Interventi di pregio nel dibattito post elettorale

Boom-M5SNon è stato sconfitto solo Renzi

democraziaoggidi Tonino Dessì su Democraziaoggi

A tutti quelli che vanno dicendo che il M5S nazionalmente e a Napoli De Magistris hanno vinto grazie ai voti della destra, consiglierei intanto di ragionare su questi dati. Il Pd e quel che rimane del centrosinistra perdono in questo ballottaggio: Roma, Torino, Trieste, Pordenone, Savona, Novara, Grosseto, Isernia, Brindisi, Benevento,Carbonia, Olbia. Solo a Varese e Caserta strappano il comune al centrodestra. Il resto, comprese Milano e Bologna, sono riconferme. Nel dettaglio: a Milano Sala prende 262.800 voti contro i 245.350 di Parisi (Pisapia 5 anni fa fece 365.657 contro i 297.874 della Moratti); a Bologna Merola prende 82.650 voti contro i 68.500 della Bergozoni (5 anni fa fu eletto al primo turno con 106.070).
Il punto è che, nonostante le furbe strizzate d’occhio di Salvini e le aspettative di FI a Milano, gli elettori del M5S non votano a destra da nessuna parte e i voti degli elettori di destra se li prendono autonomamente, senza chiedere nè concedere politicamente nulla, mentre una quota consistente di elettori del centrosinistra ha mollato la coalizione: non certo tutti per astenersi.
Del resto, a Napoli il voto a Lettieri son stati dirigenti del PD campano, a chiederlo esplicitamente e a Cagliari la composizione delle liste e degli eletti di partiti come il Partito dei Sardi e il PSd’Az (rispettivamente un eletto ex finiano e uno ex CDU) ha messo in evidenza come nella coalizione vincitrice siano confluiti consensi di destra.
In campo nazionale gli sconfitti quindi sono in realtà tre: PD, Salvini e FI.
Direi che l’autonomia dell’elettorato pentastellato, persino più evidente, alla prova dei fatti, rispetto a quella pur formalmente ineccepibile dei suoi esponenti, si è rivelata decisiva in tutte e tre le sconfitte. Questa relativa autonomia dell’elettorato grillino dovrebbe far riflettere.
Nei giorni scorsi, infatti, ho pensato e scritto sull’opportunità di votare M5S come scelta autonoma, da parte di persone democratiche e di sinistra come me. Siccome non mi reputo una persona capace di intuizioni particolarmente originali, mi domando se questa scelta autonoma una gran parte dell’elettorato di sinistra “scomparso” non l’abbia già fatta per conto suo, senza troppe chiacchiere e senza aspettare nessuno di noi.
Non è possibile infatti che un movimento diventi in poco tempo una delle tre forze politiche principali del Paese -in una condizione di crescente astensionismo- senza prelevare voti da entrambi i tradizionali serbatoi del voto attivo residuato e moltissimi da quello che un tempo era voto di sinistra.
Noi conosciamo l’immagine degli elettori e degli attivisti grillini tramite la stampa e tramite i loro blog ufficiali e semiufficiali. Forse anche una certa immagine che loro hanno di se stessi dipende da quel tipo di canali. Tuttavia ormai bisogna chiedersi se non sia più che probabile una composizione culturale, sociale e politica del loro elettorato assai più composita di quanto a loro stessi fino a ieri non sembrasse. E se non ci si trovi di fronte a un voto “a tema” o “di scopo” e con mandato tanto imperativo quanto revocabile.
