Per contrastare il declino dell’università italiana
di Franco Meloni
Una serie di circostanze concomitanti autorizzano a parlare di declino delle università pubbliche italiane, almeno di una parte di esse, precisamente quelle che non riescono ad adeguarsi alle esigenze dei tempi, a sopravvivere e superare la crisi economica che sconvolge l’Italia e l’Europa (in controtendenza, tra gli esempi positivi citiamo i Politecnici). Indichiamo alcune di queste circostanze: 1) la crescente carenze di risorse, che vedono progressivamente diminuire i trasferimenti statali, compensati molto parzialmente dall’autofinanziamento e dai finanziamenti regionali e dei progetti europei; 2) la perdita generalizzata (salvo eccezioni) di consenso della proposta formativa degli atenei italiani, che subiscono la concorrenza delle università straniere, a cui si aggiunge un calo delle immatricolazioni dovuto a un numero crescente di giovani che non vedono credibili sbocchi lavorativi dei corsi; 3) il fallimento delle diverse riforme (ultima e peggiore quella intestata all’ex ministro Gelmini), le quali non hanno migliorato la situazione ma, al contrario, hanno distratto le università rispetto alle fondamentali missioni dell’insegnamento e della ricerca e reso via via sempre più difficoltosa la pratica di nuove iniziative a favore dei territori (trasferimento tecnologico, long lifelearning); il tutto all’insegna di una crescente e opprimente burocratizzazione delle attività universitarie, che fa il paio con quella delle altre pubbliche amministrazioni. Per queste e altre ragioni l’università italiana vive dunque uno dei momenti di maggiore difficoltà degli ultimi decenni. Le crisi, come quella che stiamo vivendo, sono devastanti, ma certamente superabili, attraverso veri e profondi processi di cambiamento in meglio. Le strade da percorrere per salvarsi sono diverse: una, molto importante è senz’altro quella dell’impegno delle università per la «terza missione», come ben ha argomentato Pietro Greco in numerosi interventi, tra i quali ci piace citare quello pubblicato su l’Unità del 12 marzo 2007, che sotto riportiamo, anche come contributo attualissimo al dibattito in corso in diverse sedi. Per quanto ci riguarda la «terza missione» è una prospettiva di cui siamo convinti da tempo e che abbiamo anche praticato con convinzione nel recente passato nell’esercizio di incarichi universitari, peraltro in perfetta linea con le indicazioni dell’Unione Europea.
L’università italiana si salva solo con la «terza missione». L‘università si proponga coma una «nuova agorà»
di Pietro Greco
Gli inglesi da un paio di decenni la chiamano Third Mission, terza missione, o, Third Stream, terzo flusso. Si riferiscono all’università e alla necessità che essa si dia un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte. La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata. La richiesta è che l’università cambi. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nell’Ottocento, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali. Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in termini molto riduttivi, di semplice «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno un quarto di secolo esistono leggi, come il Bayh-Dole Act, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice. In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati. Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società. In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle «eticamente sensibili». Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale. In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga coma una «nuova agorà», una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso). Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. Sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società». Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercando di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.
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Documentazione pertinente: report della Crui dell’aprile 2012
Per quanto riguarda l’Università di Cagliari le preoccupazioni sulla tenuta finanziaria del suo bilancio nei prossimi anni sono da mettere in connessione soprattutto con gli investimenti in campo edilizio. Non si tratta dei soldi per la realizzazione delle opere di completamento della cittadella di Monserrato (sono disponibili 30 milioni di fonte Fas e altre fonti regionali e della stessa università) quanto di quelli occorrenti per le manutenzioni del crescente numero di stabili e spazi. E’ impensabile inoltre che, almeno allo stato attuale, si trovino sufficienti risorse per le ristrutturazioni di cui necessitano gli edifici universitari del centro storico. Il tutto in presenza del calo delle iscrizioni degli studenti e considerata l’assenza di politiche sostenibili per nuove possibili entrate; al riguardo si registra, per esempio, la mancanza di politiche universitarie neìla formazione continua, che potrebbero portare consistenti benefici finanziari all’ateneo. Come si sa negli USA a partire dagli anni 80 proprio le attività di formazione continua (in gran parte e-learning) consentirono alle università americane di mantenere i livelli di spesa, con riferimento all’occupazione del personale universitario e alle grandi spese edilizie conseguenti alle scelte degli anni del “baby boom”. Perdurando la descritta situazione in fatto di differenziazione delle entrate, considerando del tutto improponibile un aumento della contribuzione studentesca, non resterebbe all’università che vendere rapidamente una parte degli edifici di sua proprietà situati nel centro storico.
