RIFLESSIONI. Intervento di Gianni Mula su «Il Dialogo» del febbraio 2014, che ci aiuta a capire dove va il mondo…

mondo bluUna politica economica folle
di Gianni Mula, su Il Dialogo (13/2/2014)
La politica economica italiana è folle. E tuttavia è quella di tutti i partiti che contano, sia del centrodestra che del centrosinistra, nonostante il rischio di emorragie di voti a favore di partiti ancora più a destra o ancora più a sinistra.
La politica economica italiana è folle. E tuttavia è quella di tutti i partiti che contano, sia del centrodestra che del centrosinistra, nonostante il rischio di emorragie di voti a favore di partiti ancora più a destra o ancora più a sinistra. È una politica sostenuta dalla banca centrale. Tutti danno la colpa della crisi al Fiscal Compact imposto dall’Eurozona, ma tra i partiti al governo non lo si fa, o lo si fa con toni molto bassi. - segue -
La politica che facciamo può essere riassunta in 5 tappe che si ripetono ciclicamente:
1) Il governo adotta misure di austerità, per cercare di conservare la fiducia dei mercati. Il ministro delle finanze spiega che per non avere difficoltà col finanziamento del debito pubblico conservare un buon rating è essenziale.
2) L’austerità riduce la domanda, contribuendo così a creare aspettative di crescita zero o negativa.
3) Con queste aspettative non si riesce a limitare il deficit, bisogna ricorrere ad altre misure di austerità, e la crescita diminuisce ancora.
4) Il rating del debito pubblico scende, ma le agenzie di valutazione del credito continuano a preoccuparsi perché una crescita insufficiente è un fattore importante per l’abbassamento della valutazione.
5) Queste preoccupazioni fanno scendere la fiducia dei mercati. Di conseguenza dobbiamo raddoppiare gli sforzi per ridurre il nostro debito.
E così via …
Quanto scritto sinora descrive bene la strada che l’Italia ha seguito per passare da un rating AAA all’attuale BBB, ma non è stato scritto da me e non si riferisce alla politica economica italiana. È tratto alla lettera (a parte l’aggettivo italiana nella prima frase) da un recente post di Simon Wren-Lewis, professore di economia dell’università di Oxford, apparso il 3 dicembre sul Social Europe Journal. Wren-Lewis raccontava il declassamento del rating dell’Olanda, allora appena avvenuto, ed evidenziava che lo stesso meccanismo suonava ormai familiare nel Regno Unito.
Wren-Lewis spiegava poi che la leva principale che i governi hanno per far qualcosa per rimediare alla decrescita dell’economia e alla crescita della disoccupazione è la politica fiscale. Purtroppo i governi stanno usando questa leva in maniera completamente sbagliata (perché tende a peggiorare la crisi, anziché a contrastarla) e i risultati si vedono (purtroppo).
In realtà una politica economica che promuova la crescita diminuendo la disuguaglianza è assolutamente necessaria, non solo per ragioni etiche, ma anche per assicurare la sopravvivenza del sistema economico globale. Far questo è qualcosa che non riguarda soltanto la distribuzione della ricchezza ma significa coinvolgere la gente, vale a dire rappresentanti delle varie etnie, religioni o gruppi locali, nel processo decisionale che porta alla scelte di politica economica.
Bisogna coinvolgere tutti gli strati sociali per evitare che, in una situazione di grande sofferenza, ci sia chi si sente marginalizzato e senza vie d’uscita. Si tratta quindi di creare posti di lavoro che permettano ai lavoratori di sottrarsi al lavoro nero, e godere dell’assistenza sanitaria e del sistema pensionistico (e quindi anche di pagare le tasse).
La varietà delle politiche possibili è molto ampia ma, secondo il dibattito che c’è stato al recente World Economic Forum di Abu Dhabi, ce ne sono due, fondamentali, che si dovrebbero applicare dovunque: la prima è quella di assicurare ai figli dei poveri una buona educazione come strumento per la solidarietà tra generazioni. L’altra, particolarmente importante nelle nazioni ricche di risorse, è quella di assicurare a tutti i cittadini, e specialmente ai più poveri, una parte degli introiti derivanti dallo sfruttamento di quelle risorse.
