Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
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Come anticipato ieri pubblichiamo un saggio di Aldo Cappai su Sinnai, di cui è concittadino. Lo facciamo non solo per il pregio delle informazioni e analisi contenute, che hanno valore in sé e per le considerazioni che fa l’Autore nell’introduzione, ma anche per contribuire alla creazione della “città metropolitana di Cagliari”, che ha senso solo se realizzata con e per la valorizzazione di tutte le realtà che la dovranno comporre, della loro identità, della loro storia, del riconoscimento del ruolo e dell’importanza… nell’area vasta e in Sardegna (la macroarea Isola di Sardegna, come la chiama Aldo).
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Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
di Aldo Cappai
Introduzione
Questo lavoro vuole essere un contributo personale alla ricerca su Sinnai e la sua realtà socioeconomica e culturale, nell’ambito del filone di studi definiti microstoria, incentrati sull’analisi dell’evolversi dei processi storici nelle realtà comunitarie locali al di dentro della macroarea Isola di Sardegna.
La riflessione vuole evidenziare, in primis, come sino alla metà del secolo ventesimo i processi di sviluppo siano stati, nella comunità Sinnaese ed in
quelle delle altre realtà sarde agropastorali, con particolare riferimento a quelle dell’interno, essenzialmente caratterizzati da immobilismo, da stagnazioni o, meglio, da sedimentazioni millenarie. In questo contesto verrà focalizzato il ruolo sociale della figura economica dominante, il pastore sardo, il peculiare sviluppo della comunità sinnaese ed uno spaccato della vita sarda al 1863, appena due anni dopo l’unità d’Italia. Si tratterà, quindi, dei forti processi di crescita che hanno trasformato radicalmente la nostra comunità negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale, ponendo infine le basi per stimolare un nuovo processo di riflessione su una società frutto della globalizzazione dei processi di produzione e di scambi sviluppatisi in maniera così veloce ed improvvisa da indurre un attento pensatore contemporaneo a vederla come vita liquida.
Per la stesura della relazione odierna mi sono state d’ausilio alcune pubblicazioni di nostri concittadini che ho trovato raccolte nei miei scaffali, ancora non riordinati.
- Figura 1 foto del menhir, pubblicata nel volume Sa festa de tunditroxi, commedia in lingua dardo di Don Giovanni Cadeddu. La pietra fitta è simbolo fallico e la V nella parte alta riandai alla sessualità femminile.
I millenni bui della società sarda
I Menhir rappresentano la divinità dei primi popoli che hanno vissuto in Sardegna: una divinità contenente in sé il principio dell’Essere, sia maschile che femminile. Sono simbolo di un periodo che, ab immemore, e sino alla prima metà del secolo scorso, ha caratterizzato la storia della nostra comunità nella sua sostanziale stabilità di mezzi di produzione, di attività economiche, di cultura e di rapporti sociali.
Tracce salienti e significative della rappresentazione della divinità per mezzo di elementi litici e lignei hanno caratterizzato anche le antiche civiltà del mediooriente e quelle mediterranee che si basavano sulla caccia e sulla pastorizia, prima, e sulla agricoltura, poi.
Ma, mentre già da diversi secoli prima di Cristo il popolo ebraico viveva l’esperienza religiosa del monoteismo, in Sardegna il rapporto diretto tra elementi naturali e divinità perdura: ancora nella seconda metà del VI secolo dopo Cristo, il Papa Gregorio Magno definisce i Barbaricini come uomini, che «ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna et lapides adorent»[1] (vivono come animali privi di intelligenza, senza riconoscere il vero Dio ed anzi rappresentandolo nelle pietre e negli alberi).
Il dominio delle diverse civiltà che nei secoli hanno colonizzato le popolazioni sarde ha comportato, sostanzialmente, l’esclusione radicale delle stesse dai processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale: le attività produttive nei settori dell’allevamento, caratterizzati dalla pastorizia allo stato brado e transumante, quelle del settore agricolo, ancora retto da strumenti di produzione e tecniche colturali primitive, i diversi ed insopportabili prelievi imposti dai diversi dominatori accompagnati dall’assenza di adeguate vie di comunicazione e dalle ferree regole di ordine pubblico che costringevano le popolazioni ad una forzata immobilità, hanno comportato una solidificazione delle diverse realtà, specie culturali, i cui contenuti e valori venivano ancora elaborati, trasmessi e conservati in modo quasi esclusivamente orale.
Figura 2: Lazzaro Perra di Sinnai e il suo giogo di buoi con aratro in legno, 1920.
