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Da La Nuova Sardegna venerdì 25 settembre 2015
Il fenomeno migranti
La fuga da povertà e guerre, una rifondazione dell’urbanità
di Giovanni Maciocco
Per la vecchia Europa gli immigrati non saranno il problema, ma la soluzione. Cambierà la demografia di territori fin qui destinati alla sola sopravvivenza
Un profilo demografico in declino allarmante dagli anni ’60 ad oggi, un tasso di fecondità molto al di sotto della soglia di stabilità, l’unica area al mondo dove gli ultrasessantaquattrenni sono più numerosi dei bambini, profezie agghiaccianti quasi fantascientifiche dell’avvento di una “pace geriatrica”, una sorta di grande stasi demografica, grigia e inerte (Mark L. Haas, 2007). E, in acuto contrasto con il resto del mondo, la popolazione europea attesa in contrazione di più di 30 milioni di abitanti per la metà del secolo (Pew Research Center, 2014). Ma la grande fuga dalle guerre e dalla povertà cambierà gli scenari e muoverà la demografia dei territori fin qui destinati alla fissità della sola sopravvivenza perché sappiamo da tempo che i numeri in più della migrazione non saranno per la vecchia Europa il problema, ma la soluzione. Trasformare questa demografia in rigenerazione della nostra società è il compito morale e politico che ci attende richiamandoci alla natura socievole dell’essere umano, la natura urbana del celebre richiamo aristotelico, fatta per la vita in città. Imparando anche dal passato, dal chiaroscuro dell’Ottocento in cui ha preso vita la città moderna proprio sull’onda di grandi migrazioni dalla campagna alla città, una fuga dalla povertà indotta dalla rivoluzione industriale. Con gli europei che crescono nel secolo da 195 a 420 milioni e la popolazione urbana dal 12 al 41 per cento. Numeri straordinari per i quali la risposta europea è stata l’”ingrandimento” delle città per fare spazio alle nuove popolazioni e attività, un’accoglienza urbana centrata più che sulla socialità sullo spazio cui affidare il compito terapeutico di guarire la società dagli impatti negativi della rivoluzione industriale. Una realtà assai dura, descritta dalla Londra dickensiana, di modernità industriale e società malata dove i poveri e i diseredati delle periferie degradate sostenevano il progresso al prezzo del proprio disagio. Oggi è la socialità che prende il comando richiamando gli spazi a riconvertirsi sui grandi obiettivi dell’accoglienza e dell’integrazione. Cercando di stare in guardia rispetto alle ombre di un’accoglienza apparentemente integrativa, come quella francese, ma intesa come totale assimilazione ai valori della nazione francese, o quella inglese, “multiculturalista”, il modello Londonistan, semplice presa d’atto della pluralità di comunità tra loro indifferenti e impenetrabili (Angelo Bolaffi, La Repubblica, 10 settembre). Il processo di accoglienza e integrazione dovrà essere perciò un lungo percorso educativo per far crescere spiriti consapevoli e critici: in una parola, cittadini. Cominciando ancora una volta dalla scuola, dove quasi naturalmente si stabilisce un rapporto di uguaglianza, gli individui sentono di far parte di un tutto, le diverse identità trovano lo spazio in cui è riconoscibile l’apporto individuale al bene comune. Non è un caso se nella sua prima mossa di accoglienza Angela Merkel ha immediatamente ordinato la scolarizzazione dei bambini siriani, compagni dei 3 milioni che non vanno più a scuola dall’inizio del conflitto. Che questo avvenga nei luoghi di origine della civiltà urbana scuote la nostra coscienza proprio perché la città è la casa del nostro vivere insieme. È ciò che associamo all’ospitalità, un carattere specifico e costitutivo qui nell’isola, bene comune da intendere ancora nel senso di Elinor Ostrom, il Nobel dell’economia, che assume proprio i beni comuni come riferimento di una gestione sostenibile del territorio e della vita di una comunità contemporanea. Come in un centro del nostro altopiano settentrionale, nel quale si ha la sensazione di stare su una piattaforma sospesa nell’aria, un’acropoli territoriale popolata di isole di granito. Dove le case sono bene comune della collettività destinato all’ospitalità e alla cooperazione sia nella quotidianità locale sia nella straordinarietà di eventi sovralocali. Dove anche la scuola dei bambini era una casa.
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