Narratopia: la difficoltà di raccontare i luoghi. Riflessioni suggerite dal romanzo di Antonia Iaccarino “Il figlio della santa”
Il romanzo Il figlio della santa, di Antonia Iaccarino (Fandango libri 2011), mi ha condotto lungo una lettura straniante che si è imposta al di là di qualsiasi giudizio critico sull’opera. La trama si muove attorno (o meglio dentro) a due personaggi, madre e figlio, che all’inizio del racconto sono separati dall’oceano. Lei vive a Napoli, lui a Santiago de Chile. L’occhio dell’autrice segue i due percorsi in maniera volutamente non virtuosistica, senza evoluzioni e giochi formali nei cambi di piano tra lo scenario latinoamericano e quello italiano. Serve che i due personaggi siano percepiti dal lettore come in due dimensioni parallele per buona parte della narrazione, e ciò viene realizzato nello spirito scientifico del “rasoio di Okham”: attraverso la via più economica. Ossia, separando i luoghi fisici delle due vicende. Tant’è che il termine “trama”, sopra utilizzato, non è calzante nel caso di questo romanzo. In effetti, in rapporto alle circa 170 pagine del testo, gli snodi narrativi non fanno da protagonisti: sono pochi, tecnicamente necessari e liquidati in rapidi passaggi.
A questo punto, in chi non ha letto il libro, sorgerà forse la domanda: se tutto ciò che potrebbe costituire un impianto narrativo è assente o ridotto all’osso, che cosa raccontano le 170 pagine?
La mia risposta è ovviamente una liberissima interpretazione. Io credo che questo romanzo racconti due personaggi e due luoghi. I personaggi sono ovviamente Esther e V. (la santa e suo figlio). I luoghi sono altrettanto naturalmente le due città, ma con una differenza sostanziale e per niente scontata tra le due.
Santiago la conosciamo soltanto perché ci abita V., e la conosciamo soltanto attraverso il suo sguardo. La capitale cilena che si presenta agli occhi del lettore è un luogo interiore, rarefatto, monodimensionale, impalpabile come una realtà sognata. Napoli è tutt’altra cosa, e anche nel definire questa differenza può essere d’aiuto una metafora scientifica: del capoluogo campano abbiamo una stereoscopia.
Entrambi i protagonisti, infatti, vivono questa città, restituendola al lettore attraverso il loro sguardo e le loro sensazioni. Di più, di entrambe le visioni di Napoli abbiamo anche un resoconto diacronico. Perché sia Esther che V. filtrano la Napoli attuale, del momento in cui si svolge la vicenda, ma anche la città della memoria, di quando la separazione fra i due non era ancora avvenuta. Queste immagini in sequenza, immortalate da due differenti punti di vista, ci dànno una realtà plastica, sfaccettata. L’autrice non esce mai dalla visione soggettiva dei protagonisti ma, grazie all’espediente narrativo del punto di vista composito, siamo noi lettori ad avere i punti d’appoggio per aggiungere all’ambientazione la terza dimensione. E ancora una volta, è un rigoroso principio di economia a presiedere il tutto, come nel più puro spirito scientifico. Quel punto di vista composito non si moltiplica a dismisura per dieci, venti, cento personaggi-narratori, in un barocchismo che non sarebbe certo fuori luogo nel rendere il caleidoscopio di una città come Napoli. L’esatto contrario. Non soltanto i personaggi che prestano lo sguardo al lettore restano due, il minimo indispensabile alla visione stereoscopica. La stereoscopia stessa ci appare quasi come una minima concessione al realismo fatta con riluttanza da una concezione che tende alla reductio ad unum. Perché Esther e V. non sono voci narranti, e in effetti parlare di punto di vista composito è improprio. Essi sono due filtri di un unico io narrante. Nessuno dei due ci racconta alcunché. Il vero io narrante è esterno ad entrambi, e nei confronti di ognuno dei due assume la posizione di un narratore onniscente. Se non è tecnicamente definibile come tale è soltanto perché di tutti gli altri personaggi dell’opera ignora completamente l’interiorità, pur rappresentandola efficacemente attraverso le sue manifestazioni gestuali esteriori. Fa eccezione l’enigmatica Isabella, unico personaggio a tutto tondo a parte i due protagonisti. Ma per ragioni che non ho qui lo spazio di indagare, è fortissima la sensazione che questa donna, su un piano allegorico se non realistico, rappresenti nient’altro che un’epifania della stessa Esther in altra forma.
