UNIVERSITÀ della SARDEGNA – UNIVERSITÀ degli STUDI SASSARI
Inaugurazione del 454° dell’Università degli Studi di Sassari ANNO ACCADEMICO 2015-2016
EDITORIA E CULTURA NEL MONDO DIGITALE
di MASSIMO BRAY*
L’avvento della rivoluzione digitale ha avuto e sta avendo un impatto enorme sulla nostra vita quotidiana, sui nostri modi di informarci, di comunicare, di affrontare i problemi: definite dall’ingegnere statunitense Douglas Engelbart, inventore del mouse, «molto più significative dell’invenzione della scrittura o addirittura della stampa» – affermazione forse eccessiva nelle conclusioni, ma certamente corretta per il paragone che istituisce –, le tecnologie digitali, al pari delle altre grandi invenzioni che hanno cambiato il corso della storia, contribuiscono a plasmare nuovi modelli di comportamento e nuove strutture sociali, cambiando la realtà in cui viviamo e il modo in cui ci rapportiamo ad essa.
Tenendosi parimenti lontani – per riprendere la celeberrima formula di Umberto Eco – tanto da un atteggiamento ‘integrato’ di elogio e accettazione acritica del nuovo, quanto da un suo rifiuto ‘apocalittico’ derivante da eccessivi allarmismi e dalla chiusura aprioristica del laudator temporis acti, è invece utile interrogarsi con equilibrio e senso critico sulla misura e sui modi nei quali l’enorme cambiamento in atto sta ridefinendo le nostre idee di conoscenza, di sapere e di cultura: e a questo tema vorrei dedicare le brevi riflessioni che seguono, e che tengono conto dell’esperienza che ho avuto occasione di maturare sia come responsabile editoriale di un istituto a forte vocazione culturale come la Treccani, sia nei dieci mesi nei quali ho avuto l’onore di servire il Paese in qualità di Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Vorrei prendere le mosse da un libro che, pur essendo stato scritto tre decenni fa, credo rappresenti una guida estremamente preziosa per la comprensione del tempo che stiamo vivendo: mi riferisco alle Lezioni americane di Italo Calvino, il volume che raccoglie – come è noto – il testo di cinque delle sei lezioni che l’Autore avrebbe dovuto tenere durante un soggiorno ad Harvard nell’anno accademico 1985-1986 nell’ambito delle Charles Eliot Norton Poetry Lectures, e che non poté tenere a causa della prematura scomparsa. Non a caso, del resto, il titolo cui aveva pensato Calvino – come racconta la moglie Esther –, era «Six Memos for the Next Millennium», che sarebbe divenuto poi il sottotitolo dell’opera, pubblicata postuma («Sei proposte per il prossimo millennio» in italiano).
Appaiono quasi profetiche, in particolare, le parole che Calvino dedica all’idea di «rapidità», non appena pensiamo all’impatto che l’immediatezza consentita dalle tecnologie digitali ha in tutte le nostre attività quotidiane e soprattutto – per quello che ora maggiormente importa – su alcuni dei nostri modi di rapportarci alla cultura. Basti pensare, ad esempio, a come si sono trasformati le modalità di accesso ai libri e l’atto stesso del leggere: da un lato, oggi è possibile leggere in ogni situazione, non più soltanto a casa o in biblioteca; dall’altro, un normale computer o persino un piccolo strumento che si può tenere nel palmo di una mano ci mettono a disposizione, dovunque e in qualsiasi momento, un numero sterminato di libri, un numero che possiamo considerare di fatto infinito se rapportato alla durata limitata della nostra esistenza. Ed è un patrimonio, questo, accessibile a sua volta in qualsiasi luogo e in qualsiasi condizione: in viaggio, durante gli spostamenti urbani, sul luogo di lavoro, nei tanti momenti di pausa e di attesa.
Eppure, a fronte di tali immensi, oggettivi vantaggi, che offrono alla nostra e alle future generazioni opportunità impensabili per quelle precedenti, occorre anche chiedersi quanto sia di fatto diverso leggere un romanzo, una poesia, un saggio nel contesto di un tempo e di un luogo espressamente dedicati e riservati alla lettura – sia esso la biblioteca, il proprio studio o anche, più semplicemente, la propria abitazione – dal leggere quelle stesse opere in una condizione oggettivamente diversa e caratterizzata, inevitabilmente, da un differente grado di concentrazione. E ancora: il tempo della lettura, che è naturalmente più soggettivo rispetto a quello proprio dell’ascolto musicale o della visione di uno spettacolo teatrale o cinematografico, ma che è anch’esso scandito da un suo ben preciso ritmo e caratterizzato da una sua specifica durata, quanto viene modificato, nella sua essenza profonda, dai nuovi modi di leggere? «Il racconto – scrive Calvino – è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo»: questo incantesimo si può realizzare ugualmente, e di fatto si realizza e in che misura, con i moderni strumenti di lettura?
