UNIVERSITÀ della SARDEGNA – UNIVERSITÀ degli STUDI di CAGLIARI
Inaugurazione del 395° ANNO ACCADEMICO 2015-2016 dell’Università degli Studi di Cagliari
La riscoperta dell’etica nella cultura contemporanea
«la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (…) «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». (Costituzione della Repubblica Italiana)
di Enrico Berti
1. La separazione tra scienza ed etica
Il Novecento si è aperto con due dichiarazioni, divenute poi famose, di separazione tra scienza ed etica. Nel 1903 il filosofo inglese George Edward Moore, considerato uno dei fondatori della filosofia analitica, scrisse nei suoi Principia ethica che la pretesa di definire il bene è una fallacia, cioè un errore, la cosiddetta «fallacia naturalistica», perché suppone che il bene sia un oggetto naturale, descrivibile come qualsiasi altro oggetto dalle scienze della natura. Secondo Moore, invece, il bene può soltanto essere intuito, non descritto, perché è una nozione semplice, come il colore giallo, che non può essere spiegato a chi non sia in grado di vederlo. Contemporaneamente, cioè nel 1904, Max Weber, il fondatore della sociologia come scienza, nell’articolo su L’oggettività della conoscenza socio-scientifica (uscito nell’«Archiv für Sozialwissenschaft») scrisse che le scienze in generale, e le scienze sociali in particolare, devono essere Wertfrei, libere da valori, «avalutative», capaci cioè di descrivere lo stato delle cose mediante giudizi di fatto, evitando, per garantire l’oggettività della conoscenza, qualsiasi giudizio di valore, cioè qualsiasi giudizio sulla bontà o la malvagità dello stato delle cose. In tal modo è sembrato che le scienze, sia quelle naturali che quelle sociali, dette anche «umane», dovessero restare definitivamente separate dall’etica, lasciando quest’ultima alla competenza della religione, cioè di una fede, o della filosofia, ma di una filosofia priva di qualsiasi validità oggettiva, cioè scientifica.
L’indicazione di Moore è stata ripresa dai massimi rappresentanti della filosofia analitica anglo-americana, come Charles L. Stevenson, che in Ethics and Language (Yale, 1944) sostenne il carattere puramente emotivo dei giudizi di valore; Alfred Ayer, secondo il quale, come egli stesso ha scritto in Language, Truth and Logic (London 1946), i giudizi morali sono solo espressione di sentimenti da parte di colui che li pronuncia, non sono quindi portatori di verità, sono insomma espressioni di emozione prive di senso; Richard M. Hare, che in Language of Ethics (1952) affermò la «Grande Divisione» tra giudizi di fatto, cioè descrittivi, e giudizi di valore, cioè prescrittivi. Secondo questi filosofi i giudizi di valore, con i quali si dichiara che un’azione è buona o cattiva, non possono essere né veri né falsi, cioè non indicano uno stato di cose, ma esprimono un sentimento, di approvazione o disapprovazione, oppure un desiderio, o un’intenzione, o un comando.
I filosofi analitici hanno fatto derivare questa separazione dalla cosiddetta «Legge di Hume», cioè da un passo del Trattato sulla natura umana in cui Hume si limita ad osservare l’illegittimità di dedurre, da premesse formulate col verbo «essere», conclusioni formulate col verbo «dovere», osservazione peraltro conforme alla logica di Aristotele, secondo cui nelle deduzioni si deve evitare la metabasis eis allo genos, cioè il passaggio da un genere di oggetti ad un altro. Fedeli a questa impostazione, i maggiori sociologi del Novecento, ad esempio gli americani Talcott Parsons e Daniel Bell, analizzarono la società industriale e post-industriale descrivendone perfettamente il funzionamento, senza minimamente pronunciarsi sulla sua qualità etica.
Ma anche i filosofi cosiddetti «continentali», dell’Europa cioè continentale, sulla scia della negazione della morale compiuta da Nietzsche in Al di là del bene e del male – secondo il quale la morale tradizionale europea, in cui rientrano cristianesimo, democrazia e socialismo, è una morale da «armenti» o da «schiavi» – non trovarono alcun posto per l’etica nella propria filosofia. Ciò vale per Heidegger, considerato da molti il maggior filosofo del Novecento (almeno fino alla recente pubblicazione dei suoi Quaderni neri, che hanno rivelato tutto il suo pervicace antisemitismo), ma anche per Wittgenstein, che nella prima fase del suo pensiero, cioè nel Tractatus logico- philosophicus, ha considerato l’etica un discorso privo di senso e nella seconda, quella delle Ricerche filosofiche, l’ha promossa a discorso dotato di senso, ma come puro «gioco linguistico». Per questo nelle facoltà di filosofia delle università italiane – mi è stato confidato da un collega anziano ancora vivente – la cattedra di Filosofia morale fino alla contestazione del Sessantotto è stata considerata una cattedra di serie B, inferiore a quella di Filosofia teoretica, alla quale tutti volevano prima o dopo «passare».