È il caso delle testimonianze musicali e poetiche che possiamo ritrovare nell’utilizzo, ancora oggi presente, delle launeddas, della poesia estemporanea, dei canti religiosi, delle pregadorias e delle filastrocche.
Le città vivevano una vita radicalmente isolata e impermeabile alla campagna che ad esse (ed ai diversi dominatori che vi si sono insediati), era asservita. Bisogna comunque ricordare che Sinnai rappresenta, per certi aspetti un’ eccezione (che merita di essere approfondita), dovuta alla permanenza o alla frequentazione nel tempo di diversi esponenti cittadini delle classi nobiliari e borghesi cagliaritane, per motivi legati al suo clima salubre (dovuto fondamentalmente alla presenza di acque salutari ed alla scarsa presenza delle zanzare, portatrici della malaria).
Uno spaccato dell’isola al 1863: la relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro .
Uno spaccato dell’isola al 1863, si trova nella relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi.
«La relazione trae spunto dalla ridotta leva sarda, a causa dell’alto numero di rivedibili e di “scartati”. Il Prefetto Torre, preciso funzionario, non si accontentava di indicare sommariamente le cifre e a descrivere per sommi capi le cause, ma tentò di spiegare i motivi della cattiva salute, di quel “penoso spettacolo sulla struttura e condizione fisiologica” dei giovani sardi. Di più, egli descrisse le generali condizioni degli abitanti dell’isola e i loro costumi “barbari”. Il suo punto di vista, in alcuni tratti, somiglia a quello di un colonizzatore: si chiedeva, infatti, se, come era uso degli antichi romani, non fosse auspicabile la deportazione di detenuti in Sardegna, che avrebbe comportato il doppio vantaggio di “purgar la penisola e rifornir l’isola” di un maggiore incremento demografico e di una più solida e robusta costituzione fisica. Anche il clima e il territorio venivano chiamati in causa: analogamente al caso dell’agro romano, si riteneva infatti che molte delle malattie a cui gli abitanti dell’isola erano esposti, dipendessero da elementi che la medicina, solo dopo molti decenni, avrebbe depennato come cause di malattie. Addirittura il prefetto riteneva che anche i fichi d’india fossero frutti “di provata malsania”».
Il prioritario interesse dello Stato Unitario alla leva militare
A seguito del commento sopra riportato e ritrovato nel sito del Ministero degli Interni alcuni anni fa, riprendo una selezione delle dirette considerazioni scritte dal Prefetto Torre:
«E per entrare in materia ( verifica iscritti alla leva militare), lo scrivente ha dunque l’onore di esporre a codesto Ministero che il totale degli iscritti ascendeva a N. 4282, e che la precisa metà di questi, computati i rivedibili (perché avviene, massime in Sardegna, che rade volte un rivedibile sia negli anni o nell’anno appresso trovato buono) sono stati riformati e trovati rivedibili al N. 2140. E per venire ai motivi delle riforme e rivedibilità, si desume dagli elenchi avuti che i riformati per difetto di statura ascendono al N. 878, ossia a poco meno di un quarto della somma totale degli Inscritti, che i riformati per malattie diverse salgono a N. 793, ossia a più che la quinta parte del totale, e che i rivedibili sono stati N. 649, ossia il nono del complesso».
Figura 3 foto di due panificatrici di Sinnai negli anni ’50. Tratta dall’archivio digitale della Regione Autonoma della Sardegna.
L’alimentazione dei Sardi
Tra le cause, il Prefetto Garibaldino ricorda tra l’altro che «il cibo, quello del basso popolo, che è la gran generalità, è piuttosto ferino che umano, perché, massime nei luoghi montuosi, in difetto di grani, perché anche non ne seminano, si nutrono in inverno con erbe crude e scondite, o con carni di pecora, capra o bue appena rosolate sulle bragie e ancora sanguinolenti, ed in estate vivono per intere settimane di semplici frutti, come fave verdi, fichi, pesche, uva, pere, prugne, ecc. e, quel che è peggio, inghiottiscono con barbara avidità una quantità enorme del frutto di un Cactus detto Fico d’India, e qui appellato Da Figu Morisca, frutto di provata malsania ma che è facile ad aversi per nulla, perché nasce e matura spontaneo per le colline e per le sponde dei campi. Da ciò diarree, dissenterie, coliche, febbri, e le madri che allattano e che porgono ai neonati una sostanza formata con simili perniciosi ingredienti, inoculano, senza avvedersene, nei loro bambini, per lo più la morte, e in quei pochi che sopravvivono innestano la cachessia, la denutrizione, il marasmo».