Un’altra parola-chiave delle Lezioni americane che mi sembra cogliere un aspetto cruciale della contemporaneità è «visibilità»: nella lezione eponima Calvino si chiede: «quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la “civiltà dell’immagine”? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?»; e, poco più avanti, denuncia «il pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini». Sono parole scritte, evidentemente, molti anni prima della diffusione mondiale di Internet e della conseguente moltiplicazione esponenziale di quel flusso ininterrotto e onnipervasivo delle immagini, che Calvino definiva già allora come un vero e proprio «diluvio».
Si era da tempo affermata, all’epoca in cui egli scriveva, quella «civiltà delle immagini» che già dalla metà del secolo scorso aveva visto l’umanità dei Paesi occidentali investita da un flus- so continuo di immagini di ogni genere e che tanti intellettuali, filosofi, sociologi – dal Vance Packard dei Persuasori occulti alla Scuola di Francoforte, fino alla «cattiva maestra televisione» di Karl Popper – avevano denunciato nei suoi aspetti deteriori. Oggi, tuttavia, questo processo è giunto a uno stadio successivo, dal momento che la Rete ci mette a disposizione in modo immediato e gratuito una quantità incalcolabile di immagini, con la possibilità di visualizzare istantaneamente qualsiasi oggetto, monumento, luogo, personaggio – vero o immaginario – che abbiamo il desiderio di vedere.
Occorre essere consapevoli che la differenza non è semplicemente quantitativa, perché oggi siamo non più soltanto spettatori passivi di questa enorme quantità di immagini: una condizione che esponeva ed espone già di per sé al rischio, da un lato, di un isterilirsi della capacità di immaginazione individuale, e dall’altro – nelle letture più ‘apocalittiche’ – a quello di un controllo o comunque di un condizionamento ‘dall’alto’ delle idee e dei comportamenti da parte di più o meno concreti poteri di vario genere, sulla scia delle distopie huxleyana e orwelliana. Oggi non si tratta più soltanto di questo, perché la possibilità di accedere di nostra iniziativa pressoché a qualsiasi immagine abbiamo la necessità o il desiderio di vedere espone a rischi di tipo diverso, a cominciare da quello rappresentato da una conoscenza fai-da-te che si illude, questa volta ‘dal basso’, di poter fare a meno di qualsiasi confronto con le opinioni informate e competenti, così come di qualsiasi riscontro con quelli che sono, molto banalmente, i dati di fatto; e che di conseguenza rischia di dare origine a un caos incontrollato nel quale non è più possibile distinguere il vero dal falso, ciò che è attendibile da ciò che è frutto di fantasia o di malafede, ciò che è documentato da ciò che è soltanto immaginato o persino inventato.
La perdita della capacità di «pensare per immagini» paventata da Calvino, dunque, non costituirebbe soltanto un oggettivo impoverimento della nostra capacità di apprendere e di comprendere, e in definitiva delle nostre stesse esistenze, che ne sarebbero gravemente depauperate; essa rischia di risolversi anche in un venir meno del pensiero critico e della capacità di conoscere e comprendere in profondità. Esattamente lo stesso rischio che denunciava Platone nel Fedro a proposito dell’invenzione della scrittura, attribuendo al re egizio Thamus il celebre giudizio per il quale «la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi»; così che gli uomini, divenuti «uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti».
In che modo occorre rispondere – ci si potrà e dovrà chiedere – a questi e a siffatti rischi oggettivamente impliciti nella vertiginosa diffusione dei media digitali, ai quali d’altra parte sarebbe anacronistico e irragionevole rinunciare alla luce dei molti e indiscutibili vantaggi che essi apportano alle nostre vite? La giusta risposta non può che venire dal ruolo della cultura, intesa come conoscenza rigorosamente scientifica e come riflessione critica. E cruciale diviene allora il ruolo delle università, dei centri di ricerca, degli istituti culturali e delle case editrici: perché la diffusione del sapere non può fare a meno di quella indispensabile funzione di filtro e certificazione delle nozioni e della loro interpretazione che è affidata da un lato e innanzitutto alla comunità scientifica, ma dall’altro – in misura non meno rilevante – all’editoria, che alla prima si affida per la realizzazione e il controllo dei contenuti, ma in assenza della quale il patrimonio di conoscenze e di saperi che essa produce non avrebbe modo di essere comunicato a un pubblico più ampio di quello dei soli addetti ai lavori.
