Sa die una festa da difendere con ostinazione contro la sua sterilizzazione voluta dagli attuali decisori politici regionali. Riflessioni e proposte
Sa Die della rimozione
di Nicolò Migheli*
Il 28 aprile e la Sarda Rivoluzione vanno oscurati. La Giunta che ci governa l’anno scorso in estremis dedicò la Giornata dei Sardi alla sovranità alimentare e al cibo; quest’anno ai migranti. Temi di indubbio rispetto. Il primo ci poneva davanti alla nostra dipendenza dalle importazioni di alimenti. Non vi è libertà senza la proprietà del cibo. Il secondo vorrebbe ricordarci quello che già viviamo, migliaia di sardi che ogni anno lasciano l’isola perché qui non trovano lavoro e gli spostamenti biblici di popolazioni in fuga da guerre e povertà, da siccità e desertificazione.
Come non essere d’accordo? Soprattutto in tempi di chiusura di frontiere, di respingimenti da parte delle polizie europee. Evidentemente il calendario deve essere così pieno di impegni che non si trova altro giorno che non sia Sa Die de sa Sardigna. Questa insistenza sugli spostamenti di significato del 28 aprile più di casualità sanno di strategia ben precisa: far dimenticare ai sardi il senso di quella giornata, rimuoverlo dal ricordo e spingerlo nell’inconscio.
La Sarda Rivoluzione non ha mai goduto, se non da parte di poche minoranze, di “buona stampa”, è passata come rivolta del notabilato locale per avere qualche impiego in più a Corte. Di conseguenza è meglio che non se ne parli. Già la scuola non lo fa, quando avviene è frutto dell’impegno dei singoli docenti. È bene che neanche le istituzioni lo facciano. Ricordare una Sardegna illuministica, in linea con la migliore Europa del Settecento non conviene. Sono avvenimenti storici che possono indurre riflessioni sulla nostra attuale dipendenza culturale prima che economica.
Memorie che pongono domande come: quale è la nostra Patria? Siamo nazione viva oppure abortita? Temi disturbanti in una Europa che si rinazionalizza, che riscopre gli Stati ottocenteschi facendo naufragare il progetto europeo. Sa Die de sa Sardigna contraddice i disegni neocentralisti renziani e non si può dispiacere al governo amico. Spegnere ogni diversità e originalità, non solo qualsiasi richiesta di autodeterminazione, ma anche di autonomia dai desiderati romani. La definizione italiani di Sardegna va più che bene.
Da rimpiangere i democristiani sardi di un tempo che si facevano forti della specialità per contrattare duramente con Roma. Oggi invece domina la rimozione; lo è nella lingua sarda, considerata un orpello inutile per la modernità; lo è la festa dei sardi per identici motivi. Rimozione nelle tradizioni sarde ridotte a folklore, rito del cargo di cui si sono persi i fondamentali, buone per vendere vini e formaggi perché fanno strano e tipico; deprivate di modernità, utili ai disegni egemonici di chi ci vorrebbe eternamente eunuchi. Però come ci insegnano cento anni di psicanalisi la rimozione tende a rendere inconsci le idee, gli impulsi i ricordi che sarebbero fonte di angoscia o di senso di colpa, perché per loro, evidentemente, è così.
Un meccanismo di difesa contro il loro emergere. Una operazione che crea un deposito di contenuti ritenuti inaccettabili. Solo che l’operazione metapsichica è fonte di disagio continuo. Dalla negazione del sé, alla vergogna come fatto costitutivo della propria esistenza; per gli individui e per le comunità. I sardi si negano, perché il negarsi credono sia l’unica possibile per essere in sintonia con il resto del mondo. Su questi temi la psichiatra Nereide Rudas ha scritto pagine importanti analizzando il disagio e l’infelicità dei sardi, il loro sentirsi sempre fuori posto, cani nella chiesa della contemporaneità. Una vergogna che spinge persino a mutare il proprio accento vissuto come rozzo e penalizzante.
Una fonte di ansia sociale, un dipendere dal giudizio straniero considerato determinante nel autodefinirsi. Sei giusto e corretto se diluisci quel che sei in un indistinto. Qualche anno fa in Cagliari ebbero grande successo i corsi di dizione per non professionisti. Cancellare la propria appartenenza come obiettivo di realizzazione personale. Ancor di più in quelli che sono disponibili ad ogni rivendicazione nazionale degli altri, ma non della propria, vissuta come inutile se non contradditoria con il bisogno dell’esistere. Una continua cessione dell’essere, un accrescere il proprio disagio interiore.
Minorati e senza strumenti per vivere e competere nel proprio tempo. Tutto questo ha del paradossale per un governo regionale che si proclama propulsore dello sviluppo dell’isola. Quale sviluppo se si agisce per alimentare la sfiducia in se stessi? Quali possibilità di competizione nel mondo vasto e terribile se si rifiutano le precondizioni per costruire capitale sociale condiviso? La rimozione continua porta con sé il riemergere dei bisogni sotto forma di pulsioni inaccettabili. Oscurare il 28 di aprile contribuirà a regalare migliaia di sardi al neofascismo risorgente. Se italiani si deve essere alcuni lo saranno anche nella patologia.