- segue -
L’economia pastorale nell’interno dell’isola
Una preziosissima testimonianza sul perdurare, ancora nella metà degli anni ‘70, nella realtà sarda, dei valori tradizionali del mondo pastorale, ho avuto recentemente modo di scoprirla, dopo anni di ricerca, pubblicata dalla rivista «Ethos» nel 1976, e conservata presso la biblioteca della St. John’s University, Jamaica, New York.
Elizabeth Mathias, emerita professoressa di antropologia presso la suddetta università statunitense, condusse sul campo uno studio in sei paesi del centro Sardegna e nei loro dintorni, dal mese di Dicembre 1973 fino alla fine del mese di Gennaio 1974, e dal mese di maggio al mese di Agosto 1975. In occasione della mia permanenza, quegli anni, in Ogliastra, per motivi di lavoro, seppi della sua presenza e delle sue ricerche, restandone incuriosito.
Ospite nel paese di Esterzili ed in altre comunità della Barbagia di Seulo, l’antropologa statunitense analizzò i modelli socioculturali e di vita dei pastori del centro Sardegna e i loro valori esistenziali di maggior interesse trasfusi nei canti estemporanei e nella poesia.
In queste aree sono ancora oggi molto vive le gare di abilità rappresentate dai giochi Sa murra e Is Istrumpas (lotte libere).
Nel suo saggio (gentilmente tradotto da Teresa Amucano, funzionaria della Provincia di Cagliari) fece un’analisi dei modelli che hanno caratterizzato almeno sino agli anni 50 anche la realtà Sinnaese, e che ritengo di sicuro interesse per le future generazioni, che non hanno vissuto in prima persona tali esperienze e che in esse possono riconoscersi per ritrovare le loro radici da cui trarre una linfa perenne per la costruzione del loro futuro. Analisi che, perciò, voglio riproporre con citazioni dirette.
L’autrice si intrattiene inizialmente a descrivere l’economia agropastorale della regione, «basata sull’allevamento di pecore, capre o, più raramente, bovini e agricoltura su piccola scala. I pastori sono transumanti. Sia in inverno sia in estate, comunque, le zone di pascolo sono generalmente abbastanza vicine ai paesi da permettere agli uomini di tornare a casa per un giorno o due ogni due o tre giorni. Generalmente gli uomini fanno a turno per rimanere col bestiame e tornare a casa. La pastorizia è attività esclusivamente maschile, e i prodotti, formaggio, latte e carne, vengono lavorati nell’ovile, area di campagna dove vengono costruite le capanne dei pastori e dove si fa la mungitura e la tosatura del bestiame. La maggior parte dei pastori considerano la loro vita molto difficile a causa delle numerose pressioni e minacce che essi si trovano ad affrontare. Le loro preoccupazioni costanti sono quelle riguardanti i prezzi del formaggio e della lana, il tempo inclemente della stagione invernale che devono sopportare notte e giorno, gli animali predatori come le volpi e i cani randagi che minacciano in continuazione gli animali e i pastori provenienti da pascoli di altre zone che uccidono e mutilano il bestiame o danno fuoco ai pascoli per gelosia o per vendetta. Di fronte a queste minacce gli uomini spesso si riuniscono in piccoli gruppi per far la guardia e collaborare nei periodi di maggior lavoro, come in occasione della tosatura e della marchiatura del bestiame»[2].
In questo contesto l’antropologa Mathias Elizabeth inserisce poi, sapientemente tratteggiandola, la figura del pastore e della società cui apparteneva, facendo riemergere e rivivere quei personaggi, quei racconti, quelle esperienze umane e quei valori, in cui anche la mia generazione ha fatto in tempo a riconoscersi.
