Referendum sulle trivelle: per un voto ragionato
di Pietro Greco, su Rocca del 15 aprile 2016.
Il 17 aprile andremo a votare per il cosiddetto referendum sulle trivelle. Ci verrà chiesto se siamo o meno d’accordo a rinnovare le concessioni alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia nautiche che segnano i confini delle acque territoriali. La frase di cui si chiede l’abrogazione è «per la durata di vita utile del giacimento».
Di questo referendum, sebbene promosso da nove Regioni e sebbene coinvolga una risorsa strategica come l’energia, sappiamo poco o nulla. E, come spesso accade in Italia, quel poco che sappiamo non è quasi mai frutto di un dibattito sereno ma di contrapposte ideologie.
Cerchiamo, dunque, di capire di cosa si tratta.
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Il referendum riguarda poche concessioni, una quarantina, e coinvolge, secondo il Ministero per lo sviluppo economico, 135 piattaforme off-shore, cioè in mare. Ma solo quelle, appunto entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Tutte queste piattaforme estraggono, ogni anno, 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, pari all’1% del fabbisogno nazionale, e 53,7 milioni di metri cubi di gas metano, pari al 3% del fabbisogno nazionale. Sebbene non del tutto irrilevanti, le estrazioni da queste piattaforme rappresentano una frazione marginale dell’energia che consumiamo. Inoltre il numero di nuovi pozzi è fortemente diminuito negli anni. E difficilmente ci sarà una ripresa. Le trivellazioni tenderanno naturalmente a diminuire anche se non abrogheremo la frase «per la durata di vita utile del giacimento».
Qualsiasi sia il suo esito, dunque, il referendum non avrà effetti strutturali. Tanto più che il sì al referendum e, dunque, al blocco del rinnovo delle concessioni, non avrebbe effetti immediati, ma diluiti nel tempo. Diciamo che nei prossimi dieci o venti anni rinunceremmo a una piccola frazione del petrolio e del gas che consumiamo.
le ragioni del sì e del no
Il gruppo ambientalista Greenpeace ha individuato sei buone ragioni per votare sì al referendum. La prima è una ragione politica: andiamo a votare e difendiamo il nostro diritto a scegliere. È una ragione giusta. Ma il diritto a scegliere attraverso un referendum nazionale è tale solo se la posta in gioco lo vale. Non mobilito un paese e lo chiamo a esercitare un giusto diritto per un problema marginale. Rischio l’effetto boomerang: se la gente non va a votare è l’istituto del referendum e della democrazia diretta che viene eroso e perde di credibilità.
Visto che la posta in gioco dal punto di vista quantitativo è marginale, vediamo se ci sono altre ragioni che legittimano il referendum. Secondo Greenpeace una di queste è il rischio incidente: una perdita di petrolio sarebbe un disastro. Certo. Ma qual è la probabilità che da una delle piattaforme si verifichi una perdita disastrosa di petrolio? La storia, ormai secolare, di estrazioni di petrolio off-shore nelle acque italiane ci dice che incidenti rilevanti non si sono mai verificati e che, in ogni caso, oggi le norme di salvaguardia da rispettare sono tante e tali che possiamo essere ragionevolmente sicuri che non se ne verificheranno in futuro. Quanto al gas – che è l’idrocarburo più estratto, non costituisce certamente un problema per l’ambiente marino. Al contrario, le acque che le circondano sono così pulite che le piattaforme sono diventate un luogo di spontaneo ripopolamento ittico. Dunque, neppure da un punto di vista dell’inquinamento il problema è rilevante.
Di conseguenza vengono meno, in buona sostanza, anche la terza (mettiamo in pericolo il mare per un pugno di barili) e la sesta (le trivelle non risolvono i nostri problemi energetici): perché il mare non è messo in pericolo anche se i barili di petrolio e i metri cubi di gas sono poco più che un pugno.
Non molto rilevanti sembrano essere anche le quarta (ci guadagnano solo i petrolieri) e la quinta ragione (la ricchezza dell’Italia non è il petrolio). In tutti i casi è il rapporto costo/benefici che conta e se un’attività economica non comporta dei costi ambientali e sociali elevati, il fatto che faccia guadagnare solo i petrolieri o che non riguardi il core business del paese è del tutto irrilevante. Se non si creano danni, perché no?
un tema ineludibile
Sulla base di queste argomentazioni dobbiamo, dunque, votare no al referendum o aderire all’invito esplicito del governo a disertare le urne?
No, non è detto. Perché abbiamo, finora, trascurato l’ottica principale da cui dobbiamo guardare al problema: la politica energetica di lungo periodo dell’Italia. In questo senso il percorso è segnato e prevede il ribaltamento del paradigma energetico attuale con il rapido phase out dai combustibili fossili (carbone, petrolio e metano) a vantaggio di altre fonti energetiche che siano rinnovabili e carbon free (non producano gas serra) e del risparmio energetico: un nuovo paniere capace, nel medesimo tempo, di aumentare l’efficienza del sistema produttivo italiano, darci l’indipendenza energetica e soprattutto contribuire a prevenire i cambiamenti climatici.
Quest’ultimo è un tema ineludibile. Non sono passati neppure sei mesi da quando lo scorso dicembre a Parigi, in occasione di COP 21, l’Italia insieme a quasi duecento altri paesi si è assunta l’impegno di fare tutto il possibile per contenere l’aumento della temperatura media del pianeta ben al di sotto dei 2 °C a fine secolo rispetto all’poca pre-industriale. Per mantenere questo impegno occorrerà che i paesi di antica industrializzazione abbandonino del tutto i combustibili fossili entro il 2050: dunque in meno di 35 anni!
È vero che si tratta di un impegno morale e che per i trasgressori non è prevista alcuna sanzione. Ma è anche vero che l’Unione Europea si sta impegnando in tal senso in maniera abbastanza decisa e prevede sanzioni per i paesi membri che non rispetteranno le decisioni assunte. Per il 2020, per i vincoli posti dall’Unione Europea, occorrerà che l’Italia abbia abbattuto le emissioni di carbonio del 20% rispetto al livello di riferimento del 1990. Questo vincolo lo rispetteremo: siamo già a –19,7%. Ma per il 2030 il taglio dovrà essere ben superiore, tra il 30 e il 40% e nel 2050, probabilmente, dell’80-90%.
Dunque non c’è tempo da perdere. Ogni azione, anche piccola, anche minima, deve essere coerente con questo percorso: che non è più una libera scelta, ma un impe- gno legale che abbiamo assunto.
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