La Sardegna che vogliamo ricostruire ha bisogno di una classe dirigente di sardi onesti e capaci
Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
di Aladin
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (più politica che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.
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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.
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In Sardegna crisi di sistema. La politica debole che non decide
di Maria Francesca Chiappe
(Da L’Unione Sarda – L’opinione, del 6 maggio 2016, ripreso da SardegnaSoprattutto).
Non può essere una questione di imbarazzo. Il gelo del Consiglio regionale per il giuramento di un consigliere appena scarcerato non può essere la cifra di una politica che in questo modo si rivela debolissima. Una classe dirigente autorevole non avrebbe neanche bisogno di discutere perché in nome del rispetto delle Istituzioni l’indagato si farebbe da parte.
Invece no: l’accusato non si ritira, il partito non fa nulla, il Consiglio si imbarazza e tutti aspettano la sentenza. Eppure non si tratta di una disputa tra garantisti e giustizialisti bensì di una politica che arretra a favore della magistratura, delegando ai giudici la selezione dei suoi dirigenti e, di fatto, sfuggendo alle sue responsabilità.
Anche la scelta del segretario regionale Pd si inserisce in questo quadro: davanti all’accusa di evasione fiscale avrebbe dovuto fare subito un passo indietro per non coinvolgere il suo partito e l’istituzione che rappresenta. Perché la politica che decide di non decidere in realtà sceglie di non scegliere la sua classe dirigente.
Inevitabilmente quella selezione la faranno i giudici, rafforzando sempre più il loro potere a scapito degli altri due. E quando l’equilibrio democratico si rompe aumenta il rischio di distorsioni, come l’arresto sopra le righe del sindaco di Lodi.
Bisogna invece cominciare con l’ammettere che in Sardegna esiste una crisi di sistema svelata dalle inchieste sugli appalti che coinvolgono amministratori locali, professionisti, imprenditori, politici di prima linea, incluso il vice presidente dell’Assemblea regionale che ha diviso la cella con l’ex sindaco di Buddusò neo consigliere regionale.
Intanto in un altro carcere il vice sindaco di Villagrande studia come difendersi dall’accusa di rapina. Sullo sfondo ci sono gli attentati ai sindaci, persone oneste che resistono alle pressioni e disoneste che con le pallottole pagano il prezzo della corruzione. Il quadro è allarmante. Ed è forse tempo di chiedersi se lo sviluppo debba essere affidato a lavori pubblici senza controllo e, forse, di considerare le zone interne periferie urbane degradate dov’è ormai sbarcata anche la ferocia del femminicidio.
Alla faccia dei codici non scritti.
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