Se continueremo a lungo a ignorare i pericoli di una grave disuguaglianza nella distribuzione dei redditi ci ritroveremo nella situazione da incubo descritta da un economista nigeriano, Sam Aluko, nel 1999: “I poveri non possono dormire, perché sono affamati, e i ricchi non possono dormire, perché i poveri sono svegli e affamati”. E le conseguenze saranno ben più gravi di qualche notte senza sonno.
Di nuovo, ciò che ho scritto negli ultimi quattro paragrafi non è mio, ma è tratto alla lettera dal post “L’incubo della disuguaglianza”, pubblicato il 13 gennaio del 2014 sul Social Europe Journal, da Donald Kaberuka, dal 2005 7mo Presidente della African Development Bank (Banca africana di sviluppo).
Ho utilizzato questo piccolo trucco per evidenziare il fatto che dovunque nel mondo si trovano persone altamente qualificate in campo economico i cui discorsi concordano nel giudicare senza senso la politica economica praticata dalle istituzioni governative di praticamente tutti i paesi sviluppati. Naturalmente, come facciamo vedere qui di seguito, la loro posizione critica è largamente condivisa anche da studiosi molto più noti al pubblico italiano.
Ad esempio Luciano Gallino, autorevole sociologo ed economista italiano, nel suo libro “Il colpo di Stato di banche e governi” (Einaudi 2013) scrive: “In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia. È piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni. Essa è stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007″.
Paolo Leon, professore emerito di Economia all’Università di Roma 3, nel suo libro “Il capitalismo e lo Stato” (Castelvecchi 2014) aggiunge che negli ultimi trent’anni il capitalismo ha cambiato natura, perché “le politiche Thatcher-Reagan hanno creato un nuovo tipo di soggetto finanziario, la cui sete di accumulazione è volta a speculare per accumulare, e non guarda al profitto ma al valore crescente del proprio stato patrimoniale … mentre l’economia post-rooseveltiana è fondata sul profitto, quella post-reaganiana è fondata sull’accumulazione”. È appunto questa variazione nella natura del capitalismo ad aver generato i crescenti squilibri nella distribuzione del reddito e quindi a costituire un oggettivo pericolo per il sistema democratico.
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, e editorialista del New York Times ben noto ai frequentatori di questo sito, scrive, in un post del 12 gennaio 2014 intitolato “La rivoluzione anti-scientifica in macroeconomia”, che la spiegazione che Keynes diede della crisi del ’29 è stata “una vera rivoluzione scientifica per la macroeconomia, paragonabile alla scoperta della tettonica a zolle in geologia. D’improvviso ciò che prima non si sapeva spiegare – che cosa spinge verso l’alto le catene montuose? che cosa spiega i periodi di depressione economica? – divenne comprensibile. … [questa rivoluzione scientifica] ha aumentato straordinariamente la nostra comprensione del mondo ed ha costituito un’importantissima guida pratica sul come affrontare periodi di recessione. La sua teoria si è dimostrata nei fatti una guida preziosa, e coloro che non l’hanno accettata, perché non corrispondeva alla loro idea personale di buon senso, sono sempre stati smentiti dai fatti. Ciononostante la maggior parte dell’establishment politico ed economico continua a rifiutarla, semplicemente perché non gli piacciono le conclusioni della teoria. E per questo che Galileo ancora piange”.
Joseph E. Stiglitz, premio Nobel come Paul Krugman, già vicepresidente e capo economista della World Bank e presidente del comitato dei consiglieri economici del presidente Clinton, è autore del libro The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endangers our Future (Il prezzo dell’ineguaglianza: Come una società divisa mette in pericolo il proprio futuro).
