DIBATTITO su la Sardegna che vogliamo: “abbiamo bisogno di una iniziativa politico/culturale e di progetti capaci di avviare uno sviluppo molecolare dell’economia”
Oltre la megalomania metropolitana
di Gonario Francesco Sedda*
Periodicamente si ripropone la questione della crisi e dello spopolamento dei piccoli comuni e si richiama la necessità di interventi di riequilibrio socio-economico e culturale della Sardegna. Tra le molte voci la mia è stata e rimane caratterizzata dalla denuncia del ruolo negativo giocato dai centri urbani più forti (capoluoghi e “centri rampanti”) nel determinare “ulteriori meccanismi di emarginazione” dentro la comune realtà di sottosviluppo.
1. In un convegno del 1981 (Sardegna: crisi, dipendenza, alternativa; Atti, CUEC/Editrice, Cagliari, 1982) osservavo: «Insomma, quello che troppo spesso è stato considerato un elemento di arretratezza, cioè il paesaggio storico nella sua specifica distribuzione della popolazione (netta prevalenza territoriale dei piccoli centri) e nella specificità del momento produttivo (economia di sussistenza e artigianale), può al contrario costituire la base per uno sviluppo produttivo e sociale equilibrato nel territorio che eviti le congestioni produttive e urbane, gli accentramenti burocratici e la degradazione ambientale».
Inoltre, riguardo alle politiche di settore, richiamavo l’attenzione sul fatto che comunque esse dovevano essere perseguite con una duplice consapevolezza: sia dei tempi medio-lunghi sia della loro permanenza «ancora dentro la concezione dello sviluppo per poli».
E concludevo: «E allora? E intanto? Non si tratta di contrapporre la buona economia del villaggio alla cattiva economia della grande industria; ma il disprezzo dell’economista per l’economia del villaggio, vista come arretratezza da spazzare via piuttosto che come risorsa da valorizzare, è non meno negativo del romanticismo economico. Dobbiamo sentire ancora per molto l’affermazione che la Sardegna non ha risorse? Oppure, se si parla di sfruttamento delle risorse locali, fino a quando penseremo solo al carbone del Sulcis o alle miniere? E fino a quando lamenteremo la mancanza di imprenditorialità dei sardi solo perché non si sviluppa un’industria indotta legata agli attuali insediamenti industriali e in particolare alla petrolchimica? Quello di cui si ha bisogno è di una iniziativa politico/culturale e di progetti capaci di avviare uno sviluppo molecolare dell’economia, di cui la grande industria (anche quella agroalimentare) sia la punta emergente di un tessuto produttivo diffuso e vitale».
A conferma del detto di J. M. Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti: la grande industria è un cumulo di macerie più che una realtà promettente. Ma non per le ragioni avanzate in uno studio del 1984 (G. Bolacchi, G. Sabattini, T. Usai: Oligopolio e crescita economica; Franco Angeli, 1985): infatti la crisi riguarda tutta la Sardegna, anche le zone dove non è e non era rilevabile quella «stazionarietà delle strutture agropastorali» che avrebbe determinato «una dispersione della popolazione in un numero molto vasto di piccoli agglomerati di dimensione tendenzialmente uguali». Gli autori accreditavano una «relazione funzionale» tra il tipo di distribuzione della popolazione nel territorio e l’attitudine generalizzata all’innovazione: più grande era la dispersione, minore era tale attitudine. In questo quadro la via di uscita suggerita, come precondizione dello sviluppo, era una politica economica che rompesse l’immobilità della struttura agropastorale sollecitando e favorendo lo spostamento e la concentrazione della popolazione in centri più grandi. Così la politica di riforma agropastorale è stata assimilata ad una politica dannosamente conservatrice in quanto la struttura socioeconomica del Nuorese «non tanto (aveva) rallentato quanto impedito» il salto nello sviluppo.
B. Barranu, in una giornata (4 febbraio 1985) di studio (Dal sottosviluppo allo sviluppo in Sardegna; Atti, Franco Angeli, 1986) ha ricordato che la salvaguardia di una distribuzione diffusa dei centri urbani fu «una scelta consapevole fatta dalle forze politiche e sociali del Nuorese»; ha mancato però di aggiungere che le stesse forze non sono state conseguenti e hanno perseguito politiche di accentramento o sono state subalterne alle tendenze spontanee al rafforzamento dei “centri guida”.
In realtà il ruolo della denunciata staticità nella distribuzione della popolazione nel Nuorese (e non solo) non è proprio chiaro. D’altra parte, come ho osservato in altra occasione, «non si capisce che cosa vuol dire in concreto una modificazione nella distribuzione della popolazione nella provincia di Nuoro. Si pensa forse che i suoi circa 280 mila abitanti debbano concentrarsi in cinque comuni di poco più di 50 mila unità? O in sette comuni di 40 mila unità più Nuoro? Insomma, ridurre il numero dei comuni della provincia di Nuoro da cento a venti sarebbe davvero la condizione necessaria per non impedire lo sviluppo? Oppure si vuole avere dieci comuni con un intervallo di popolazione tra 20/50 mila abitanti e i restanti (supposto che non se ne faccia scomparire una ventina) con un numero di abitanti ancora più piccolo di quello attuale? […] Altro che sviluppo! Un ulteriore spopolamento delle campagne e delle zone interne avrebbe come conseguenza sia una catastrofe ecologica sia un disastro economico» (Ma Nuoro non è Silicon Valley, Rinascita Sarda, luglio-agosto 1987).