Il che deve anche far temere e perciò indurre a non ritenere auspicabili sia un eventuale fallimento della prova di governo locale da parte del M5S sia una sua omologazione sia una sua implosione, che potrebbero aprire, per un certo elettorato, strade e scelte più radicali ancora, rischio che mi è capitato di sottolineare in precedenti occasioni.
Mi pare di poter dire che anche in Sardegna la situazione sia analoga.
M5S sta ancora compiendo l’avvio di un radicamento con risultati che, partendo da quasi zero, sono comunque saliti in alcune città importanti alla doppia cifra. Porto Torres e Assemini hanno sindaci del M5S. Ora anche Dorgali e Carbonia. Non sono comunelli qualsiasi: tre sono centri che hanno vissuto e vivono la crisi industriale; uno è tra i maggiori centri agricoli, artigianali e turistici della Sardegna centrale. Qualcosa vorrà pur significare.
Il tutto ottenuto in una situazione caratterizzata dal deserto di ipotesi alternative credibili.
Il consenso ottenuto da Sardegna Possibile nel 2014, facilitato dalla scelta del M5S italiano di non consentire a una acerba e rissosa propaggine locale di presentarsi alle elezioni regionali, è stato stroncato dalla legge elettorale predisposta ad hoc dall’establishment proprio per prevenire un exploit pentastellato. Quell’ampio consenso è stato poi dissipato da un gruppo di soggetti promotori incapaci di reggere alla sconfitta successivamente al momento elettorale.
La restante galassia identitaria si articola tra ipergovernativi (subalterni a un quadro politico regionale che più renziano di così non si potrebbe, per di più alla vigilia del referendum su una proposta di riforma che, se passasse, affosserebbe le prospettive della specialità sarda in modo pressocchè irreparabile) e alleati con una frangia della destra in un cartello locale. Magri risultati per gli uni a Carbonia, dove il Presidente della Giunta era sceso a lanciare l’anatema “Se sbagliamo il sindaco, piani di rilancio a rischio”, pessimi per gli altri a Olbia, dove non arginano nemmeno la vittoria della destra vera, nella quale anzi al ballottaggio hanno finito per confluire.
Il fatto è che l’elettorato vuole alternative visibili, immediate e mette al primo posto l’obiettivo di dare spallate a situazioni ormai incancrenite e insostenibili, perciò non si fa incantare da soggetti che non stanno al passo con l’agenda, ma cercano piuttosto di ritagliarsi spazi di comodo, comunque subalterni, dentro il sistema dato.
Per ora null’altro si può dire, mi pare, se non che comunque il risultato elettorale fa ben sperare sulla vittoria del NO al referendum costituzionale. Non si tratterebbe di cosa da poco. Sarebbe sconfitto col voto popolare il secondo tentativo di stravolgere la Costituzione nei fondamenti organizzativi della democrazia repubblicana: la centralità di un Parlamento ampiamente rappresentativo e l’articolazione in soggettività istituzionali non comprimibili dallo Stato centrale. Ne seguirebbe immediatamente l’inapplicabilità dell’Italicum e l’impossibilità per il futuro di formare governi di minoranza. A quel punto, confermate le fondamenta della struttura costituzionale, tutti i giochi saranno più aperti e nessuna avventura sarà più consentita a nessuno.
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NO NO NOOO
Amministrative. Allarme rosso per il Pd
20 giugno 2016
di Ottavio Olita su il manifesto sardo