Il pastore sardo: una analisi antropologica
«(…) Un aspetto importante del lavoro di gruppo dei pastori è il fatto che esso è sessualmente segregato. Il gruppo di lavoro forma una società esclusivamente maschile nella quale gli uomini trascorrono lunghe ore in isolamento e si riuniscono per lavoro o per passare il tempo. In questa società agropastorale le donne non si occupano mai delle attività legate al bestiame, ma di quelle, per così dire, complementari. Le donne si occupano di commerciare i prodotti animali una volta che questi vengono portati in paese. Le donne conservano il formaggio, girando le forme ogni giorno durante la fase di stagionatura. Può essere richiesto il loro aiuto per pulire e cardare la lana, sebbene negli ultimi anni molti pastori conservino la lana grezza subito dopo la tosatura per poi venderla ai commercianti. Il lavoro delle donne è lungo e pesante; sono le uniche responsabili della cura degli orti e delle vigne che si trovano sovente a chilometri dai paesi, in zone dove l’acqua è molto scarsa. Le donne devono anche raccogliere la legna per riscaldare la casa e per cucinare, devono portare l’acqua, occuparsi degli animali domestici e dei bambini. Nella società sarda esistono un mondo maschile e uno femminile che sono nettamente separati sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto riguarda le attività “ricreative”. Gli uomini cercano uno status e un certo benessere sociale entro i confini del gruppo maschile e questo sistema, in cui si è generato un complesso di atteggiamenti e valori maschili, potrebbe essere definito in modo preciso come una subcultura unicamente maschile all’interno del sistema dei paesi della Sardegna»[3].
Il pastore e la balentìa
Figura 4: foto di pastori di Sinnai in località Sa Spragaxa. Foto premiata e pubblicata il 05.02.2009 sul Corriere della Sera.
«Il pastore sardo, il balente, deve stare sempre in guardia per mantenere il pieno controllo della sua vita. La balentìa è vista come virtù che consente all’uomo di restare soggetto in un mondo implacabile nel quale esistere è resistere ad un destino sempre avverso, nell’unico modo in cui può essere fatto: salvando se non altro la propria dignità e quella della sua famiglia»[4].
Ed ancora: «Il tema della Gara Poetica, quando prende spunto da un fatto corrente o da un avvenimento del giorno prima o di settimane, mesi, anni prima, esprime invariabilmente gli interessi principali dei pastori, e uno di questi è sempre quello della virilità e dell’onore (in italiano, nel testo – n.d.t.). Gli elementi integranti di questo concetto sono numerosi e in relazione uno con l’altro e, come vedremo, sono strettamente legati al comportamento di un uomo nei confronti degli altri uomini e delle donne del suo gruppo sociale, al concetto che lui ha di se stesso e di quello che gli altri pensano di lui. Innanzi tutto, per mantenere il suo onore, un uomo deve sempre dimostrare di avere il pieno controllo di sé e delle circostanze. Per avere onore il pastore deve dimostrare riservatezza. Non deve mai apparire turbato da una situazione o in qualche modo insicuro; deve avere perseveranza, capacità di scegliere un obiettivo e perseguirlo ostinatamente finché non lo ottiene. Deve essere un uomo di parola, uno che mantiene sempre le promesse. Deve essere scaltro, intelligente e di poche parole; ma deve riuscire a persuadere gli altri, sia suoi pari sia persone più autorevoli, dei suoi diritti e deve riuscire a zittire gli altri quando sono in ballo i suoi interessi personali. Molti dei principali rischi per la capacità di controllo sono legati alla sua posizione di produttore di beni in un ambiente naturale ostile e alla posizione socialmente ed economicamente subordinata. Altri rischi sono legati alle relazioni con la sua famiglia, in particolare quelle con le donne, dalle quali vive separato per molto tempo e il cui comportamento, tuttavia, deve essere soggetto al suo controllo»[5].
«(…) Il pastore sardo si muove in un sistema in cui egli ha un potere limitato sugli eventi che influenzano il suo futuro e in cui è costantemente minacciato da forze esterne alla cerchia in cui lavora e alla famiglia(…). Una di queste minacce scaturisce proprio da quella polarità, socialmente sancita, tra le attività maschili e femminili, non solo quelle attinenti al lavoro, ma anche al tempo libero. Perfino nell’ambito dei rapporti familiari, il pastore si sente spesso minacciato da una mancanza di fiducia che proviene dalla sua famiglia così come dalla segregazione sessuale che pervade tutte le interazioni quotidiane. Egli deve lottare continuamente per la sopravvivenza economica in un mercato soggetto a vaste fluttuazioni che egli può controllare per nulla o solo in minima parte; si trova a lottare costantemente contro un ambiente estremamente duro . Il pastore lavora con il suo gregge e fornisce la famiglia di carne e prodotti caseari mentre la moglie e le figlie lavorano nell’orto e nella vigna e forniscono i prodotti ortofrutticoli. Egli dipende, in parte, dal lavoro delle donne della famiglia»[6].