A questo proposito credo che sia anche necessario e urgente riscoprire la ‘funzione sociale’ del libro e della lettura: strutture come le biblioteche, iniziative come i festival letterari, la semplice circolazione spontanea dei libri, delle idee e delle storie che essi contengono, tutte queste cose sono veicolo di valori positivi, di coesione sociale, di responsabilizzazione e integrazione, e in definitiva uno strumento potenzialmente in grado di migliorare la qualità della vita dei singoli e delle comunità. In Elogio del ripetente Eraldo Affinati racconta un episodio che mi sembra illustri con la massima chiarezza questa funzione sociale che i libri possono svolgere, in particolare in ambito educativo: per riuscire a far leggere Se questo è un uomo alla sua classe, lo scrittore racconta – cito, per ragioni di sintesi, da una recente intervista – di aver deciso «di far venire tutti i ragazzi alla libreria della stazione Termini di Roma per comprare ciascuno la sua copia del libro. Già il fatto di essere lì era una piccola rivoluzione perché molti ragazzi non erano mai usciti dalle borgate. L’iniziativa - racconta Affinati – li ha motivati, hanno capito che ciò che stavano facendo era mantenere un patto che avevano fatto con me. Quella prima lezione all’aperto, con passeggiata per Roma e sosta al MacDonald’s inclusa, è stata determinante».
I buoni libri in particolare, così come la buona informazione, possono dare un contributo di importanza fondamentale nel combattere i pregiudizi e le false credenze: sul terreno culturale e valoriale, innanzitutto, sottoposto in questi mesi e in queste settimane alla fortissima pressio- ne esercitata dai tragici eventi legati ai fenomeni migratori e alla minaccia del terrorismo; ma anche, ad esempio, su quello medico-scientifico, aiutando a colmare le gravissime carenze che stanno emergendo in tale ambito nell’opinione pubblica, come hanno recentemente mostrato ben noti fatti di cronaca e, più in generale, la crescente diffidenza di tante persone, anche alta- mente scolarizzate, nei confronti della scienza e della medicina cosiddette ‘ufficiali’.
Nel mio lavoro in Treccani, non avrei esitazioni nell’affermare che è proprio questo il compito al quale è chiamato oggi un istituto di cultura, a maggior ragione se deputato, come la Treccani, alla produzione e alla divulgazione del sapere enciclopedico: il compito cioè di garantire, grazie alla competenza e all’autorevolezza dei propri autori e collaboratori, innanzitutto la correttezza e la completezza delle informazioni, e poi l’attendibilità delle pur molteplici e differenti interpretazioni che di esse si possono dare. E precisamente questa è la ragione profonda della scelta compiuta in questi ultimi anni dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, di mettere a disposizione sul web una parte importante delle proprie opere e della propria banca dati, con l’ambizione di rispondere così ancor meglio al compito dell’Istituto quale è enunciato nello statuto: vale a dire non soltanto «la compilazione, l’aggiornamento, la pubblicazione e la diffusione della Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti iniziata dall’Istituto Giovanni Treccani, e delle opere che possono comunque derivarne, o si richiamino alla sua esperienza», ma anche contribuire agli «sviluppi della cultura umanistica e scientifica» e rispondere a «esigenze educative, di ricerca e di servizio sociale».
«Segno dei tempi, nella società presente – si scriveva nel 1955 nella Prefazione al Dizionario Enciclopedico Italiano – è venuta propagandosi un’ansia di maggiore conoscenza, che è pure un’ansia di riscatto. Se non che l’accompagnano esigenze inquiete e delusorie, immaginazioni confuse. È l’ora di rammentare che, tra le varie libertà anelate, precipua è la libertà dalla ignoranza». Per quanto possa essere a prima vista sorprendente alla luce degli enormi mutamenti avvenuti nel lasso di tempo che ci separa da quegli anni, sono parole ancora attuali: con l’avvertenza tuttavia che all’epoca di Internet, della conoscenza ‘fai-da-te’, del flusso continuo e indiscriminato di notizie, immagini, informazioni e interpretazioni, il compito del sapere enciclopedico non può che risolversi, almeno in gran parte, nel mettere a disposizione del vastissimo pubblico costituito dagli utenti di Internet – da identificare, in prospettiva, con tutti i cittadini alfabetizzati – alcuni indispensabili strumenti di orientamento che consentano loro di usufruire con consapevolezza e senso critico di queste nuove realtà e di saper distinguere, nella miriade di informazioni presenti in Rete, ciò che merita di essere conosciuto e preservato; impedendo, allo stesso tempo, che l’incessante succedersi di notizie e di stimoli sempre nuovi e sempre diversi dal quale siamo quotidianamente investiti finisca, prima o poi, per farci perdere il contatto con la dimensione del passato e della storia, che è fondamento non soltanto della nostra cultura, ma anche della nostra identità di individui e di comunità.
