Giovanni Campus. L’opera in processo come misura di tutte le cose

GIOVANNI CAMUS CDEPLANO 3
Carla Deplanodi Carla Deplano

L’addomesticamento del tempo e dello spazio, comune a tutte le culture, costituisce il fatto umano per eccellenza. La rappresentazione del tempo, come imprescindibile attività di significazione, deriva dalla capacità umana di stabilire nessi tra le cose.
Nella quotidianità condividiamo un’immagine del tempo qualitativa, spazializzata, densa di contenuti e psicologicamente connotata. Come dimensione costitutiva dell’esperienza individuale e della vita di ogni società, il tempo deve necessariamente conciliare l’inesorabilità del mutamento con le esigenze di conservazione, stabilità, regolarità e prevedibilità.
Nella misura dello spazio attraverso rappresentazioni individuali e collettive, mentali e materiali, Giovanni Campus esprime questa ben precisa volontà antropologica: la necessità della conservazione, ovvero del riconoscimento della costanza di una determinata proprietà (come distanza, volume, dimensione, texture) attraverso la riflessione sulla specificità fisica e culturale dei luoghi. Il concetto della conservazione appare sotteso alla creazione totale dove ogni momento, pur essendo il risultato di tutti i momenti precedenti, è assolutamente nuovo e cangiante.
Nella sua ricerca artistica, Campus opera un processo di riduzione analitica della realtà che passa dall’enfasi sull’oggettualità e la fisicità dell’opera alla semplificazione delle strutture elementari geometriche. I suoi lavori sono costituiti da grandi volumi, unità primarie, forme cubiche, rettangoli e parallelepidi, elementi organizzati in strutture aperte e sequenze seriali con echi che rimandano direttamente al monolite-prototipo di Kubrik.
La sua arte è una forma di comunicazione concreta e potente che comprende l’opera, l’artista e il pubblico, dove la creazione estetica trascende il prodotto finale e l’opera incorpora lo stesso processo creativo.
Il valore psico-antropologico si rivela nel coinvolgimento attivo degli spettatori, esplicitamente sollecitati in una comunicazione ermeneutica virtuosa di compartecipazione e condivisione che consente di calarsi nel profondo dell’artista e della sua visione, per apprendere qualcosa sull’uomo e sulla sua relazione col mondo.
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La trasformazione-rappresentazione estetica traduce una visione metaforica e allo stesso tempo tangibile dell’esperienza: quella trasformazione simbolica che è alla base dell’universalità semantica del linguaggio umano e che offre al creatore, come agli stessi fruitori, delle realtà alternative e la possibilità di plasmare l’universo quotidiano.
L’esigenza antropologica di comprensione del mondo nasce dall’anelito ad un’armoniosa interazione tra l’uomo e una natura totalizzante. La potenza della comunicazione estetica trascende l’intenzione originaria dell’artista per manifestarsi nella ri-creazione da parte del fruitore, che viene chiamato ad attivare le potenzialità simboliche presenti nell’opera.
La forma abbraccia lo spazio e suggerisce l’idea del vuoto: di uno stato d’animo o di un’emozione, mentre i neuroni-specchio giocano il loro ruolo fondamentale all’interno della percezione cinetico-motoria degli spostamenti di artista e fruitori per completamento amodale in un continuum tra opere, installazioni, spazi interni ed esterni, che rimanda ad un campo totale di riflessione sull’uomo e sull’esistenza.
Nella sua dimensione introspettiva la forma si fa non-forma, non luogo; il vuoto diventa campo di energia e la materia nodo di tale energia; l’opera configura uno spazio di verifica, indagine e meditazione: un luogo mentale e matematico di proiezioni razionali e oniriche che trascendono le forme della natura e mostrano anche ciò che va oltre la comune esperienza sensoriale. Nella dimensione dilatata del divenire e della processualità, metafora della natura effimera dello spazio della vita contemporanea, viene svelato anche ciò che non è visibile: il non detto. La variabilità poliedrica della forma, concepita di volta in volta come opera aperta, sottolinea l’illusione e l’artificialità di qualunque tentativo di imbrigliare la dimensione spazio-temporale all’interno delle statiche coordinate euclidee: panta rei.
L’opera in processo attiva la memoria, che viene a coincidere con lo stesso divenire. Condensa e mette in forma un insieme eterogeneo di citazioni geometriche e antropologiche; un magma psichico, originariamente informe, che assimila molteplici stimoli esterni per trasporli direttamente nell’opera secondo un’azione catartica di mutuo rimando.
L’arte, così, finisce per fornire input e feed-back in molti tempi e spazi circa il nostro vivere quotidiano. Il tempo entra come durata reale nell’opera, dove l’esperienza esistenziale si trasforma ed insieme permane nel ricordo, in una compenetrazione caleidoscopica di passato e presente che conserva tutto di sé e lascia una traccia tangibile della propria transitorietà.
Nell’opera in processo la vastità esterna all’artista – che è cognizione totalizzante del mondo inteso da chi lo sperimenta come continuazione di sé -diventa lo specchio con cui indagare la vastità interiore ed approdare ad una sorta di pre-conoscenza: un’anticipazione dell’infinito che nella sua essenza rimanda direttamente a Schlegel.