«(…)Il contesto sociale del pastore va da un estremo all’altro. Il lavoro con il gregge è in prevalenza solitario; deve passare lunghe ore e, qualche volta, interi giorni, senza altra compagnia che non sia quella dei suoi cani o del suo gregge. Allo stesso tempo, egli deve trascorrere lunghe ore insieme ad altri uomini e deve esse capace di lavorare con loro in modo costruttivo. Inoltre, poiché ogni pastore è, nel suo piccolo, un uomo d’affari, si trova spesso a interagire con le autorità ufficiali quando si tratta di registrare il suo gregge, di far valere i suoi diritti sui terreni da pascolo quando sorgono conflitti con altri pastori. Inoltre, come già si è visto, deve far fronte al problema del controllo del comportamento degli altri membri della sua famiglia, dalla quale è spesso lontano. Il sistema di valori del pastore esige che egli dimostri di avere sempre il pieno controllo di sé in ogni circostanza, quando è solo e quando è col gruppo, quando interagisce con i superiori e quando svolge il suo ruolo di marito e capofamiglia (…)» [7].
Il pastore e l’onore
«Proprio sulla capacità di controllo delle sue donne si fonda gran parte dell’onore del pastore sardo. E’ oggetto di particolare ammirazione colui che dimostra di avere pieno controllo sulle sue donne. Deve dare l’immagine di uomo virile, che soddisfa i suoi desideri con le donne e, allo stesso tempo, soddisfa quelli della sua donna in modo tale che questa non sfuggirà mai al suo controllo. Quest’ultimo punto è di fondamentale importanza per l’onore, così come è visto dal pastore. La maggior parte dei pastori sardi considerano le donne deboli, cocciute e pronte (così come le pecore del gregge) a cedere alle lusinghe di qualsiasi uomo. Questa idea della donna, vista come una pecora che si lascia facilmente trasportare, si ritrova ovviamente nelle espressioni quotidiane che fanno riferimento alle donne. Per esempio, una delle espressioni che mi è capitato spesso di sentire tra gli uomini è: “I preti pascolano le donne” e “le donne sono capre con due zampe”»[8].
Il peculiare processo di sviluppo della comunità sinnaese
Il raffronto tra questa esperienza e quella che noi abbiamo conosciuto ancora negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso ci permette di osservare come, a fronte di una realtà socioeconomica radicalmente trasformatasi per l’emergere di un’economia agricola che tende ad accompagnarsi ed in parte a sostituirsi a quella pastorale, la cultura di matrice pastorale tenda invece, a mantenersi vitale.
In sintesi il peculiare processo di sviluppo della comunità sinnaese può essere così descritto:

- A Sinnai l’economia pastorale è stata egemone nel tempo e Sinnai era rinomata come s’Orgosulu de Campidanu e, cattivo augurio, era quello di essere minacciati da leppa sinniesa.
- Per lungo tempo, sino al seicento, quando fu rifondata Burcei, ed all’ottocento, periodo in cui fu rifondata Villasimius, i pastori sinnaesi hanno controllato il loro territorio che arrivava sino a San Priamo, dove dirimpetto stavano due collinette chiamate, quella vicino a Sinnai, Monti Acutzu Sinniesu e, quella più distante, Monti Acutzu Sarrabesu. Il Consiglio Comunitativo di Sinnai, più volte, denunciò alla Reale Udienza l’aggressività dei pastori ogliastrini ed in particolare villagrandesi le cui greggi si spostavano nella transumanza sino a Castiadas e Crabonaxa (oggi Villasimius).
- Essi hanno altresì salvaguardato, custodito e difeso i pascoli montani e collinari del loro territorio, e soggetti inizialmente a transumanza; tali aree hanno conservato i toponimi delle comunità da cui provenivano i pastori barbaricini e ogliastrini che vi pascolavano : baccu gairesu, vicino a monte Genis; arcu seuesu, is orgolesus vicino a Burcei; Lanusei, in Mont”e Pauli, e rio Gavoi, nella marina dell’isola amministrativa di Solanas).
- La comunità è riuscita, già alcuni secoli fa[9], a far riconoscere a suo favore l’istituto giuridico della cussorgia escludendo dal pascolo e dall’esercizio degli usi ademprivili (usi civici) non solo i pastori transumanti che stanziavano nelle montagne di Sinnai, ma anche gli abitanti dei comuni contermini che furono esclusi dalla fruizione a pascolo dei loro stessi territori.
- Sono restate fino ad oggi parte integrante della nostra cultura alcune tradizioni come quella dei Xerbus, a carnevale, che vedeva la partecipazione generalizzata della gente all’allegorica caccia del misterioso e superbo animale, evocando il mito dell’uomo che da cacciatore si trasforma in pastore quando riesce a catturare ed addomesticare gli erbivori selvatici che costituiscono la più preziosa riserva di cibo per la famiglia e per il gruppo.