In un articolo del 13 gennaio 2014 Stiglitz scrive: Con i leader europei testardamente decisi a continuare nelle politiche di austerità … non ci si può meravigliare se le prospettive di ripresa del continente appaiono così deprimenti. … Dall’altra parte dell’Atlantico la situazione è un po’ migliore. … Ma dobbiamo stare attenti a non esagerare con l’euforia. Perché una gran parte dei posti di lavoro creati è a basso salario, tanto basso che il reddito medio complessivo continua a scendere. Per la maggior parte degli americani non c’è ripresa perché il 95% dei guadagni finisce nelle tasche dell’1% a reddito più alto. … Il reddito medio (corretto per l’inflazione) continua a essere più basso che nel 1989, un quarto di secolo fa. … Niente di tutto questo è inevitabile. È invece il risultato di una cattiva politica economica, e di un’ancora peggiore politica sociale, unite nello sprecare la principale risorsa di una nazione – il talento dei propri cittadini – e nel causare immense sofferenze per i disoccupati e le loro famiglie. … Col grande malessere dell’Europa che continuerà per il 2014 e la ripresa americana che riguarda solo l’1% più ricco della popolazione non posso non vedere il futuro a tinte fosche. … Quanto si può resistere in queste condizioni?”
Robert Reich, professore di politiche pubbliche presso l’università di Berkeley, in California, ministro del lavoro sotto la presidenza Clinton, il 12 febbraio 2014 si è chiesto sul suo blog (ripreso dal Social Europe Journal): Perché l’America ha dimenticato le tre lezioni di economia più importanti che aveva imparato nei trent’anni dopo la seconda guerra mondiale? L’argomentazione di Reich può essere sintetizzata così:
La prima lezione è che se la gente comune non ha salari decenti non può sostenere un processo di crescita. In quegli anni la crescita ci fu perché i salari aumentavano e i lavoratori avevano abbastanza potere d’acquisto per essere buoni consumatori. Sindacati forti permettevano ai lavoratori di appropriarsi di una fetta decente dei maggiori guadagni prodotti dal proprio lavoro. Si trattava di un circolo virtuoso.
La seconda è che tra il 1946 e il 1974 l’economia crebbe più velocemente, in media, di quanto non sia cresciuta dopo, perché la nazione stava creando la più grande classe media della storia. Le dimensioni totali dell’economia raddoppiarono, e altrettanto fecero i guadagni di quasi tutti. Gli stipendi degli amministratori delegati raramente superavano quaranta volte il salario medio di un operaio, e stavano benissimo.
La terza lezione è che una tassazione progressiva sui redditi più alti serviva a finanziare gli investimenti pubblici – strade, ponti, trasporti pubblici, ricerca di base, scuole pubbliche gratuite di alta qualità e un sistema universitario accessibile – necessari per migliorare la produttività complessiva della nazione. E in quegli anni la tassazione era molto alta (sotto Eisenhower l’ultimo scaglione era tassato al 91%. aliquota che poi non è mai scesa sotto il 70%).
Negli ultimi trent’anni, invece, l’economia è cresciuta ma la gran parte delle persone non ne ha visto i frutti. Anzitutto perché in troppi hanno creduto alla favola di un economia regolata dall’offerta, nella quale chi crea i posti di lavoro sono i ricchi e le grandi aziende. Secondo questa favola se si tagliano le tasse a loro carico i benefici ricadranno su tutti. Ma naturalmente non c’è stata alcuna ricaduta favorevole [cfr. il §54 della Evangelii gaudium, nota mia].
Poi, continua Reich, si è permesso alle grandi aziende di far la guerra ai sindacati, col risultato che il numero degli iscritti è sceso sotto il 7%. Si è lasciato andare a pezzi per mancanza di manutenzione il nostro sistema viario e di trasporto pubblico e si è lasciato che l’istruzione pubblica si deteriorasse. In compenso si è lasciata libera la grande finanza di scatenarsi alla ricerca del massimo profitto, col risultato di creare un capitalismo da casinò, con amministratori delegati che guadagnano molto più di prima, quanto non più 40, ma 300 operai medi. Un capitalismo che sei anni fa è quasi riuscito a distruggere l’economia e che continua a far danno a milioni di americani proprietari di casa.
Questa analisi di Reich concorda perfettamente con la sostanza di quanto abbiamo detto finora: da Krugman a Gallino, da Leon a Stiglitz, da Kaberuka a Wren-Lewis, tutti, pur nella diversità degli approcci e delle esperienze, valutano come insostenibile sul piano economico, ingiustificabile sul piano sociale, pericolosa sul piano politico, un’economia caratterizzata da una disuguaglianza nella distribuzione dei redditi alta come l’attuale. In buona sostanza tutti fanno risalire all’applicazione scriteriata dei principi del liberismo economico l’origine di questa disuguaglianza.