Un elettorato in rivolta non deve essere ignorato. Il rischio è essere spazzati via dalla scena politica. Lo capirà, almeno stavolta, il Pd succube del renzismo? I segnali si erano già avuti il 5 giugno, giorno del primo turno delle amministrative. La controprova data dall’esito dei ballottaggi è da allarme rosso.

Che l’elettorato storico del principale partito della sinistra sia in rivolta non lo si evince soltanto dai risultati delle città capoluogo di regione; è molto evidente anche da quel che è accaduto nei comuni sardi. Carbonia, Sinnai, Monserrato ed Olbia ne sono l’esempio eclatante. In particolare Sinnai. La candidata ufficiale del Pd, sindaco uscente, è stata battuta dal rappresentante di una coalizione di sinistra, Matteo Aledda. Senza un sostanzioso apporto di elettori Pd quel risultato non ci sarebbe stato. E cosa dire, poi, di Carbonia, storico presidio dell’elettorato di sinistra, passato in gran numero ai Cinque Stelle?

Tutto questo non è soltanto il risultato delle politiche degli annunci, degli slogan, delle promesse che non si traducono in fatti reali. Questa situazione è stata determinata anche dalla progressiva, continua esclusione dei cittadini dalla partecipazione alla discussione e all’elaborazione dei progetti politici. Se l’unica occasione di espressione di volontà popolare che viene concessa è l’appuntamento elettorale, le risposte di chi non ha avuto la possibilità di parlare e quindi è deluso o insoddisfatto possono essere solo due: un voto contro o l’astensione.

E di quanto sta crescendo, progressivamente, il numero dei cittadini che, stanchi e amareggiati, non vanno più a votare? Dovrebbe essere il dato più preoccupante per ogni società realmente democratica. E invece pare che la cosa non venga presa nella dovuta considerazione. Un’altra salutare lezione dovrebbe derivare dalla lettura dei risultati nazionali. Piero Fassino, stimato e onesto ex segretario del partito, ha probabilmente pagato l’abbraccio mortale che gli ha offerto il suo erede, tanto amico e sostenitore di Marchionne, responsabile dell’esproprio della Fiat subito da Torino, e accanito avversario dei metalmeccanici e della Fiom.

E Napoli? Con l’improponibile pasticcio delle primarie che ha impedito al partito di avere un candidato credibile. Così Luigi De Magistris, con le sole liste civiche a sostegno, ha vinto grazie alla credibilità personale che ha saputo costruirsi nel corso del primo mandato. Quanti elettori Pd lo hanno sostenuto nello scontro con il candidato del centrodestra? Un bell’insegnamento dalla capitale del Sud, nettamente contrapposto a quanto accaduto a Benevento dove è ricomparsa ancora una volta la figura di un abile gestore di pacchetti di voti come Clemente Mastella.

Il Sud, ancora una volta combattuto tra nuova e vecchia politica. Ma probabilmente il responso più significativo della bocciatura della politica renziana viene proprio da Milano, dove il candidato del centrosinistra ha vinto. Perché? Perché lì la contrapposizione con il centrodestra, una parte del quale governa il paese insieme con l’ineffabile Presidente del Consiglio, è stata netta e inequivoca. Nello scontro frontale e diretto gli elettori non hanno avuto difficoltà a scegliere.

Altro che Partito della Nazione, dunque! L’Italia ha bisogno di collocazioni politiche chiare, di scelte precise per poter capire. In questo senso è molto utile la riflessione avviata, proprio su questo giornale, da Marco Ligas relativamente all’esito del voto di Cagliari e al successo personale di Massimo Zedda. La lezione che gli elettori di mezza Italia hanno voluto impartire è netta e un abile politico, come Massimo Zedda si è rivelato, non stenterà a capirla anche per il suo futuro politico.

Ora attendiamo le valutazioni che la direzione del Pd darà di quanto è successo il 19 giugno. Forse ancora una volta ci sarà un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma a cosa servirà? Tra pochi mesi, in ottobre, ci sarà l’importante appuntamento con il Referendum Costituzionale che, per volontà dello stesso Renzi, poi parzialmente ritrattata, rischia di trasformarsi in un plebiscito su di lui. Un partito cosciente della gravità della situazione dovrebbe guardare più ai rischi futuri per la Democrazia impliciti in quella riforma piuttosto che alla sorte del Segretario-Presidente.

Poi, nel 2018, salvo al momento imprevedibili anticipazioni, ci saranno le Elezioni Politiche. Per ricostruire un rapporto con la base elettorale, per rilanciare un forte spirito di partecipazione e per definire programmi politici, lasciando da parte slogan e demagogia, bisogna mettersi a lavorare subito cercando di riallacciare tutti i rapporti con gli alleati veri, quelli con i quali storicamente si è dialogato, non gli opportunistici legami per governare a tutti i costi.
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Piovono Rane
di Alessandro Gilioli su L’Espresso Blog
20 giu È finita l’aria serena dell’Ovest

Se Aristotele ci diceva che non c’è effetto senza causa, i risultati delle elezioni ci dicono sempre che ogni effetto ha più cause: insomma che è sciocco individuare un unico motivo di una stessa ondata. Il che è tanto più vero quando si tratta di elezioni amministrative, quindi le tendenze nazionali (che pure ci sono) si mescolano a situazioni locali.