Nell’umanità della Natura e nella naturalità dell’Uomo l’opera si anima con l’uomo e l’uomo si incarna e materializza nell’opera. Avvertiamo, qui, tutto l’eco platonico di una concezione dell’Universo basata sulle assonanze tra l’Uomo (microcosmo interiore) e la Natura-Universo (macrocosmo esteriore).
Il rinnovato legame Uomo-Natura, sorta di regressus ad uterum attivato da processi consci ed inconsci, è espletato attraverso una forma razionale e autodeterminata che ci offre la sensazione di riconnetterci materialmente e in modo trascendentale ad una dimensione archetipica secondo un processo di riappropriazione delle comuni radici antropologiche.
La proiezione dell’Io nella Natura, auto-rappresentazione individuale ed insieme collettiva, assurge ad una dimensione cosmica in una dialettica interno-esterno alimentata da quelle che Jung chiamava rappresentazioni collettive, tese verso la dimensione dell’Infinito e dell’Assoluto.
L’arte a-storica e a-temporale di Campus, fatta di segni primari e simbolici con valore universale liberi di fluire diacronicamente nell’umanità, recupera la memoria storico-naturale come medium con cui dilatare l’orizzonte della percezione di sé ed eternare il proprio essere in uno scambio fenomenologico con l’ambiente, che è informato dell’attualità del presente e delle potenzialità del passato e del futuro.
Il tempo nell’arte è strutturale: in esso si esprimono la profondità temporale e la distanza o la connessione spaziale e sociale tra i gruppi umani. Il tempo infinito dell’arte appartiene alla dimensione interiore, infinitamente estendibile, della coscienza. E’ un tempo che trasforma il ritmo della storia individuale e collettiva in qualcosa di fondamentalmente interiore ed assai lontano dalla percezione positivista di un tempo lineare progressivo e unidirezionale.
L’opera d’arte corrisponde al puro interrogare, sollecita attivamente la coscienza dello spettatore e, provenendo dal passato o dal futuro, libera l’uomo offrendogli la capacità di infuturarsi allentando i legami che lo trattengono nell’esperienza momentanea e contingente.
In fondo, questo fa una cultura: elabora collettivamente un modo simbolico di rispondere alle sollecitazioni ambientali superando le dinamiche di causa-effetto ed esercitando, invece, la libertà all’interno dei pur sempre presenti vincoli.
Il linguaggio minimalista acquista un chiaro valore antropologico che ci consente di viaggiare al di là delle canoniche coordinate spazio-temporali lungo una dimensione proiettiva e speculativa che traduce l’espressione di un sé personale in accordo col sé cosmico.
L’opera, quale linguaggio dell’abitare e proiezione comune diventa campo esperenziale di lettura partecipativa e di progettazione attiva: lo strumento del nostro esserci nel mondo di demartiniana memoria, ovvero il da-sein heideggeriano, come persone dotate di senso in un contesto altrettanto dotato di senso.
La scoperta del sé individuale e del sé cosmico arriva dopo un processo catartico di svuotamento: il vuoto zen è condizione necessaria e sufficiente per essere ri-creati, ovvero riempiti e abbracciati da un nuovo “pieno”.
In questa operazione ritualizzata artista e fruitori completano l’ambiente; la creatività attinge dal caos primordiale per riformulare il cosmo attraverso un’azione catartica che si origina per superare uno stato di tensione psichica. La relazione con l’archetipo è commovente (nel senso latino del termine), perché capace di alimentare nello spettatore una voce interiore che, mediata dall’artista, lavora all’educazione dello spirito.
Il linguaggio tecnico della cultura artefatta interagisce con la natura, modificandola a misura d’uomo. E’ proprio qui, all’interno della relazionalità critica e fenomenica col contesto in perenne divenire processuale, che avviene la messa in forma della natura umanizzata, quale sistema di conoscenza e percettibilità di una dimensione spazio-temporale che condensa i segni indentitari del processo in fieri.
La struttura che se ne ricava, costituita da linee di forza che penetrano uno spazio dinamico, appare strettamente connessa al vissuto ed auspicabilmente capace di contrastare il senso di sradicamento antropologico, di perdita e di vuoto: di dissociazione schizofrenica da Madre Natura.
L’arte di Giovanni Campus s’inserisce, dunque, all’interno di uno spazio transizionale, di mediazione tra mondo esterno e mondo interno e rappresenta uno strumento di materializzazione del simbolico.
L’artista crea dei territori strumentali: prolungamenti di noi stessi dove sia possibile contemplare infinite estensioni del proprio sé (come i sensi, la memoria, l’accessibilità a mondi e dimensioni intime ed altre).
E’ anche un non-luogo, perché capace di raggiungere ovunque persone e informazioni a distanza. Ma diversamente dai non-luoghi, connotati dall’individualismo e dall’assenza di investimento affettivo, l’opera in progresso rappresenta un vero e proprio luogo antropologico: uno spazio significativo di condivisione e incontro, memoria e progettazione, identità e dialogo; un’interiorità che si riverbera in una esteriorità, dentro e fuori le installazioni o le opere in dialogo e in rapporto reciproco.
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