Ci si aspetterebbe che di fronte a una crisi tanto grave, in presenza di un’opposizione tanto vasta quanto qualificata, tutta interna al sistema economico del libero mercato, i responsabili economici dei vari governi giustifichino le proprie scelte in maniera almeno altrettanto argomentata quanto le critiche ricevute.
Niente di tutto questo. C’è una gara a cambiare discorso, ad esempio a gridare alla lotta di classe che sarebbe stata scatenata per invidia dal 99% contro il “povero” 1%, arrivando perfino, negli USA, a inverosimili paragoni con gli ebrei durante il regime nazista. E c’è chi, pur tenendo a mantenere un’equidistanza formale, si ostina a negare pervicacemente che la disuguaglianza abbia un ruolo significativo nelle vicende economiche. Prendiamo ad esempio David Brooks, il noto editorialista di orientamento conservatore del New York Times, che ha dedicato all’argomento un editoriale dal titolo The inequality problem (Il problema della disuguaglianza, New York Times 17/01/2014). In esso Brooks dice che si tratta di un dibattito male impostato, che confonde le idee anziché chiarirle, perché mette assieme due questioni non legate tra di loro: la ricchezza crescente del 5% delle persone a reddito più alto, e l’emarginazione dalla società di un gruppo crescente di persone che non ce la fanno.
Che queste due questioni non siano legate tra loro è evidente, dice Brooks, perché la crescente ricchezza del 5% più ricco è dovuta a fattori come i meccanismi di pagamento tramite bonus azionari che sono in uso a Wall Street, la tendenza a sposarsi fra loro delle persone con alto reddito, l’effetto del divismo che fa sì che chi diventa famoso finisce col guadagnare, in un’epoca dominata da internet, molto di più di quelli che non lo diventano. Ma, a parte il fatto che far passare la fascia privilegiata dal 1% al 5% mostra già la tendenza a negare una realtà verificabile da chiunque sia in grado di leggere i dati statistici a disposizione del pubblico, attribuire l’aumento smisurato della ricchezza del 1% più ricco a cause come quelle indicate da Brooks significa dire che i più ricchi diventano tali a loro insaputa, per cause naturali da loro non volute e non previste.
Ancora, affermare, come fa Brooks, che il numero degli emarginati cresce perché aumenta il numero di coloro che non finiscono gli studi, perché non si trovano più lavori a bassa qualificazione, perché aumenta il numero delle famiglie distrutte a causa di divorzi, droga ecc., significa dare per dimostrato che non diventare molto ricchi capita solo agli sfortunati, o incapaci, che non riescono a finire gli studi e non trovano lavori a bassa qualificazione, o a coloro la cui famiglia d’origine o acquisita si sfascia. Cioè solo a coloro che non si “meritano” di essere ricchi. A questo punto l’unica cosa che si può dire è che Brooks può anche essere persona per altri versi intellettualmente stimabile, ma quando parla di disuguaglianza si abbassa al livello del John Elkann che dice che i giovani che non trovano lavoro non lo trovano perché sono privi di ambizione e preferiscono starsene a casa dai genitori!
In Italia una variante di quest’atteggiamento negazionistico per principio del ruolo della disuguaglianza è ben rappresentata da un pezzo del Sole24ore del 19/12/2013, a firma di Francesco Costa, nel quale si sostiene che «Il “neoliberismo” può legittimamente non piacere, ma brandire oggi questa parolona come fosse la causa dei problemi italiani vuol dire aver fatto prevalere l’ideologia sulla realtà: ricorrere a una scorciatoia dialettica che non porta da nessuna parte, se non a prendere in giro i propri elettori».
Le ragioni per questa affermazione stanno nel fatto evidente, dice Costa, che «Sostenere che l’Italia sia nella situazione in cui si trova a causa del neoliberismo vuol dire quindi sostenere che l’Italia in questi anni abbia ridotto – selvaggiamente, addirittura – il peso dello Stato nella sua economia, abbattendo le tasse e la spesa, privatizzando le grandi aziende pubbliche, riducendo drasticamente la burocrazia, abolendo la contrattazione collettiva e gli ordini professionali, lasciando mano libera ai privati».