Questa situazione ha cominciato a mutare per ragioni non filosofiche, ma storiche, nella seconda metà del Novecento. Anzitutto la cosiddetta contestazione del Sessantotto – che nell’università di Berkeley in California era cominciata già nel 1964, e a Berlino Ovest, allora isolata nel territorio della DDR, ma anche a Torino e a Pisa, era scoppiata nel 1967, ed era culminata a Parigi nel maggio del ’68 – aveva messo in discussione il «sistema» di vita occidentale, ispirandosi sul piano culturale, alla sociologia della Scuola di Francoforte, rappresentata da Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse (ricordo che nel ’68 le foto di Marcuse erano stampate, insieme con quelle di Marx e Mao, cioè dei tre «Ma», persino sugli zainetti dei bambini della scuola elementare). Questi sociologi accusavano la sociologia «scientifica» americana, proprio perché «avalutativa», di giustificare l’esistente, da loro considerato del tutto irrazionale, e le contrapponevano la «teoria critica della società», cioè una sociologia critica, che denunciava l’irrazionalità della società occidentale, della sua organizzazione e del suo funzionamento.
Non è stato mai chiarito perché quella contestazione sia scoppiata a 20 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e di altri tragici eventi ad essa collegati, quali l’Olocausto degli Ebrei in Europa. In ogni caso, essendo circoscritta al Nord-America e all’Europa occidentale, cioè all’area economica del capitalismo, la contestazione del cosiddetto «sistema» non poteva ispirarsi che al marxismo, cioè all’unica filosofia che criticava il capitalismo, ma non al marxismo sovietico, già allora denunciato dal rapporto Krusciov e oggetto a sua volta di contestazione nell’Europa orientale, bensì al marxismo, detto anch’esso «occidentale», dei suddetti sociologi. L’esigenza di cui la contestazione era portatrice, era un’esigenza – tutto sommato – etica, cioè di maggiore giustizia, di maggiore uguaglianza, di maggiore libertà, anche se nel linguaggio marxistico essa si esprimeva come esigenza politica («il personale – si diceva allora – è politico»), cioè come programma di una vera e propria rivoluzione. Dal punto di vista politico, tuttavia, la contestazione, che negli anni successivi al ’68, almeno in alcuni Paesi (Germania e Italia) era degenerata nel terrorismo, si esaurì nel giro di vent’anni, con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Non si esaurì invece l’esigenza etica di cui essa era portatrice, la quale si espresse in un profondo mutamento della scena culturale, in particolare scientifica e filosofica.
Contemporaneamente alla contestazione del ’68 e dintorni, le scienze, in particolare quelle biologiche, facevano registrare immensi progressi. La biologia molecolare, con la scoperta degli acidi costitutivi delle cellule (DNA, RNA) e delle rispettive sequenze, dei cromosomi, dei geni, apriva spazi immensi all’intervento delle biotecnologie nel mondo dei viventi, piante, animali ed esseri umani, ponendo problemi sull’utilità, la convenienza e in qualche caso (negli esseri umani) addirittura la liceità di tali interventi (organismi geneticamente modificati, trapianti di organi, fecondazione assistita, sperimentazione sugli embrioni, trattamento delle cellule staminali, ecc.). Nacque così la «bioetica», il cui atto di registrazione ufficiale può essere fissato nel 1971, quando in un famoso articolo il filosofo inglese Stephen Toulmin scrisse: «Come la medicina ha salvato la vita all’etica» (ristampato in «Perspectives in Biology and Medicine», 25, 1982, pp. 736-750). Ma anche in altri settori, dove la tecnica basata sulle scoperte scientifiche aveva consentito enormi progressi, ad esempio nello sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, idrocarburi in genere, uranio), emersero problemi riguardanti i possibili rischi di tale sfruttamento per l’ambiente (inquinamento dell’acqua, dell’aria, della terra), i quali diedero vita ad un’altra branca dell’etica, l’etica ambientale (Environmental Ethics). E nell’ambito delle stesse scienze umane, in particolare dell’economia, sorsero problemi circa la compatibilità di una industrializzazione progressiva, associata ad una ricerca illimitata del profitto, con lo sviluppo e la pacifica convivenza dei gruppi sociali, e nacquero l’etica economica e l’etica degli affari.