- Anche le diverse filastrocche che abbiamo imparato da bambini evocano questo mondo pastorale ancestrale: su Bibiu Cambulu, che ci riporta alle montagne di Su Tuncu de s’Enna Manna e di su Piroi; quella del Béh, mamma non c’è, che, al di dentro del filone mediterraneo evocato nella favola il lupo e l’agnello, vede protagonisti s’angionedda ed il cattivo marrucciu; quella del Titìa Titìa, recitata nelle gelide giornate invernali, che, col suono di una campanella, entra in comunicazione col monte crubettu de nì e cilixìa, e così via.
L’identità pastorale, lentamente, almeno in parte e solo per certi aspetti tende a ridimensionarsi: le gare poetiche, ad esempio, dal ‘700 in poi vengono generalmente disputate con i poeti dei comuni agricoli viciniori del basso Campidano[10].
Ulteriore conferma di tale trasformazione culturale viene data dalle composizioni presenti in diverse opere letterarie di autori Sinnaesi quali in Su tempus de is Nannais di Fanny Cocco; in Su fermentu. Po sa poesia sarda, che raccoglie le opere premiate a Sinnai nel 1989-1994; nella commedia in versus sardus Sa festa de Tundidroxiu di Giuanni Cadeddu ed infine ne Il ritorno, Boicu e altre storie di Romano Asuni di recente pubblicazione anche come ebook[11].
In questi racconti la società pastorale è guardata dall’esterno, viene mitizzata e vengono evidenziati momenti bucolici: non sono più i pastori che nell’ovile, nella loro primaria cellula di produzione di vita e di cultura, trasmettono da padre in figlio i loro valori attraverso il canto e le gare poetiche, per poi trasferirle ai palchi durante i diversi festeggiamenti nelle diverse comunità.
I nuovi cantori nascono nelle botteghe artigiane (sobatteris, maistus de pannu, barbitonsori etc.), nelle cantine private e nei tzilleris, dove si socializza nei momenti di pausa e di svago, come espressione di una nuova cultura a matrice agricola. Infatti, attorno al secolo XVII, l’economia prevalentemente pastorale lascia il posto a quella dell’agricoltura, e questo per il contemporaneo verificarsi della riduzione dei terreni montani a pascolo e per l’incremento dei terreni pianeggianti e fertili, utilizzati per l’agricoltura. E’ a seguito di consistenti compravendite nel territorio comunale di Maracalagonis che si trova attestata, nei censimenti del 700, una proprietà di aree di cittadini di Sinnaesi pari ai 2/3 di quella totale.
Sinnai, gli anni 50, Pedr’ ‘e sali ed il primo sindaco comunista
Riavvicinandoci nel tempo mi sembra interessante riprodurre alcuni brevi stralci di un racconto in sardo, dal titolo Pedr’ ‘e Sali, del nostro concittadino Bruno Pilleri , recentemente premiato.
In esso si ritrova la descrizione dei primi lavori di operai salariati di Sinnai, che abbandonano o integrano il lavoro dei campi o dell’allevamento con quelli dell’industria, in particolare di quella della produzione di sale, recandosi alle saline in bicicletta.
«Mi seu regordàu de candu babbu miu fiat su “salinèri e toccàt’a andai finzas a Macchiareddu, prus allargu de su Pont’e sa Scafa, inizia l’autore e prosegue ricordando quando il padre rientrava a Sinnai cun d’una pedr’’e Sali”: “…………(fiant pedras ki pesant finzas noi o desci kilus, e issus ddas ponianta in su portapaccus de sa bicicretta e nce ddas traganta a bidda)».
Sono i primi anni del dopoguerra che vedono la formazione delle prime cooperative rosse e del P.C.I, oltre che l’elezione del primo sindaco comunista, nella persona del sarto Eliseo Frau.
Dopo la guerra, «cun calanc’un’atru cumpangiu, hiant obetu in bidda sa sezioni de su partidu comunista; in cuss’ora is comunistas fiant castiaus mali prus de imoi, e su Papa ddus hiat finzas scuminigaus».
Vengono descritte le modalità di lavorazione del sale, sino ad allora effettuate dai carcerati o attraverso is cumandaras (che consistevano nella prestazione di alcune giornate di lavoro a favore del Comune o dello Stato, in alternativa alle imposte), e l’organizzazione del lavoro gestito da cooperative facili al fallimento in realtà come quella sarda caratterizzata da una cultura agricola e pastorale fondata sull’individualismo, come sopra ricordato.