Sfugge a Costa che il punto non è se l’Italia sia diventato un paese liberista come lui lo definisce, cosa che chiaramente non è successa, ma che, in nome di una teoria economica che si autodefinisce liberista, siano state applicate misure di austerità che stanno finendo di distruggere il nostro paese. Se a Costa non piace che la teoria economica dominante nei circoli governativi di tutti i paesi europei sia chiamata neoliberista, la chiami pure come preferisce, anche teoria Merkel o teoria Schäuble, ma non finga di non capire che neoliberismo è semplicemente un modo compatto per indicare l’insieme delle politiche economiche che impediscono all’eurozona di uscire dalla crisi.
Un’altra variante di questo tipo di atteggiamento è citata da Krugman in un editoriale dal titolo Inequality, Dignity and Freedom, (New York Times, 14/2/2014): «Contrariamente alle tesi sostenute dai repubblicani l’Ufficio del bilancio del Congresso americano ha esplicitamente dimostrato che la riforma sanitaria di Obama non distrugge posti di lavoro. Ora alcuni repubblicani (ma non tutti) hanno smesso di dire menzogne al riguardo e sono passati a un altro argomento. OK, dicono, la diminuzione nelle ore di lavoro che la riforma permette sarà una libera scelta dei lavoratori, ma continuerà ad essere una cosa sbagliata perché essi perderanno la “dignità del lavoro”. Vediamo allora che cosa significa “dignità del lavoro” nell’America del XXI secolo. «Nel 2012 i 40 manager finanziari al vertice dei guadagni hanno guadagnato, tutti assieme, 16,7 miliardi di $, che significa che in media ciascuno di essi ha guadagnato nel 2012 400 milioni di dollari, quindi circa 10000 volte il salario annuo di un lavoratore di media qualifica (circa 40.000$). Dato questo genere di disuguaglianza, come si fa a sostenere l’eguale dignità di tutti i lavori?» E ancora, «Quando si sostiene la necessità di smantellare la gran parte dello stato sociale per sostituirlo con programmi minimali di assistenza in casi estremi e con istituzioni di carità private, non si sta forse attentando alla “dignità del lavoro”, e alla stessa libertà, dei lavoratori a reddito più basso?»
Com’è allora possibile che tante persone in buona fede sostengano governi che fanno solo gli interessi dell’1% con grave danno degli interessi, almeno altrettanto legittimi, del 99%? Non c’è dubbio infatti che tanti siano in buona fede, visto che, per definizione, quelli che lo fanno invece per interesse non possono essere molto più dell’1%, e il partito dell’1% perderebbe le elezioni se non lo votassero tante persone che pure dal farlo ricavano solo guai. La spiegazione che si lascino ingannare dalla propaganda è la prima che viene alla mente ma è solo una risposta parziale, e anche equivoca, perché dà l’illusione che sia un problema risolvibile sul piano individuale, da ciascuno, semplicemente ponendo maggiore attenzione alle proprie fonti di informazione.
Purtroppo le cose non stanno affatto in questo modo. Certamente una maggiore e più affidabile informazione è qualcosa per cui vale sempre la pena di battersi, ma il processo di globalizzazione senza limiti attualmente in corso ha scatenato meccanismi infernali il cui controllo sfugge al controllo individuale. Come non avrebbe senso attribuire la colpa della crisi a pochi individui con accesso a mitiche stanze dei bottoni, così non ha senso neanche ipotizzare che slogan come fuori dall’euro!, in galera chi ruba!, ciascuno a casa sua!, fuori i politici dalle banche!, fuori i banchieri dalla politica!, fuori lo stato dall’economia!, sciopero fiscale!, largo al merito! e via di questo passo, alle quali i politici dovrebbero uniformarsi senza fare eccezioni, possano essere d’aiuto per uscire dalla crisi.
La cosiddetta cultura del maggioritario, attualmente molto in voga, è appunto un esempio, e non dei meno pericolosi, di come di fronte a un problema reale, quale l’incapacità del parlamento italiano di formare governi in grado di operare, anziché cercarne le cause o la natura si preferisca cambiare la legge elettorale. Più o meno come scegliere di chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie per poter negare, in buona fede, il degrado evidente della nostra società.