Oggi pensare di affrontare il problema non tanto proponendo, ma imponendo la fusione tra comuni non solo è inaccettabile come metodo, ma è del tutto inadeguato e fuorviante. Infatti il problema non è solo e semplicemente quello dell’efficienza, ma della rarefazione e della sottrazione dei servizi con effetti di marginalizzazione territoriale. Anche una politica di gestione consorziale può migliorare l’efficienza e l’efficacia dei servizi (se esistono). Comunque il problema dell’efficienza è comune sia a entità demografiche più grandi dei piccoli centri sardi sia, per motivi opposti, ai grandi centri urbani: non può quindi essere fatto pesare unilateralmente contro le realtà più deboli.
2. Già il Censimento del 1981 aveva messo in evidenza l’insorgere e/o l’aggravarsi di squilibri nella distribuzione della popolazione in Sardegna e nella provincia di Nuoro in particolare: allo spopolamento di comuni da una parte faceva riscontro la crescita (talvolta tumultuosa) di altri.
Alla base di ciò si poteva individuare una concentrazione di servizi di portata sovracomunale o addirittura provinciale e regionale; oppure la valorizzazione di particolari risorse locali a vocazione turistica; o ancora la presenza di risorse industriali e/o artigianali (a volte modeste, ma comunque importanti rispetto al niente della gran parte del territorio); o infine una combinazione dei tre elementi tale da costituire un motore di crescita relativa.
Anche in un’area complessivamente debole come la provincia di Nuoro, il movimento demografico era la spia che operavano dei meccanismi spontanei di squilibrio, rafforzati dalla ideologia dei centri guida determinante una organizzazione gerarchica del territorio, a sua volta concausa di squilibrio. In questa ideologia la realtà appare contraffatta e capovolta nella misura in cui i centri guida vengono presentati come motore della crescita del resto del territorio, mentre nei fatti essi possono crescere solo limitando, impedendo o subordinando la crescita della propria area di influenza.
Da allora fino a oggi non si può dire che si siano sperimentate politiche di riequilibrio tali almeno da bloccare se non da invertire le tendenze spontanee negative; né sono state abbandonate o ridimensionate le usurate politiche delle “centralità urbane” a favore di politiche di diffusione dell’effetto urbano nel territorio.
Il giusto rilievo dato in Sardegna alla “questione urbana” come problema di urbanizzazione diffusa (equilibrata, non dispersiva) del suo territorio si è ridotto al problema delle centralità urbane esistenti (Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano, Quartu, Olbia, ecc.). Politiche di pura conservazione dei servizi a portata di ampio raggio già esistenti o di ulteriore accentramento di nuovi e importanti servizi nelle città capoluogo e nei centri più grandi, sono politiche che surriscaldano il motore della loro crescita senza effetto di trascinamento sulle rispettive aree di influenza. In una programmazione economica e una pianificazione territoriale orientata al riequilibrio va dosato il decentramento non dispersivo di funzioni (economico-produttive e di servizio, anche molto importanti) già esistenti, con l’acquisizione di nuove funzioni e la riqualificazione di quelle non cedute. Occorre cioè un governo delle risorse tale da predisporre un’armatura del territorio policentrica e tendenzialmente non gerarchica non solo a livello regionale, ma anche provinciale.
Controcorrente ho esposto questa concezione più volte in Nuoro oggi fin dalla sua nascita (1988, ma prima anche in altre sedi) a proposito del ruolo da assegnare alla città di Nuoro in rapporto all’effetto negativo che la sua crescita ha avuto (assieme ad altri fattori) sulla crisi di molti comuni della sua area d’influenza. Ma a dispetto di ripetute e impotenti promesse di ravvedimento, ancora oggi a Nuoro non sembra sconfitto il partito pervasivo della “sindrome metropolitana”, che è anche un partito blocchettaro e ad alto consumo territoriale; e altri capoluoghi e centri rampanti della Sardegna avanzano, in concorrenza, progetti di crescita vampiresca a danno delle realtà più deboli.
Una politica di riequilibrio non ha fondamento se non smaschera la favola secondo cui lo sviluppo dei centri guida coincide con lo sviluppo o è la premessa allo sviluppo dei piccoli comuni. E non si tratta di contrapporre la “città” alla “campagna”. Anche perché col passare dei decenni la seconda è finita per assomigliare alla prima assumendo le caratteristiche di una “periferia metropolitana” emarginata, subalterna, povera e moribonda.
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* Gonario Francesco Sedda, su Democraziaoggi
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