Diverse produzioni industriali timidamente coinvolgono Sinnai: l’edilizia diventa prevalente nel suo operare per la ricostruzione di Cagliari dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale ed ad essa si affianca, subito dopo, il sogno della Rinascita ed il lavoro nell’industria petrolchimica.
È questo il periodo dei grandi mutamenti sociali. Anche a Sinnai compaiono i primi veicoli, le prime macchine agricole, i primi televisori[12].Ma i sogni svaniscono e la Sardegna, ed in particolare l’area metropolitana di Cagliari, si ritrova inserita in un processo di superamento delle attività agropastorali che, saltando a piè pari la fase della presenza di un’economia industriale ( propria dello sviluppo capitalistico europeo), vede subentrare il terziario.
Il passaggio alla modernità, ed in particolare il periodo che va dal 1950 ai primi anni del 2000, vengono analizzati con dovizia di dati statistici, acutezza nell’analisi socio economica e culturale e perspicacia nell’individuazione di possibili priorità da includere nell’agenda della classe politica, dal dottor Andrea Zedda nella sua tesi di laurea in Scienze Politiche sostenuta nel 2005.
Figura 6: diagramma dell’andamento percentuale dei lavoratori attivi nei tre settori dal 1951 al 2001.
Ad essa rimando per una più attenta analisi limitandomi in questa sede ai seguenti appunti:
Il tasso di attività femminile ha fatto registrare dal 1951 al 2001 una portentosa crescita passando dal 6 ad oltre il 30%. Il settore terziario nel 2001 è in assoluto quello prevalente: assorbe il 70% totale degli attivi.
La superficie agricola totale (SAU) si è ridotta negli ultimi 50 anni quasi di due terzi. L’allevamento degli ovini si è ridotto del 50% passando dal 1980 al 2001 da 5650 unità a 2750 unità mentre le aziende operanti nel settore zootecnico sono diminuite del 50%, in gran parte condotte da allevatori non Sinnaesi .
Aggiungerei che l’attuale crisi che ha investito il mondo e che ci rimanda , per certi aspetti a quella del 1929, ha evidenziato la specificità della situazione occupazionale in Sardegna che si trova al 6° posto delle regioni europee ed al 1° posto tra le regioni italiane per il tasso di disoccupazione giovanile ( 15/24 anni) che si attesta ad oggi al 44,7%.
La modernità liquida
Sinnai è ormai a tutti gli effetti una città dormitorio dell’area metropolitana di Cagliari ed è destinata ad esserlo sempre più, considerata la lontana prospettiva di uno sviluppo economico autoctono.
Ciò la porta ad essere parte organica della società globalizzata.
Una società, questa, che può essere definita liquido moderna (contrapposta strutturalmente, in modo irreversibile, a quella stabile ed immutabile analizzata sopra) in quanto le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.
«La vita liquida, come la società liquidomoderna non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo……. Parte fondamentale, vero motore della società liquidomoderna e consumistica è ciò che viene liquidato, ciò che viene consumato: l’ industria di smaltimento dei rifiuti assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia della vita liquida»[13].
La vita liquida è una corsa frenetica, una vita precaria ed incerta, in cui imparare dalle proprie esperienze è impossibile perché le condizioni entro le quali esse accadono cambiano continuamente.
Sono cadute le ideologie cui ci aggrappavamo, negli ultimi due secoli del 2° millennio, nella speranza di costruzione di un mondo migliore che superasse le contraddizioni interne al capitalismo.
L’ultima crisi finanziaria globale in atto ha peraltro confermato che è inscritta nel dna del capitalismo l’incapacità di trovare al suo interno gli anticorpi necessari per evitare le crisi cicliche e, last but not least, di garantire la sopravvivenza stessa del Pianeta.
E’ di appena due mesi fa il rapporto choc del wwf: l’umanità divora il pianeta e si arriverà al collasso ecologico già nel 2030. Il disastro ecologico sta influendo, secondo le analisi di alcuni scienziati recentemente pubblicizzate, anche sugli altri pianeti.
Stiamo segando l’albero in cui siamo seduti. Stiamo supersfruttando le capacità di recupero e di riassorbimento della nostra terra: stiamo utilizzando ad oggi, per conseguire ed accrescere il nostro tenore di vita e di consumo, le risorse di una Terra e mezzo e nel 2030 avremo bisogno di due Terre.
Attualissima e premonitrice resta la poesia di Fanny Cocco, Ita dd’hap’ nai[14] che riportiamo a chiusura dell’esposizione:
ITA DD’HAP’A NAI
Ita dd’hap’a nai a filla mia
Chi hat a teni bint’annus
In su Duamila.