Un degrado che avviene non perché non ci siano più valori in cui si possa credere, ma perché tutti, in misura maggiore o minore, abbiamo deciso di regolare la nostra vita secondo altri parametri. È un discorso facile da fare se rivolto ad altri, e difficile da fare se rivolto a ciascuno di noi. Ma non possiamo uscire da questa crisi senza provare almeno a responsabilizzarci, cioè a farci carico delle nostre responsabilità senza delegarle a supposti tecnici “al di sopra delle parti”, o a scelte di politica economica ridotte a slogan insensati.
È appunto per provarci che abbiamo scelto come argomento del mese Quanto è importante la disuguaglianza? Non limitiamoci a cercare un rimedio purchessia alla follia di una politica economica che sta distruggendo la nostra società ma cerchiamo di capire come e perché ci siamo lasciati coinvolgere in essa.
Non saprei chiudere meglio questo pezzo fin troppo lungo che con le parole di un grande cristiano come Arturo Paoli, tratte dall’omelia che ha tenuto in occasione della messa di ringraziamento per i suoi cent’anni.
Dobbiamo renderci conto – cari fratelli e sorelle – che noi persone umane, che pensiamo e amiamo, possiamo cambiare essenzialmente la nostra vita interiore, mentre su quella esteriore abbiamo meno potere. …
Con ciò voglio dire che le tempeste, gli squilibri della natura, tutto quello che noi viviamo, lo viviamo “comunitariamente”. Per tutte le scelte individuali che noi facciamo – di egoismo, di appropriazione, di violenza – a torto poi diciamo: «Io sono il responsabile, che m’importa!». …
Ma la società umana non è qualcosa di frammentario. È vero che noi possiamo ridurla anche a questo – cioè pensare a un individualismo assolutamente staccato dagli altri, completamente indipendente dalla società in cui viviamo oggi – ma questo è un male, è una patologia della società, è una patologia forte dell’umanità. …
Noi siamo “dipendenti”. Siamo noi che creiamo questa società, che evidentemente è tornata indietro, forse di qualche secolo. Noi ci siamo vantati che le differenze sociali antiche, ma non tanto antiche, dopo l’ultima guerra mondiale, siano cambiate; i dislivelli sociali sono diventati meno profondi non solo di un tempo antico, ma anche di un tempo abbastanza recente; ci siamo vantati e abbiamo scritto che la catastrofe della guerra era completamente superata dalla società che aveva fatto passi avanti.
Come si controllano questi “passi avanti”? Si controllano coi “dislivelli sociali”, con le differenze e le distanze tra quelli che possono sprecare e quelli che non hanno neanche il pane sufficiente per mantenersi in vita. È un segno di civiltà? È un segno di religione? È un segno di responsabilità?
Direi che la “verità” di una società si manifesta quando i dislivelli sociali sono meno profondi, o forse addirittura vengono colmati. Oggi, invece, andiamo sempre più giù, e pur con tutte le leggi e le disposizioni che si adottano continuiamo ad aumentare i nostri dislivelli sociali. Torniamo indietro, molto indietro! …
La nostra società va verso una “decadenza” rapidissima. Questo è un segno di irresponsabilità. Bisogna prendere coscienza di questo e abolire, superare, la convinzione che il mio individualismo possa arrivare fino all’assoluto. Essa non è vera, noi restiamo dipendenti. …
Perciò, cosa dobbiamo fare? Prima di tutto dobbiamo “civilizzare”, “responsabilizzare”, rendere cosciente, consapevole, il nostro Io personale. … Perché il soprannaturale, l’eterno, l’invisibile, non è lontano da noi, è dentro di noi, è parte della nostra personalità, siamo noi. …
Non sono pessimista. È giusto che al principio dell’anno vi dica espressamente, con tutta la libertà, che dobbiamo cambiare rapidamente. I dislivelli sociali, economici, così acuti e profondi, devono sparire. Bisogna arrivare ad amarci, bisogna superare l’individualismo che si fa ogni giorno più feroce.

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