Rischiamo di diventare una democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese
Riflessioni In Italia abbiamo un piacione e ci vuole innamorare
di EUGENIO SCALFARI, su La Repubblica on line di domenica 4 ottobre 2015
Per me è molto noioso dovermi occupare ancora di Renzi ma chi esercita la professione di giornalista ha l’obbligo di capire e raccontare quel che fanno i protagonisti delle vicende politiche. Renzi è tra questi e se c’è un uomo politico che desidera comparire ogni giorno sui media d’ogni colore, questo è lui e non certo Romano Prodi da lui accusato di commettere abitualmente questo peccato. Nel merito Renzi attribuisce a Prodi una posizione che giudica totalmente sbagliata a proposito della guerra in Siria. Il tema è tra i principali e più drammatici di questo agitato periodo: guerre tribali, delitti orribili del Califfato, stragi effettuate da Assad e prima di lui da suo padre, incertezze dell’America e dell’Europa, spregiudicatezza estrema della Russia di Putin e dell’Iran e un intrico in tutto il Medio Oriente, descritto da Bernardo Valli ieri su questo giornale.
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Sul tema Siria, nell’intervista rilasciata al nostro Claudio Tito, Renzi ha detto: “Dubito delle ricette scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che debelleremo l’Is. Occorre un progetto pluriennale, una coalizione che non si limiti ad annunciare qualche raid aereo”. Le ricette semplicistiche sarebbero quelle di Prodi, ma le sue, di Renzi, quali sarebbero? Non esclude affatto l’intervento delle truppe di Assad, ammette che i raid aerei non basteranno a debellare l’Is e auspica una coalizione delle grandi potenze. Un progetto pluriennale. Ma nel frattempo che cosa si fa?
Prodi a sua volta ha detto che “quella in Siria è un fatto determinante e il suo andamento dipende soprattutto dal rapporto tra Usa e Russia. Ma nessuna delle due potenze invierà truppe sul terreno. Aerei sì, truppe no. Quindi il malandato esercito di Assad va rafforzato perché quelle soltanto sono le truppe disponibili sul terreno. Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli bombardamenti aerei l’Is non sarà battuto” . Dunque, su questo problema Renzi e Prodi dicono cose molto analoghe. La sola differenza è che Renzi auspica una coalizione internazionale che di fatto già esiste, sia pure con tutte le contraddizioni che caratterizzano la storia dell’intero Medio Oriente. La differenza è che Prodi è soltanto un osservatore informato di prima mano, Renzi dovrebbe essere un attore ma non lo è perché su questo terreno il premier italiano non viene consultato né dall’America né dalla Russia né dall’Europa. A lui piacerebbe e anche a noi, ma le cose stanno esattamente così.
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Il tema che desidero trattare oggi è quello dei rapporti tra la politica e l’informazione. La questione tra Renzi e Prodi ne è stata una necessaria premessa, ma il tema è molto più complesso e non si pone soltanto nel nostro paese ma dovunque. La politica cerca il consenso, l’informazione racconta i modi con i quali il consenso è ricercato e molte altre cose che con la politica hanno poco o nulla a che fare. Ma c’è di più: per ottenere il consenso la politica cerca di conquistare l’informazione e cioè i giornalisti e i loro editori. L’informazione a sua volta ambisce di influenzare la politica indicandole interessi da tutelare e valori ai quali ispirarsi. Entrambe si sentono depositarie di interessi generali dietro i quali tuttavia si celano spesso interessi particolari dei singoli politici e dei singoli addetti all’informazione.
Aggiungo un altro aspetto tutt’altro che secondario del problema che stiamo esaminando: spesso, in Italia soprattutto, gli editori proprietari di giornali e televisioni ricavano i loro profitti da altre attività economiche prevalenti rispetto a quelle dell’editoria. Il cosiddetto editore puro è una figura prevalente nei paesi occidentali, ma piuttosto rara in Italia, non oggi ma da sempre. Questa situazione caratterizza il rapporto tra politica e informazione, aggravandolo ancora di più se la politica possiede direttamente strumenti informativi di massa.