Le tre missioni vanno viste come integrate e quindi se l’eccellenza vale per la ricerca e la formazione deve valere anche per la terza missione che deve distinguersi sia per elevati livelli di qualità dei contenuti che per livello elevato del servizio, dei tempi di realizzazione etc. Ridurre la terza missione al ruolo di consulenza e di soluzione di problemi di piccola portata traviserebbe pericolosamente questa funzione.Si tratta di venir incontro alle crescenti aspettative sul ruolo dell’Università da parte del mondo esterno in particolare quello locale. Non va dimenticato inoltre che il ruolo delle Università è anche quello di contribuire alla costruzione di una società della conoscenza che va per lo meno di pari passo a quello dell’economia della conoscenza.
SPINOZA
Bersani: “Se tanti giovani non vanno all’università c’è un problema”. La sveglia
Da un’intervista a Alessandro Fusacchia (consulente MISE)
Quale può essere il ruolo delle università?
Per noi è molto importante che siano imprese di prima generazione. Per quanto riguarda le università, ognuno deve fare la sua parte. Stiamo ricevendo molti riscontri da parte di attori dell’ecosistema che decidono di investire su questo. Sto per partecipare a un incontro in università e non stiamo per fare una presentazione di multinazionali che assumono, ma stiamo dicendo: “qui non vi assume nessuno, siete voi che vi dovete mettere in gioco”. L’importante è far sì che questo paese sviluppi due cose, che poi sono la stessa: il contagio e la contaminazione. Lavoriamo ancora per compartimenti stagni.
Dobbiamo cominciare a permeare la società in maniera orizzontale, a far incontrare persone che appartengono a mondi differenti. Ci stiamo immaginando dei “contamination lab”: l’idea di avere dei posti, aperti 24 ore su 24, dove si possano incontrare gli studenti di ingegneria con quelli di lettere, con gli economisti, gli archeologi e si possano confrontare su questioni alla frontiera tra diverse discipline, di avanguardia, per provare insieme a risolvere i problemi del nostro futuro. Non sono sicuro che venga fuori tutto da un decreto legge, ma sicuramente contribuisce a creare questo ritmo.
Da L’Unione Sarda on line del 18 dicembre 2012
Università italiane, servono 400 milioni
Profumo: “Altrimenti rischiano default”
Allarme rosso per più di metà delle Università italiane, a rischio default se nella legge di stabilità in discussione in Senato non si troveranno 400 milioni. L’allarme lo lancia il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo.
“Sono estremamente preoccupato – dice Profumo – dell’andamento dei lavori in Commissione Bilancio, che sto seguendo personalmente da giorni perché, rispetto ai 400 milioni necessari per il funzionamento e la tenuta complessiva del sistema universitario italiano, la disponibilità dimostrata a oggi è di soli 100 milioni”. Il ministro spiega che questa cifra “è assolutamente insufficiente e finirà con il mandare in default più della metà degli atenei, che non potranno così fare fronte alle spese per il funzionamento”. Una prospettiva “inaccettabile” per Profumo. “Nelle scorse settimane – ricorda – mi sono speso senza riserve illustrando a tutti i livelli istituzionali la reale situazione e le criticità delle università. Bisogna assolutamente scongiurare una simile ipotesi con l’impegno di tutti. L’università italiana – conclude Profumo – è un patrimonio di tutti i cittadini e un’assicurazione per un futuro più sereno e prospero per l’Italia”.
Martedì 18 dicembre 2012 22:23
[...] articoli connessi Aladin, Aladinews, Aladinpensiero, il declino dell'università, Tommaso Ercoli, Unica, [...]
[…] ——— [Nota 1] Perkmann, M., Tartari, V., McKelvey, M., Autio, E., Broström, A., D’Este, Fini, R.,… & Sobrero, M. (2013). Academic engagement and commercialisation: A review of the literature on university–industry relations. Research Policy, 42, 423-442. [Nota 2] Bodas Freitas, I. M., Geuna, A., & Rossi, F. (2013). Finding the right partners: Institutional and personal modes of governance of university–industry interactions. Research Policy, 42, 50-62. [Nota 3] Geuna, A., & Muscio, A. (2009). The governance of university knowledge transfer: A critical review of the literature. Minerva, 47(1), 93-114. [Nota 4] Zomer, A., & Benneworth, P. (2011). The Rise of the University’s Third Mission. In Reform of Higher Education in Europe (pp. 81-101). Sense Publishers. [Nota 5] Relazione Anvur —- Altri interventi in argomento su ALADINEWS […]
[…] – Giuseppe Pulina su SardegnaSoprattutto: “Aboliamo per provincie. Ora sono (quasi) tutti contrari”. – Un condivisibile intervento di Pietro Greco, un propugnatore dello sviluppo della “terza missione” dell’università. L’università e il futuro, in Italia e nel mondo, su http://www.roars.it Un suo intervento ripreso da Aladinews […]
[…] di Pietro Greco, pubblicato per la prima volta su L’Unità il 12 marzo 2007, è stato più volte ripreso da Aladinews per chiarezza espositiva, per le proposte e per lo spirito innovativo che lo pervade. Tutto ciò lo […]
[…] Per correlazione – Università in declino? – – Un po’ di creatività, signori […]