Quest’ultimo pensiero offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale, che vorrei brevemente sviluppare sulla scorta dell’esperienza maturata nei dieci mesi durante i quali ho avuto l’opportunità di occuparmi di tanti aspetti e problemi della cultura in Italia in veste di Ministro: un impegno che ho voluto intraprendere a partire innanzitutto da una convinzione forte, quella della necessità strategica, per il nostro Paese, di un forte investimento per la tutela e la valorizzazione della cultura, in riferimento sia alla conservazione del patrimonio, sia alla produzione culturale, intesa quest’ultima come arte, musica, letteratura, teatro, cinema, ma anche – allargando la prospettiva ad abbracciare un panorama più completo – come ricerca scientifica e alta divulgazione.
«È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani – affermava in un discorso del 2003 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione. L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa dalla cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali al mondo». Ed è certamente vero che la consapevolezza del fatto che la cultura è il fondamento della nostra identità nazionale deve indurci innanzitutto a una forte assunzione di responsabilità: con riferimento in particolare allo studio, alla tutela e al restauro delle opere d’arte, dei monumenti, dei testi letterari, dei documenti d’archivio; ma anche alla necessità, divenuta urgente sotto l’incalzare della crisi economica mondiale, di non lasciare che si interrompano e si esauriscano tradizioni plurisecolari, ad esempio nell’ambito della musica, delle arti visive, dell’artigianato, dell’industria culturale.
Non si tratta, tuttavia, soltanto di preservare il passato: credere e investire nella cultura significa anche, allo stesso tempo, dotarsi della volontà e della capacità di pensarsi come società e come Paese, di immaginare in termini creativi e progettuali il proprio futuro. A tale proposito mi piace ricordare una frase dell’antropologo Clifford Geertz, secondo il quale «non diretto da modelli culturali – sistemi di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo incapace di pensare il futuro, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa».
Resto convinto che una conoscenza critica e consapevole del nostro passato e della nostra identità culturale sia il presupposto indispensabile per poter affrontare con serietà e con qualche speranza di successo le grandi questioni del nostro tempo, a cominciare da quella, davvero cruciale, dell’incontro tra le diverse culture, che è oggi posta con particolare forza da una parte dagli ingenti fenomeni migratori che investono, spesso con esiti tragici, le coste e le frontiere italiane ed europee, e dall’altra – con drammaticità ancor maggiore – dalla gravissima minaccia rappresentata per le nostre vite quotidiane dal terrorismo di matrice fondamentalista. Molti saranno pronti ad obiettare – forse a ragione, del resto – che la cultura da sola non può bastare per risolvere crisi di tale portata; ma è altrettanto vero che al contributo della cultura – intesa come studio del passato, come riflessione critica sul presente e come possibilità di immaginare un futuro diverso – non si può rinunciare, se si vuole continuare ad avere speranza nella possibilità di trovare delle risposte positive, e che non siano soltanto contingenti, a questi problemi. D’altra parte – e con questo mi ricollego più direttamente alla mia esperienza istituzionale – anche sul piano dello sviluppo economico il settore dei beni e delle attività culturali può giocare un ruolo fondamentale per il rilancio del Paese. È un’osservazione che potrà apparire persino ovvia, ma vale la pena ricordare che, se quello della ricerca scientifica e tecnologica è un ambito essenziale e irrinunciabile per l’Italia così come per tutte le altre economie avanzate del mondo, altri settori costituiscono invece una specificità italiana, ed è anche e soprattutto su questi che occorre investire in funzione della ripresa economica. Penso in particolare all’idea di bellezza e alle sue molteplici declinazioni, dall’arte al paesaggio, dai monumenti alla musica; penso ai molti modi nei quali questa idea può contribuire a definire l’identità e l’immagine dell’Italia ed avere, di conseguenza, importanti ricadute positive sul settore turistico. Ma si pensi anche a quelle aree di eccellenza nella produzione culturale italiana – ad esempio l’architettura, il design, alcuni settori della ricerca scientifica e umanistica – e a quegli aspetti della nostra tradizione culturale – come le lingue e le letterature classiche, oppure la tradizione esecutiva e interpretativa in campo musicale – nei quali l’Italia può proporsi come un modello e un punto di riferimento, o se non altro come un polo di attrazione, per culture anche assai lontane dalla nostra.
Mi avvio a concludere. Da queste brevi riflessioni che ho voluto sottoporre alla vostra paziente attenzione credo emerga il ruolo strategico della cultura – in tutte le sue manifestazioni, dal sapere enciclopedico alla conservazione del patrimonio storico-artistico, dalla ricerca scientifica alle molteplici espressioni creative – per il presente e il futuro delle nostre società, con particolare riferimento a quelle che credo possano e debbano rappresentare due fondamentali e irrinunciabili idee-guida: memoria e pensiero critico.
UNIVERSITÀ DELLA SARDEGNA – UNIVERSITÀ DEGLI STUDI SASSARI

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