2. La crisi della separazione tra scienza ed etica
In connessione con la rinascita dell’etica, determinata dai suddetti problemi, la seconda metà del Novecento ha fatto registrare anche tra i filosofi, in particolare tra i filosofi analitici, una crisi della Grande Divisione tra scienza ed etica, di cui mi limito a segnalare alcuni esempi famosi. Nel 1981 il filosofo americano, di origine scozzese, Alasdair MacIntyre, già segnalatosi per numerosi contributi nell’ambito della filosofia analitica, ha pubblicato un libro, After Virtue (Dopo la virtù), nel quale ha accusato di «emotivismo» la pretesa della filosofia analitica di ricondurre l’etica soltanto a emozioni, non basate su alcuna conoscenza, e ha visto in tale concezione la fine dell’etica, cioè il trionfo del programma di Nietzsche di collocarsi «al di là del bene e del male». Paradossalmente, alla fine del Novecento, MacIntyre ha indicato come unica possibile alternativa a Nietzsche niente meno che il ritorno ad Aristotele, cioè ad una filosofia che conferiva un carattere di razionalità all’etica.
Più di recente un altro filosofo americano, considerato oggi forse il più illustre rappresentante della filosofia analitica, Hilary Putnam, ha proclamato «il collasso della dicotomia fatto/valore». Nel libro che porta questo titolo (cfr. The Collapse of the Fact/Value Dicotomy, Harvard Univ. Press 2002), Putnam osserva che la dicotomia (non la semplice distinzione) tra fatti e valori è uno dei dogmi dell’empirismo, simile a quello della dicotomia tra giudizi analitici e giudizi sintetici denunciato da Quine, perché riduce i «fatti» a situazioni percepibili soltanto con i sensi. Secondo il filosofo americano, invece, i fatti sono strettamente intrecciati con i valori, per cui è spesso impossibile descrivere un fatto senza introdurre nella descrizione di esso dei giudizi di valore, Putnam riprende da Hare l’esempio del termine «crudele», che per Hare può essere scomposto in una descrizione e in una valutazione del tutto indipendenti tra di loro, mentre per Putnam è l’espressione della inscindibilità di descrizione e valutazione. Il giudizio, infatti, secondo cui, ad esempio, «torturare un bambino è un’azione crudele», non significa soltanto, come pretende Hare, che tale azione sia per noi causa di profonda sofferenza, ma possiede un valore di verità e perciò comporta una netta disapprovazione.
Gli esempi oggi, in tempi malaugurati di attentati terroristici e violenze di ogni tipo, si potrebbero moltiplicare. Giudizi come «compiere una strage di persone innocenti è un atto terroristico» non sono forse suscettibili di verità o falsità? E la loro probabile verità, appartenente all’ambito della descrizione, cioè della conoscenza, non comporta forse una condanna dal punto di vista morale, cioè un giudizio di valore? Certo, al riguardo si potrà aprire una discussione sulla definizione di terrorismo, si potrà osservare che stragi di innocenti vengono comunque commesse in situazioni di guerra, si potrà discutere sulla definizione e la legittimità della guerra, ma in ogni caso si avanzeranno pretese di verità o falsità, traendone argomenti per condanne o giustificazioni morali. Putnam cita come esempio di intreccio tra razionalità e valore il pensiero economico di Amartya Sen, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1998, il quale ha mostrato come un orientamento di tipo etico sia un valore anche dal punto di vista economico, e quindi come una delle scienze umane più «dure» (hard), qual è l’economia, sia inseparabile dall’etica.