Però qualche ipotesi si può farla, a iniziare dal confronto con l’onda molto diversa di due anni fa, quella delle europee con il Pd oltre il 40 per cento.

Già nei giorni successivi a quel voto chi non era ipnotizzato aveva abbastanza chiaro il fatto che il risultato di Renzi fosse gonfiato da un mix di cause coincidenti: un’assenza di accountability quasi virginale (era premier da soli tre mesi, insomma non doveva ancora render conto di niente); la narrazione ancora fresca del nuovo contro il vecchio (quindi la possibilità di incanalare nei suoi consensi una fetta del desiderio diffuso di cambiamento); la provvisoria chance di assommare questi voti nuovi a tutto il corpaccione storico del Pd (cioè l’abbrivio di provenienza Pci, il 20-25 per cento che votava Pd senza se e senza ma). Più gli ottanta euro, certo.

Tutte e quattro le concause di cui sopra si sono esaurite, in questi due anni.

Inevitabilmente ora il premier deve rendere conto dell’azione di governo e della situazione economica; l’immagine da rottamatore nuovista si è trasformata in un prevalente percepito di establishment, quindi il contrario di due anni fa; il corpaccione storico del voto Pci-Pds-Ds-Pd si è sfrangiato non solo ai vertici, ma anche in una parte degli elettori; e l’effetto 80 euro è decisamente finito, pure con qualche beffa.

Di tutto questo l’elemento più rilevante è probabilmente lo iato (se non l’abisso) tra narrazione e realtà. Cioè tra l’immagine dell’Italia che il capo del governo brandisce e la vita vera, quotidiana, di milioni di persone, soprattutto quelle più giovani, in questo Paese.

Io capisco l’esigenza di ogni premier di esibire ottimismo e di inoculare fiducia, ma quando il distacco tra gli illusionismi e la realtà diventa troppo ampio, l’effetto è quello opposto. Si insinua cioè il forte dubbio, in molti, di essere presi per i fondelli.

Detta diversamente:
se io faccio suonare le trombe per ogni striminzito decimale di Pil in più (a fronte di una crisi dalla quale ad andar bene si uscirà tra 15 anni);
se io utilizzo la mia macchina mediatica per enfatizzare oltre ogni limite accettabile dati sull’occupazione quanto meno altalenanti (e sempre catastrofici per gli under 40) che considerano “occupato” anche chi lavora un’ora al mese nel ristorante di papà;
se io deformo la realtà attribuendo al Jobs Act falsi effetti taumaturgici, gabellando per un effetto della licenziabilità quei posti di lavoro che invece lo Stato ha di fatto comprato con le decontribuzioni, cioè con i soldi di tutti noi;
se io faccio finta che non esista la realtà di una generazione senza speranza, di quaranta-cinquantenni che campano a voucher, di anziani che scoprono di doversi indebitare fino al decesso per non dover lavorare fino al decesso:
beh, se tutto questo accade e io vado in tivù o in rete a fare il brillante, rovesciando solo pernacchie a chi disvela coi numeri questo falso imbellettamento del reale, ecco, prima o dopo il conto arriva.

Ed è arrivato.

Personalmente, con rispetto, mi ero permesso di suggerire inutilmente al Pd e ai suoi comunicatori di andarci molto più piano con la grancassa di balle: «Quando andranno a sbattere contro questa complicata realtà, le radiose aspettative di rapida guarigione vendute sul mercato mediatico dal presidente del Consiglio otterranno l’effetto opposto. Cioè delusione e senso di impotenza, quindi rabbia crescente». Ecco, ci siamo. Non è che ci volesse chissà quale lucidità d’analisi. Bastava un po’ di buon senso. E magari qualche frequentazione dei bar, dei giardinetti, dei negozi, degli autobus.

