aumento della disoccupazione e il reddito delle famiglie divenuto improvvisamente basso. L’economia frenata produce l’effetto del «lavoratore scoraggiato»: con minori prospettive di lavoro i giovani perdono ogni motivazione sia a cercarlo sia a studiare per raggiungere un’elevata qualificazione personale. Il che fornisce una spiegazione possibile al fatto che oggi in Italia i giovani Neet siano, in percentuale, il doppio che nel Nord d’Italia. In questi ultimi otto anni la recessione nel Mezzogiorno è stata più marcata, la disoccupazione è ormai dilagante, la fuga dalle università un fatto accertato.
Dunque ha ragione il giapponese Yuji Genda quando definisce la Neet come la generazione della «non speranza».
E tuttavia non bastano i dati macroeconomici e i drammi del lavoro a spiegare come nasce un Neet. Secondo la psicoterapeuta María Eugenia Patlán una migliore definizione della generazione Neet è quella dei «senza fiducia»: nelle istituzioni, nella società, nelle ideologie, nella famiglia. Un ragazzo Neet spesso non ha fiducia in niente e nessuno.
Ma anche in questo caso non bisogna generalizzare. In Spagna, per esempio, la generazione Neet è aumentata non in un periodo di recessione, ma durante la «decade dorada» , ovvero negli anni del boom economico: molti giovani ispanici si sarebbero abituati all’idea di poter avere tutto senza nessuno sforzo. Dunque nello spingere all’inedia ci possono essere altri due fattori: i messaggi che vengono dal mondo degli adulti (consuma il più possibile; o sei il primo o sei un perdente) e quella crisi di valori che, secondo molti, caratterizza la società dominata dal pensiero unico neoliberista.
gli effetti Neet
Sospendiamo per un attimo l’analisi delle cause e cerchiamo di verificare gli effetti della generazione Neet. Gli economisti dicono che questi giovani che né studiano né lavorano costano all’Europa l’1,2% del Prodotto interno lordo (Pil). Per l’Italia il costo sale al 2%. Sono calcoli che, spiega Alessandro Rosina, tengono conto dei minori introiti fiscali, dei maggiori costi per il welfare e del malessere sociale. Ma sarebbe davvero riduttivo limitare l’analisi degli effetti della generazione Neet al mero conto economico. I danni di gran lunga maggiori riguardano la condizione, psicologica e sociale, di questi ragazzi, costretti all’inedia. Un danno che avrà riverberi anche sul futuro, loro e dell’intera società.
Uno degli effetti sociali più vistosi riguarda la ritardata uscita di casa dalle famiglie di origine. Ormai in Italia i ragazzi lasciano la casa nativa – perché «senza speranza» e/o «senza fiducia» e/o per comodità – quando sono già adulti: intorno ai 30 anni. Ben cinque anni dopo i ragazzi dei maggiori Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito) e dei Paesi scandinavi, dove si lascia la casa dei genitori intorno ai 25 anni.
In questa situazione i giovani italiani formano famiglia più tardi, contribuendo in maniera decisiva alla diminuzione della natalità nel nostro Paese. Attenzione, dice Alessandro Rosina, perché la bassa natalità non è un desiderio dei giovani: non è una libera scelta, ma una condizione. Se infatti chiedi a un ventenne quale sia la loro famiglia ideale, rispondono che è composta da 2,1 figli. Ma se chiedete loro: tu quanti figli pensi di avere, rispondono 1,6 le donne e 1,5 gli uomini. Una piccola differenza tra i generi su cui incide la percezione maggiore che sembrano avere i maschi del rischio di disoccupazione.
Dunque la scarsa natalità è (anche) un effetto, indesiderato, della condizione giovanile. Ma generazione è un termine che indica attività, produzione, creazione. Quella dei giovani che non lavorano, non studiano non si formano è il contrario di una generazione. È una «non generazione». Una genera- zione che rischia di andare perduta. Quindi ai costi pagati della generazione Neet cui abbiamo appena accennato occorre aggiungere quello che, forse, è il principale: il rischio emarginazione. Questi ragazzi rischiano di percepirsi e di essere percepiti come «estranei» e di esserlo per l’intera vita. Di diventare, appunto una «generazione mancata».
crisi del welfare
Ciò detto ritorniamo alle cause, in vista di un insieme di possibili rimedi. A tutti i fattori finora indicati – condizioni di precarietà oggettiva, «non speranza», «non fiducia», crisi dei valori – occorre aggiungere la crisi del welfare state. Dello stato assistenziale. Lo Stato che interviene per ridistribuire la ricchezza, ridurre l’emarginazione, aumentare l’inclusione, assicurare i diritti essenziali.
Tempo fa Angela Merkel poteva a giusta ragione cantare le odi dell’Europa: abbiamo – diceva la signora che guida la Germania – il 7% della popolazione mondiale, produciamo il 25% del reddito e mettiamo a disposizione dei nostri cittadini il 40% del welfare planetario.
Ebbene, non solo l’Europa sta riducendo la quantità di risorse che mette a disposizione del welfare, ma queste risorse calanti non vanno a beneficio dei giovani. Certo questa mancanza di attenzione riguarda più l’Italia che la Germania. E tuttavia è un problema generale. Tra i tanti punti di crisi dell’Europa c’è anche quello che indica Alessandro Rosina: pensiamo «troppo individualmente per i figli e troppo poco collettivamente per le nuove generazioni».
Ora che stiamo finalmente acquisendo consapevolezza della presenza della generazione Neet, è da qui che dobbiamo partire: ripensare e rafforzare il welfare affinché gli attuali giovani diventino una generazione e siano messi in grado di costruire il loro futuro.
Come se ne esce. Agendo in due modi. Da un lato mettendo in atto politiche in grado di indirizzare o al lavoro o allo studio i Neet. Dall’altro facendo in modo che altri ragazzi non entrino in questa condizione di inedia.
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* Pietro Greco su Rocca n. 16-17 agosto/settembre 2016

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