Ita dd’hap’a nai
A pustis chi eus abbraxau
Padentis e cracchiris A pustis chi eus alluau
COSA LE DIRO’
Cosa dirò a mia figlia che avrà vent’anni nel Duemila.
Cosa le dirò
dopo che abbiamo bruciato
rovereti e boschi di ghiande
dopo che abbiamo avvelenato sorgenti e ruscelli
A filla mia dd’hap’a nai
A no si fai imboddicai Cument’a nos
Chi eus donau a fidu Su mundu nostru
A is luziferrus de sa chimica e de s’atomu. Nos si dd’eus donau Nos vittimas buginus e complicis.
A filla mia dd’hap’a
di non farsi lusingare come abbiamo fatto noi
che abbiamo venduto per niente
il nostro mondo
ai diavoli della chimica e dell’atomo Noi gliel’abbiamo dato
noi vittime carnefici e complici
Mizzas e arrius
A pustis chi eus accaddozzau Pranus e montis
A pustis chi eus struppiau
Costeras e marinas A pustis chi eus incravau
Matas e bestias.
dopo che abbiamo trasformato in letamai pianure e montagne dopo che abbiamo rovinato
coste e spiagge dopo che abbiamo messo in croce alberi e animali.
nai
Ca no est prus tempus De passienzia “Torrandi a pigai sa terra tua
E perdona a su tempus nostru
Chi t’hat lassau
In eredidari Muntronaxus e bombas”.
A mia figlia dirò
che non è più tempo di portare pazienza. “riprenditi la tua terra e perdona la nostra generazione
che ti ha lasciato
in eredità immondezzai e bombe”.
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[1] Dalla lettera di Papa Gregorio Magno a Ospitone, dux barbaricinorum della fine del VI secolo (P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, I, I, Torino, 1861, doc. XVII, p. 98.
[2] Mathias Elizabeth, trad.Teresa Amucano, Ethos, Vol.4, No4 (Winther 1976), La gara poetica: Sardinian Shepherds’ Verbal Dueling and the Expression of Male Values in an AgroPastoral Society. New York, pp. 485-486.
[3] Opera sopra citata pp. 485-486.
[4] Opera sopra citata, pp. 485-486.
[5] Opera sopra citata, pp. 485-486.
[6] Opera sopra citata pp. 485-486.
[7] Opera sopra citata, pp. 485-486.
[8] Opera sopra citata, pp. 497-500.
[9] Cfr: Giudice Mossa, sentenza interinale, atti della Reale Udienza, 1825. [10] Cfr Zedda Paolo, L’arte de is muttetus, Gorè, Frascati 2008.
[11] Fanny Cocco, Su tempus de is Nannais, Edizioni Su Fraili, Quartu S. Elena 1999; Su fermentu. Po sa poesia sarda, Edizione Su Fermentu, Sinnai 1996; Giuanni Cadeddu, La commedia in versus sardus Sa festa de Tundidroxiu, Edizioni Grafiche del Parteolla, Dolianova 1992; Romano Asuni, Il ritorno, Boicu e altre storie, Simonelli editore, Milano 2006.
[12] Mutamenti metaforicamente descritti dal nostro concittadino Bruno Lobina nel suo romanzo La luna e il filo di lana, del 2009.
[13] Zygmut Bauman, La vita liquida, Laterza, 2006, introduzione, pagg .VII e IX.
[14] Fanny Cocco, Su tempus de is Nannais cit., p. 73.
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Aldo Cappai nasce e vive a Sinnai dove ha svolto per oltre un ventennio le funzioni di Consigliere Comunale prima e Vicesegretario poi, durante il quale ha assunto diversi ruoli attivi tra i quali la promozione di azioni giuridiche tese all’attribuzione, all’Ente Locale, della proprietà demaniale di territori ademprivili, e la collaborazione con l’equipe dell’urbanista Fernando Clemente nello studio del Piano del centro storico. Ha svolto la funzione di Segretario Generale in diversi Enti pubblici promuovendo processi di innovazione, efficienza e produttività, ed ha partecipato alla definizione di una prima proposta di delimitazione della Città Metropolitana di Cagliari. Particolarmente attiva è stata la sua attività all’interno delle associazioni culturali “Archistoria” ed Agorà” di Sinnai nonché “Hamara” di Maracalagonis, collaborando allo studio e promozione della storia locale curando in merito diverse pubblicazioni.
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