E fin qui le principali cause nazionali, quelle che emergono dal cosiddetto “voto politico” sui partiti e i leader nazionali.

Poi ci sono dinamiche che invece sono internazionali, cioè paneuropee e pure nordamericane: una gigantesca, trasversale e confusa rivolta contro l’establishment politico ed economico. Una guerra alle élite e allo status quo dichiarata dell’ex ceto medio impoverito, dall’ex “aristocrazia operaia” iperprecarizzata, dalle giovani generazioni furiose per il futuro rubato.

Togli alle persone reddito, stabilità, speranza e dagli in cambio la sensazione che la democrazia si stia svuotando perché nel mondo comandano quattro banchieri e tre algoritmi: cosa ne esce, se non un’incazzatura globale?

In questo quadro diffuso, ad esempio, non sembra esattamente un caso che tra le quattro maggiori città italiane il Pd abbia tenuto soltanto in quella dove la crisi c’è, certo, ma il benessere non manca, i servizi pubblici funzionano e il maggior partito anti-establishment non ha saputo organizzarsi.

Le dinamiche di Milano quindi sono state – a questo giro – non metaforiche del resto del Paese, ma eccezionali rispetto a esso.

Essendo il Pd vissuto come partito dell’establishment, non è strano che ce l’abbia fatta laddove il desiderio di rovesciare l’establishment è un po’ minore. Come a Milano e più in generale nei centri storici, ad esempio.

Poi entra in gioco, appunto, il terzo gruppo di concause, quelle locali.

Di cui Roma è l’emblema perfetto: qui centrodestra e centrosinistra hanno fatto talmente schifo, che Raggi ieri avrebbe vinto anche se avesse passato il sabato a picchiare passanti a caso con l’ombrello. Di nuovo, non c’era bisogno di raffinate analisi per capirlo, bastava girare per strada, parlare con le persone. Il “sentiment” era di un’evidenza solare.

A tutto ciò si è aggiunta una candidata donna con un’immagine di novità e freschezza – piaccia o non piaccia – più gli errori catastrofici del Pd gestito da Orfini: dal modo in cui ha affrontato Mafia Capitale all’estromissione notarile di Marino, dalla sponsorizzazione dei poteri edilizi di Caltagirone e dintorni fino al delirio dell’ultima settimana, un tentativo di “character assassination” dell’avversario che ha ottenuto esattamente l’effetto opposto a quello voluto.

Di certo, in conclusione, c’è che adesso in Italia sono saltate definitivamente le geometrie politiche che hanno caratterizzato lo scontro politico per oltre un ventennio.

Ce ne sono di nuove, confusamente basate sulla dialettica tra establishment e anti establishment, con quest’ultima area che tuttavia viene interpretata da soggetti diversi in luoghi diversi – principalmente M5S, ma anche De Magistris e le liste civiche che hanno vinto a sorpresa come a Latina e altrove, e Salvini non è affatto morto. Del resto anche negli Stati Uniti il sentimento anti establishment ha creato sia Trump sia Sanders. E in Gran Bretagna sia Farage sia Corbyn.

Quelle nuove sono geometrie provvisorie, probabilmente. Perché essere “anti-establishment”, appunto, di per sé non rappresenta un pensiero omogeneo: sicché questa galassia si definirà nelle sue diversità e perfino nei suoi opposti. E adesso è anche un po’ al governo, quindi a sua volta passibile di accountability, col tempo.

Siamo in un interregno, insomma. Con nuove chance e nuovi rischi: come sempre, quando finisce un sistema.

Un mix di possibilità e di rischi che va oltre non solo Roma e Torino ma anche oltre l’Italia – e ormai perfino anche oltre l’Europa.

Ci avevano detto che, caduto il comunismo, “la storia era finita”: che avremmo sonnecchiato per chissà quanti decenni avvolti dall’“aria serena dell’Ovest”.

Che sciocchezza che era.

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