E ciò conduce all’ultima considerazione sul romanzo.
Da quanto detto sin qui, si potrebbe pensare che Il figlio della santa sia un trionfo della narrazione in soggettiva. Ma un elemento sconsiglia interpretazioni così unilaterali: il personaggio di Esther.
È una figura dai tratti più epici che romanzeschi. La sua esteriorità è quasi tutta nel suo ruolo di santa e nella messa in discussione del ruolo stesso da parte della “voce del popolo”. La sua interiorità è anch’essa risolta in buona parte nella funzione narrativa che ricopre e, laddove se ne discosta, si fa enigma irrisolto e irrisolvibile. Secondo un’opinione espressa dall’autrice stessa, Esther è un carattere dai tratti dell’archetipo. Ed è per questa ragione che un altro personaggio, Isabella, può essere percepito come legato a lei, come una differente manifestazione della stessa sostanza narrativa.
Questa lontananza irrimediabile del personaggio-non personaggio Esther è ciò che spezza la linea della visione soggettiva. La soggettività di un personaggio-non personaggio non può che essere una soggettività-non soggettività. È il punto di vista soggetivo di uno sguardo che non può coincidere con alcuno sguardo umano. È una via all’oggettivazione battuta con gli strumenti della narrativa, che sono naturalmente soggettivi per definizione, non essendo in alcun modo eliminabile la soggettività ultima, che è quella della persona che scrive.
Di fronte ad opere come questa, sono sempre indotto a constatare una carenza cronica nella narrativa sarda: quella di un vero retroterra letterario. Noi continuiamo ad appiccicare su uno sfondo non vitale, preso in prestito da altre letterature, immaginette senza spessore tratte dai luoghi comuni della tradizione popolare nostrana. Quasi sempre, tali immaginette sono in realtà la visione pittoresca di noi sardi filtrata da un paternalistico sguardo altrui, riciclato come “sardità autentica”. Il balente, il pastore dall’aspetto arcaico, il bandito: tutte figure numericamente, socialmente e culturalmente ininfluenti nel determinare il carattere della società sarda di oggi, e completamente incapaci di descriverci e di raccontarci come una parte dell’umanità. Una campana di vetro che racchiude una presunta “sardità” fuori dal tempo e dallo spazio. Su queste basi si può, di tanto in tanto, dar vita a qualche buon libro, ma non sarà mai possibile produrre una letteratura.
Il figlio della santa, come ogni vera operazione narrativa, presuppone uno sforzo di straniamento. Assumendo lo sguardo dell’apolide V. e dell’archetipo Esther, Antonia Iaccarino cerca di narrare i luoghi della sua stessa vita, la sua stessa città d’origine, conservandone l’identità ma scongiurando il pericolo dell’autoreferenzialità. Come in ogni opera, dal capolavoro al prodotto ordinario, il tentativo può essere riuscito o meno, in tutto o in parte. Ma lo sforzo attraversa ogni pagina, ed è ciò che mette inequivocabilmente al riparo questo romanzo da ogni caduta nel provincialismo, nel bozzetto, nell’antropologismo pseudo-narrativo, nel “neorealismo” fuori tempo massimo, nel “realismo magico” scimmiottato con mezzo secolo di ritardo sulla Storia.
Il romanzo è ambientato a Napoli, ma non è un pretesto per descrivere Napoli. Eppure vediamo i presepi, i vicoli del porto, i pescatori, le bancarelle. Ascoltiamo i canti tradizionali, le dicerie popolari, le leggende di quartiere. Assaggiamo gli odori e i sapori tipici. Non c’è materia da stereotipo partenopeo che manchi in queste pagine: ma manca lo stereotipo. O meglio, gli stereotipi abbondano: V. è stereotipo di una certa idea di artista, Esther lo è di una certa idea di donna, Napoli stessa lo è di una certa idea di città. Ma sono tutti stereotipi alti, generali, distanti. Sono stereotipi letterari.
E gli stereotipi letterari presuppongono una letteratura. Ciò che la cultura napoletana ha da secoli, e che quella sarda, crogiolata fra bozzetti e scene di genere, si ostina a non voler produrre. Naturalmente le eccezioni non mancano: buoni libri, appunto, non una letteratura.
Emiliano Manca
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