Ed infatti già oggi quotidiani come il Giornale scrivono di identità tradita. Per fortuna però il comportamento dell’istituzione regionale non viene seguito ovunque. In centinaia di scuole e località si ricorderanno Giovanni Maria Angioy e la Sarda Rivoluzione. L’anno scorso nella messa nella cattedrale di Cagliari organizzata dalla Fondazione Sardinia, l’arcivescovo Miglio pregò per “La Sardegna, patria nostra”. Un seme di speranza. Per il resto, come tutte le società dipendenti, ondeggiamo tra esaltazioni e depressioni schizofreniche. Abbiamo bisogno di sedute di psicoanalisi di massa. Tutti.
*By sardegnasoprattutto/ 28 aprile 2016/ Culture/
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Sa Die…è morta. Che fare per resuscitarla?
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Certo Sa die de sa Sardigna è nata da una discussione fiacca in Consiglio regionale. Ci fu più eccitazione e partecipazione, ad esempio, quando votammo la legge che faceva Comune Lodine, la piccola frazione di Gavoi. Anche a quel tempo i consiglieri erano attenti alle presenze nelle tribune dell’Aula e per Lodine c’era una folla di lodinesi, mentre per Sa die, gli Angioy e i tanti altri martiri della sarda Rivoluzione non erano lì, neppure nel ricordo dei vivi.. D’altronde il fatto storico, la cacciata dei funzionari piemontesi, è importante, ma molto temporaneo, preceduto e seguito, com’è, da una dominazione ottusa e sanguinaria come fu quella dei Savoia. Dopo quel 28 aprile c’è stata la grande macelleria che ha visto il supplizio di Francesco Cillocco a Sassari, la forca per Sorgia, Putzolu e Cadeddu a Cagliari, la reclusione a vita di Vincenzo Sulis, che stoltamente difese i Savoia dai francesi, ma divenne troppo popolare, da far ombra e destare sospetto negli ambienti di una Corte di ingrati e sanguinari. Poi, giù giù fino all’eccidio di Bugerru, di Iglesias, l’insensato massacro della Grande Guerra e il fascismo. Una storia di sopraffazioni, di patimenti e di sangue.
Ha ragione Tonino Dessì, anche per questa ragione Sa die è rimasta una ricorrenza irrisolta, e non a caso, nelle occasioni migliori, fin dalla prima ricorrenza post legem fu relegata al rango di una specie di mascherata generale in costumi dell’epoca, senza impatto sull’oggi e sul domani.
Questa irresolutezza ha consentito quest’anno alla Giunta Pigluaru di parlar d’altro e inventarsi un diversivo, la giornata dei migrantes, importante certo, ma di cui si può ben parlare nei restanti 360 giorni dell’anno. Si capisce che per Pigliaru, coi sui magri risultati, parlar di Sardegna è proibitivo.
A questo punto, se non vogliamo trasformare le ricorrenza in occasione di conflitto permanente e rinverdire l’antica definizione (pocos, locos e malunidos), occorre dare un senso a Sa die. Certo, è difficile resuscitare i morti. Ci vorrebbe un miracolo. Ma forse la politica è l’unico terreno in cui i prodigi non sono impossibili, anche se son rarissimi, quasi come le guarigioni di Fatima o di Lourdes. Che fare, dunque, per resuscitare la giornata dei sardi? Sul piano simbolico, si potrebbe attualizzare la ricorrenza, facendone l’occasione per la cancellazione simboli della dominazione reazionaria. Per esempio, trasformando in Largo dei Martiri di Palabanda il Largo Carlo Felice e erigendo lì, in faccia a Carlo Felice, un grande monumento a Cadeddu, Sorgia e Putzolu, a ricordo perenne dei fatti del 1812. Se non vogliamo eliminare le opere della dominazione, possiamo ribaltarne il significato e il messaggio. Ad esempio, lasciando la statua di Carlo Felice, ma spiegando nella lapide a caratteri ben visibili che quel re, dal nome così accattivante, fu soprannominato Carlo il Feroce per la sua vocazione reazionaria e sanguinaria. E così, a ondate successive, ogni anno, accompagnando gli eventi con dibattiti di massa, non solo a Cagliari, ma in tutte le contrade della Sardegna, dove i nomi dei protagonisti della lotta dei sardi per la democrazia non sono evocati a dar nome a Piazze e e viali.
Ma certo questo è un fatto di memoria, anche se è importante per l‘acquisizione di una consapevolezza storica. E l’attualità? Si può recuperare, facendo de Sa die il giorno del discorso del presidente della regione sullo “stato della Sardegna”, un po’ come si fa negli States, dove il presidente si rivolge al popolo tracciando consuntivi e delineando preventivi, ossia la prospettiva, gli obiettivi di breve e lungo termine. In tale discorso il presidente della Regione potrebbe descrivere sia le condizioni generali dell’Isola sotto il profilo sociale, economico e politico, sia l’agenda della giunta, sia, ancora, i progetti per il futuro e le priorità. Oltreoceano il discorso è tenuto sulla base dell’articolo II, terza sezione, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che richiede al presidente di riferire al congresso lo “stato dell’unione” e le misure che crede sia necessario prendere, in Sardegna potrebbe essere previsto integrando la legge istitutiva de Sa Die.
In una terra in cui non si fanno mai consuntivi seri e mai previsioni credibili e non propagandistiche, il “discorso sullo stato della Sardegna” potrebbe essere un momento, se fatto con serietà e rigore, per una discussione generale e di massa sulla condizione dei sardi e la politica isolana. Un modo puntiglioso di fare i conti con noi stessi e con gli altri. Un momento di verità e di mobilitazione del popolo sardo. Il contrario del fatto di folkore degli uni e della rimozione degli altri.
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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
di Aladin
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (più politica che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.
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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.
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