Per esser chiari ricorderò quanto accadde durante i vent’anni di regime fascista. Il “Popolo d’Italia” fondato da Mussolini, fin dai tempi dell’intervento nella guerra del 1915, era un giornale di partito; ma quando il Duce conquistò il governo instaurò il regime le sue mire furono d’impadronirsi dei grandi giornali d’opinione e della radio. Fondò l’Eiar, servizio pubblico monopolista, e affidò i grandi giornali a gruppi economici e famiglie che barattarono quel beneficio con una completa subordinazione politica al regime. Alla “Stampa” di Torino fu estromesso Frassati al quale subentrò la famiglia Agnelli; al “Corriere della Sera” fu estromesso Albertini e prese il suo posto la famiglia Crespi; al “Messaggero” di Roma la famiglia Perrone, proprietaria dell’Ansaldo e azionista della “Banca di sconto”, si asservì a Mussolini e così accadde anche al “Mattino” di Napoli, alla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari e al “Giornale di Palermo”, al “Popolo di Roma”, al “Resto del Carlino” di Bologna, alla “Nazione” di Firenze. Insomma l’intera stampa italiana, nazionale e regionale, fu in mano a famiglie succubi del regime e spesso titolari anche di altre attività economiche più redditizie dei giornali. Quindi editori “impuri” e politicizzati. Situazioni analoghe si verificarono nella Germania nazista, nella Spagna franchista, nel Portogallo salazariano. Dove esiste la dittatura o una democrazia fragile e anomala, il rapporto tra politica e informazione è assai poco confortante per la libertà.
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L’Italia per fortuna non è un regime, non lo fu ai tempi della Democrazia cristiana né a quelli di Berlusconi e neppure dopo Berlusconi. Renzi è al potere da appena due anni e non mi pare che abbia in mente una dittatura. Vuole comandare da solo, questo sì; vuole un Parlamento “dominato”, questo anche, ma non più di tanto. Del resto siamo anche membri dell’Unione europea, che è ancora una confederazione e quindi sono gli Stati nazionali a decidere le mosse dell’Unione. Nessuno di loro ama l’eventuale prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. Ma comunque l’Unione c’è e chi ha la leadership in Italia deve tenerne conto.
Ciò non toglie che Renzi vuole comandare da solo e non lo nasconde. Non con editti ma con la capacità di farsi amare. A Roma uno come lui lo chiamano “piacione”. È un piacione, è questo che vuole e ci riesce abbastanza. Quando non ci riesce si arrabbia e molti, che non lo amano affatto, fanno finta di esserne innamorati; altri che sono invece incantati dalla sua piacioneria, fanno finta di non esserlo, di sentirsi neutrali, liberi di decidere pro o contro. Così facendo dicono no nelle questioni marginali ma lo appoggiano in quelle fondamentali. Insomma c’è grande confusione in questo paese, col risultato che molti e specialmente i giovani si allontano dalla politica, sono indifferenti, leggono poco i giornali, guardano sempre meno la televisione e i “talk show” in particolare, dove il tema pressoché unico è ormai diventato Renzi magari anche per criticarlo ma l’argomento che predomina è sempre lui. E la gente – i giovani soprattutto – cambia canale o spegne e passa a Internet dove la scelta degli argomenti e degli interlocutori è infinita.
Renzi – l’ho già detto – non vuole un regime. Vuole piacere. Vuole comandare da solo. Vuole ridurre il Senato ad un’agenzia territoriale con 74 eletti secondo le leggi regionali, 21 sindaci di grandi città e 5 nominati dal presidente della Repubblica. Vuole una Camera di “nominati” che si presentano in più circoscrizioni contemporaneamente. Vuole insomma che l’Esecutivo sia nettamente più forte del Legislativo, mentre in una democrazia forte dovrebbe avvenire il contrario. Vuole il cambiamento ma non dice quale. Vuole la sinistra purché sia moderna, alla moda di Tony Blair che ereditò e mantenne viva nella sua essenza la politica della Thatcher, non più di destra ma di centro.
Questo è Renzi. Quanto all’informazione, in Italia è ancora libera ma difficilmente riesce a vincere l’indifferenza, forse perché anche noi stiamo diventando indifferenti e un’informazione indifferente non esiste più.
Il rischio è di diventare una democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese. Un’ampia maggioranza non se ne interessa più, vive per proprio conto e bada alla sua situazione economica. Il resto è chiacchiera, divertimento, tristezza e musica rock. Un tempo era l’età del jazz. Adesso anche il jazz è andato in soffitta.
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