“L’Italia riparte dal lavoro”. Quale Italia? Questa è la domanda che ci poniamo. E la Sardegna?

pigliaru-si-fa-cdarico-181x300L’Italia che non c’è: nel Paese Nord e Sud restano separati da un divario spaventoso.(…) La Sardegna, profondamente segnata dalla crisi, è arretrata sensibilmente rispetto alle ristrette aree avanzate del Sud (Abruzzo e Molise) e alle regioni del Centro, cui si era avvicinata nei principali indicatori del mercato del lavoro, mostrando dalla metà degli anni Novanta un progressivo distacco dai valori rilevati nel resto del Mezzogiorno. Oggi nell’Isola l’occupazione è poca e la disoccupazione è troppa, incombe un impoverimento generale e c’è una povertà estesa e cronica, cui si aggiunge una povertà sconcertante di idee e proposte in quasi tutti gli ambiti più rilevanti, primi fra tutti l’istruzione, la formazione, il lavoro. Le aree di crisi sono immobili, inchiodate ad un destino di assistenza e di attesa, senza nessuna soluzione, nessun cambiamento, nessun investimento di rilievo. Larga parte dei fondi europei continua ad essere clamorosamente sprecata, in particolare le risorse del Fondo Sociale Europeo. Le riforme di cui si sta dibattendo – dagli enti locali alla rete ospedaliera – sono ispirate fondamentalmente a criteri di sostenibilità finanziaria, di contenimento della spesa pubblica, non di sostenibilità sociale e di investimenti, e prefigurano un complessivo arretramento dell’intervento pubblico. Da dove verrà il lavoro?

lilli pruna fbdi Lilli Pruna, sociologa.
13 gennaio 2016 Blog, Lilli Pruna Lavoro che traballa su SardiniaPost.

“L’Italia riparte dal lavoro”, ha esultato Renzi qualche giorno fa, commentando gli ultimi dati resi noti dall’Istat. Quale Italia? Questa sarebbe la domanda da porsi, se esistesse una consapevolezza del divario interno al Paese che il governo Renzi continua a non voler vedere, meno che mai ad affrontare. La nota flash pubblicata dall’Istat il 7 gennaio 2016, con gli ultimi dati mensili (relativi al mese di novembre 2015) sull’occupazione e la disoccupazione in Italia, ha fatto esultare il premier perché non presenta alcun dato sulla situazione del mercato del lavoro a livello territoriale, cioè sulla situazione reale del Paese (o del Paese reale). In Italia qualsiasi dato e indicatore del mercato del lavoro che si riferisca all’intero territorio nazionale non ha alcun senso (se non per confrontarsi con altri Stati, cosa che Renzi si guarda bene dal fare, visto che non gli conviene), perché non corrisponde alla situazione di nessuna parte del Paese e occulta le distanze abissali che dividono il Sud dal Nord (e dal Centro). Parlare dell’Italia come se fosse un paese in cui il lavoro è distribuito più o meno uniformemente su tutto il territorio è una grossolana mistificazione: i dati per cui ha esultato Renzi e tutto il suo governo descrivono un paese che non c’è.
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Bastano pochi esempi per spiegare perché i dati nazionali sul lavoro sono fuorvianti, se non proprio ingannevoli: nel III trimestre 2015 il tasso di occupazione a livello nazionale risultava pari al 56,7 per cento, ma si tratta di un dato medio che deriva da un tasso di occupazione del 65 per cento al Nord e di appena il 43 per cento nel Mezzogiorno. Significa che in una parte del Paese 65 persone su 100 in età lavorativa sono occupate, mentre in un’altra parte dello stesso paese solo 43 su 100 hanno un lavoro. Sono 22 punti percentuali di differenza, che individuano distanze inaudite e inaccettabili all’interno di uno stesso paese, e non consentono proprio di esultare, né di immaginare che l’Italia sia davvero una. Tra il 2008 e il 2014 nelle otto regioni del Nord il tasso di occupazione è sceso di 2,5 punti percentuali (dal 66,9 per cento al 64,3), mentre nelle otto regioni del Sud è crollato di 4,2 punti percentuali partendo da livelli già molto bassi (dal 46 per cento al 41,8). Oltre il 70 per cento del lavoro spazzato via dalla crisi tra il 2008 e il 2014 era al Sud, dove vive il 34 per cento della popolazione italiana ma si concentra quasi la metà dei disoccupati che ci sono nel Paese. Come si fa a dire con tanta leggerezza che l’Italia riparte? Quale Italia sta ripartendo, esattamente?

La Svimez ha descritto e analizzato come sempre in modo preciso e dettagliato il divario tra Nord e Sud. L’ultimo Rapporto 2015 sull’economia del Mezzogiorno è una foto dolorosa della catastrofe del nostro Sud, dopo sette anni ininterrotti di recessione e settant’anni di Repubblica, come ha sottolineato Marco Damilano in una bella inchiesta pubblicata da L’Espresso a settembre. Proprio il mercato del lavoro è l’ambito in cui si osserva il più ampio allargamento del divario tra Nord e Sud: dal 2001 oltre mezzo milione di giovani è andato via, la poca occupazione giovanile è stata decimata dalla crisi assai più che al Nord, mentre la disoccupazione dei giovani si mantiene da anni su livelli elevatissimi (nel 2014 ha toccato quasi il 56 per cento contro meno del 33 per cento nel Nord). L’occupazione complessiva nel Mezzogiorno è diminuita al punto che nel 2014 ha segnato il valore più basso dal 1977, quasi quarant’anni fa, e i lievi incrementi degli ultimi mesi non consentono alle persone serie nessuna esultanza. Tutto il Mezzogiorno è governato dal Partito democratico, ma gli otto presidenti del PD delle regioni del nostro Sud hanno poco da esultare, lo avranno spiegato a Renzi?

La Sardegna, profondamente segnata dalla crisi, è arretrata sensibilmente rispetto alle ristrette aree avanzate del Sud (Abruzzo e Molise) e alle regioni del Centro, cui si era avvicinata nei principali indicatori del mercato del lavoro, mostrando dalla metà degli anni Novanta un progressivo distacco dai valori rilevati nel resto del Mezzogiorno. Oggi nell’Isola l’occupazione è poca e la disoccupazione è troppa, incombe un impoverimento generale e c’è una povertà estesa e cronica, cui si aggiunge una povertà sconcertante di idee e proposte in quasi tutti gli ambiti più rilevanti, primi fra tutti l’istruzione, la formazione, il lavoro. Le aree di crisi sono immobili, inchiodate ad un destino di assistenza e di attesa, senza nessuna soluzione, nessun cambiamento, nessun investimento di rilievo. Larga parte dei fondi europei continua ad essere clamorosamente sprecata, in particolare le risorse del Fondo Sociale Europeo. Le riforme di cui si sta dibattendo – dagli enti locali alla rete ospedaliera – sono ispirate fondamentalmente a criteri di sostenibilità finanziaria, di contenimento della spesa pubblica, non di sostenibilità sociale e di investimenti, e prefigurano un complessivo arretramento dell’intervento pubblico. Da dove verrà il lavoro?

Lilli Pruna

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