Ma vorrei citare, come esempio di crisi della separazione tra scienza ed etica, anche un libro recente di una filosofa italiana, Roberta De Monticelli, intitolato, in evidente polemica con Nietzsche, Al di qua del bene e del male (Einaudi 2015). Il titolo in realtà è stato suggerito dalla casa editrice e non viene ripreso all’interno del libro, ma questo denuncia energicamente l’appiattimento del valore sul fatto, della norma sulla cosiddetta «normalità», la quale spesso, anziché indicare, secondo la sua derivazione linguistica, un dover essere, è passata a indicare semplicemente il più diffuso modo di essere. De Monticelli ha il coraggio anche di denunciare il «groviglio oscuro» in cui si intrecciano i riferimenti alla «Tecnica», al «Destino dell’Occidente», al «Bio-potere», della cosiddetta Italian Theory, dove in nome del realismo politico si rinuncia a qualsiasi giudizio morale. A tutto questo l’autrice contrappone «l’idea di giustizia» dell’americano John Rawls, intesa come coesistenza pacifica e divieto di prevaricazione sugli altri, di cui rivendica il valore oggettivo, non soggetto alla relatività degli ordinamenti assiologici soggettivi. Come simbolo di questa idea De Monticelli cita il poliziotto musulmano Ahmed, ucciso a Parigi mentre difendeva la libertà di stampa dei giornalisti che insultavano la sua religione. A proposito della «avalutatività» della scienza, sostenuta dagli scienziati sociali, De Monticelli riconosce che nessuna norma etica può fondarsi nel modo in cui si fonda una legge empirica, la quale riceve conferma dai fatti che riesce a prevedere. Ma ciò non significa che non ci siano «fatti morali», assiologicamente rilevanti, o che un giudizio di valore non possa essere oggettivo, cioè vero o falso.
3. La rinascita della filosofia pratica
La crisi della separazione tra scienza ed etica si inscrive in un fenomeno culturale più vasto, che si è prodotto nella seconda metà del Novecento, con inizio in Germania e successiva diffusione in tutta l’Europa e l’America, soprattutto del Nord, cioè la «rinascita – o, per i suoi critici, la «riabilitazione» – della filosofia pratica». Non è questa la sede per descrivere dettagliatamente il fenomeno in questione, del quale ho avuto occasione di occuparmi spesso nella mia ormai lunga esperienza di studioso di filosofia. Mi limiterò a ricordare che il suo inizio può essere collocato convenzionalmente nella pubblicazione del capolavoro di Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo (Tübingen 1960), e che tra le espressioni più significative della sua diffusione può essere annoverato il libro del già citato Rawls, Una teoria della giustizia (Harvard 1971). Una definizione sommaria del fenomeno può essere quella di rinascita di una filosofia capace di argomentare razionalmente sulla vita morale, politica e giuridica, prendendo atto della rinuncia delle scienze, naturali e sociali, ad esprimere giudizi di valore, senza lasciare tali giudizi all’ambito esclusivo delle fedi religiose o delle ideologie di parte.
Naturalmente una rinascita della filosofia pratica non poteva che richiamarsi ai due grandi filosofi del passato che, soli, avevano parlato di «filosofia pratica», o di «razionalità pratica», cioè rispettivamente Aristotele e Kant. Al primo si richiamò infatti Gadamer, seguito da numerosi altri in Germania (tra cui Ursula Wolf, a cui era legata la compianta Vanna Gessa Kurotschka), in Inghilterra (Philippa Foot) e in America (tra cui i già citati MacIntyre e Sen, nonché Martha Nussbaum), mentre al secondo si richiamò Rawls, seguito da numerosi cosiddetti liberals (tra cui in Italia Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone e ora anche Roberta De Monticelli).
Per quanto riguarda il richiamo a Kant, mi permetto di prescindere dagli aspetti specifici che esso ha assunto negli autori sopra citati, cioè il neocontrattualismo e il liberalismo, per sottolineare quello che a me sembra il suo contributo più grande, e attuale, all’odierna filosofia pratica, cioè la distinzione tra «cose» e «persone». Le «cose», scrive Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi, si distinguono dalle persone perché sono interscambiabili, cioè possono essere scambiate con qualsiasi altra cosa, per cui hanno un «prezzo», mentre le persone non possono essere scambiate con niente altro, né cosa, né persona, cioè sono uniche, irripetibili, per cui non hanno «prezzo», ma «dignità». Le cose possono essere usate, anzi normalmente sono usate, come mezzi per ottenere altre cose, mentre le persone non possono mai essere considerate soltanto come mezzi, ma devono essere considerate sempre anche come fini. Di qui la famosa massima: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come fine, e mai come semplice mezzo». E di qui la necessità di prestare ad ogni persona non l’amore, che non può essere comandato, ma il «rispetto». Nessun altro filosofo ha mai saputo definire così chiaramente la famosa «dignità della persona umana», di cui sono piene le dichiarazione dei diritti, specialmente la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore con il trattato di Lisbona nel 2009.
Ebbene, la distinzione tra cose e persone ha un fondamento ontologico, cioè reale, perché le persone sono portatrici della legge morale, e quindi della libertà, in quanto possiedono la ragione. Perciò si tratta di una distinzione dimostrabile razionalmente, non basata soltanto su sentimenti, desideri o fedi religiose, ma descrivibile mediante giudizi di fatto, e al tempo stesso valutabile anche mediante giudizi di valore. La ragione stessa, per Kant, è un fatto, «il fatto della ragione», ma al tempo stesso è anche una legge, una norma, la legge morale. Essa è al tempo stesso strumento della scienza e fondamento dell’etica, quindi è l’espressione emblematica della connessione tra scienza ed etica.
Per quanto riguarda il richiamo ad Aristotele, mi permetto di riassumere quanto ho avuto occasione più volte di scrivere e di dire in altre sedi. La filosofia pratica, per Aristotele, determina razionalmente il fine ultimo dell’uomo, generalmente chiamato felicità, mentre una particolare virtù, cioè abilità, della ragione pratica, la phronesis, determina razionalmente i mezzi più idonei a conseguire tale fine. Il tipo di ragionamento che, secondo Aristotele, esprime tale rapporto è il cosiddetto «sillogismo pratico» (sullogismos tôn praktôn, cioè letteralmente «deduzione delle azioni da compiersi»). Malgrado la diffidenza nutrita verso questo tipo di ragionamento da Gadamer e da altri «neoaristotelici» continentali, a causa delle controversie di cui esso è stato oggetto dal punto di vista logico nell’ambito della filosofia analitica, ritengo utile servirci di esso per illustrare il contributo che il pensiero di Aristotele può dare per chiarire il rapporto tra scienza ed etica.
Gli esempi forniti da Aristotele di sillogismo pratico sono molto elementari, e desunti significativamente da una scienza che per Aristotele costituiva il modello dell’etica, la medicina (permettermi di ricordare, non senza commozione, che il tema della medicina come modello dell’etica in Aristotele fu quello che Vanna Gessa mi invitò a trattare qui a Cagliari, in una lezione che tenni nel maggio 2010, pochi mesi prima della sua morte). Ecco un esempio di sillogismo pratico fatto dallo stesso Aristotele: «le carni leggere sono ben digeribili e sane (premessa maggiore, più generale), le carni di pollo sono leggere (premessa minore, più particolare), dunque mangiamo carni di pollo (conclusione pratica)» (Etica Nicomachea VI 8). Un altro esempio: «tutte le acque pesanti sono cattive, quest’acqua è pesante, non beviamo quest’acqua» (ivi, VI 9).
Ma, al di là degli esempi, il sillogismo pratico costituisce la struttura della scienza che, come diceva Descartes, più di ogni altra consente di trovare i mezzi per rendere gli uomini più saggi intorno al bene che è il fondamento di tutti gli altri beni in questa vita, cioè la medicina (Discorso sul metodo, parte VI). La medicina è costituita da due grandi momenti, la diagnosi e la terapia. La diagnosi è indubbiamente il momento conoscitivo, perché suppone la conoscenza del corpo umano e del suo funzionamento (fisiologia), nonché di tutto ciò che può turbarlo (patologia). Essa dunque è un insieme di giudizi di fatto, cioè descrittivi, frutto di ricerche, di esperimenti, di ragionamenti, tutti appartenenti al vasto campo della ricerca scientifica. La terapia invece è un insieme di prescrizioni, di consigli, o di comandi, che si fondano sulla diagnosi e sulla conoscenza degli effetti dei farmaci, e quindi su tutte le ricerche conoscitive che conducono alla scoperta o al perfezionamento di questi ultimi, ma ha un orientamento totalmente pratico, cioè il recupero, o la conservazione della salute, o la prevenzione di ciò che potrebbe insidiarla.
Di per sé la terapia non è una scienza, perché la scienza – diceva Aristotele – è una potenza razionale capace di produrre effetti contrari (Metaph. IX 2). Egli portava come esempio, a questo riguardo, proprio la medicina, la quale di per sé è capace sia di produrre la salute che di produrre la malattia: nessuno, meglio di un medico, saprebbe, se volesse, fare ammalare e addirittura morire qualcuno. Non a caso il termine «farmaco», in greco, significa tanto «rimedio» quanto «veleno». Eppure nella medicina il momento conoscitivo, quindi la ricerca, anche collettiva, anche istituzionale, anche costosa, sono giustificati unicamente in vista della terapia, cioè di un fine pratico, quale il recupero o la conservazione della salute. Alla base della medicina c’è dunque un presupposto finalistico, una teleologia di fondo, che ne giustifica e ne guida le ricerche. In questa struttura non è presupposta nessuna metafisica di tipo finalistico, perché si tratta di un finalismo voluto e perseguito dall’uomo. Né vi è contenuto alcun errore logico, cioè alcuna violazione della cosiddetta «legge di Hume», perché il carattere prescrittivo della conclusione si fonda su una premessa di carattere anch’essa prescrittivo, che si unisce ad altre premesse di carattere puramente descrittivo e garantisce che la conclusione non costituisca una metabasis eis allo genos, cioè un indebito passaggio a un diverso genere di oggetti.
Il caso della medicina è esemplare perché mostra che la scienza, qualunque scienza, di per sé è un’attività puramente conoscitiva, il che costituisce un valore, il valore appunto della conoscenza, a cui gli esseri umani sembrano essere per natura portati, alcuni più di altri, quelli che dedicano l’intera vita, appunto, alla ricerca, cioè praticano quello che Aristotele chiamava il bios theôrêtikos ed in cui faceva consistere la felicità. Ma al tempo stesso la scienza, per giustificarsi, ha bisogno dell’etica, presuppone l’etica, non per la conoscenza, ma per la prassi, cioè per la vita (la quale è prassi).
A questo punto la domanda che nasce spontanea è: da dove si possono trarre, oggi, i valori, ovvero i fini, le norme pratiche? Se a questa domanda si vuole dare una risposta rigorosa, bisogna lasciare che se ne occupino i filosofi, in particolare i filosofi morali, ai quali compete l’indagine sui valori, sulla loro esistenza e sul loro fondamento. Ma non tutti, per fortuna, sono filosofi, mentre tutti devono vivere, anche gli scienziati. Esistono allora dei valori condivisi da tutti, o dalla maggioranza degli esseri umani, la cui discussione ed eventuale fondazione spetta ai filosofi, ma la cui accettazione e applicazione può essere tranquillamente operata da tutti, senza attendere l’esito, spesso inconcludente, delle discussioni dei filosofi. Si tratta dei valori, anzi dei diritti, sanciti dalle grandi dichiarazioni dei diritti umani e in genere dai primi articoli delle carte costituzionali dei Paesi democratici: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Costituzione della Repubblica Italiana. Si tratta del diritto alla vita, alla salute, all’educazione, al lavoro, alla libertà, alla partecipazione, ecc., ai quali corrispondono altrettanti doveri da parte di chi è tenuto a garantirli.
Come mi è accaduto di dire in altre occasioni, le dichiarazioni dei diritti sono la versione moderna di ciò che Aristotele chiamava gli endoxa, cioè le premesse «endossali» (il contrario di «paradossali») dei ragionamenti dialettici, ovvero dei ragionamenti adoperabili in una discussione corretta, in cui si parte da premesse condivise da tutti per giungere a conclusioni condivisibili da tutti. Il cosiddetto «approccio dei diritti», cioè il richiamo ai diritti umani quali valori fondamentali da porre alla base di un’etica condivisibile, è stato recentemente arricchito dal cosiddetto «approccio delle capacità», proposto da Amartya Sen e Martha Nussbaum, basato sul presupposto, largamente condivisibile, che ogni essere umano possieda un certo numero di capacità (più esattamente: capabilities), le quali devono poter essere realizzate, e che il fine della società e degli individui sia di promuoverne appunto la realizzazione, in modo da garantire la completa «fioritura» umana (metafora tratta dalla botanica, ma applicabile in questo caso agli esseri umani).
Nussbaum ha fatto notare a Sen, il quale ha convenuto, che si tratta di un approccio di tipo aristotelico, perché Aristotele identificava la felicità, bene supremo dell’uomo, con la realizzazione di tutte le capacità umane, o attuazione di tutte le sue potenzialità. Ma qualcosa del genere si trova anche nella nostra Costituzione, dove, dopo avere dichiarato nell’articolo 2 che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», si aggiunge nell’articolo 3 che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Lascia un Commento