Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

porcellum2di Francesco Casula

Il sistema elettorale è la cartina di tornasole della qualità e quantità di democrazia di un Pese. Storicamente. Ad iniziare dal sistema maggioritario e uninominale, dell’Italia postunitaria prefascista. Era uno dei principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, dato che i suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a raccogliere senza troppe difficoltà – grazie anche a rapporti personali, di amicizia e di clientele – l’appoggio di un esiguo manipolo di elettori:qualche centinaia. Ricordo che nel 1861 il diritto di voto era riservato all’1,9% della popolazione:esclusivamente ai maschi di 25 anni con determinati redditi e titoli di studio. In Sardegna gli aventi diritto al voto erano 10 mila che salirono a 21.700 con la riforma elettorale del 1882, la cui percentuale salì in Italia al 6.9%.
I grandi partiti democratici di massa: il Partito popolare e soprattutto il Partito socialista si batterono allora per il suffragio universale perché, – canterà il nostro Peppino Mereu – “senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales/ Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/ sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende”.
Con l’introduzione del suffragio universale (maschile) nel 1913 e del sistema elettorale proporzionale nel 1919, il vecchio sistema politico finì gambe all’aria e si affermarono proprio il Partito Socialista e quello Popolare, che si erano battuti contro il Partito dei notabili, delle clientele, della corruzione e della malavita e dunque, contro il sistema uninominale e maggioritario che lo favoriva.
Fu il Fascismo – non a caso – da meno di un anno al potere, ad abolire il sistema proporzionale e a reintrodurre un particolare maggioritario. Il Governo di Mussolini infatti, fra il luglio e il novembre del 1923, fece approvare alla Camera e al Senato una nuova legge elettorale – detta Legge Acerbo, dal nome del proponente ed estensore, un sottosegretario – che introdusse un premio di maggioranza: avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi 356 (alla Camera) la lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti e il restante terzo, da ripartire su base proporzionale, alle liste rimaste soccombenti. Il disegno era chiaro: eliminare di fatto ogni ipotesi di opposizione parlamentare, assicurarsi una maggioranza assoluta, accrescere l’indipendenza del potere esecutivo, preparare un regime a partito unico. Esattamente ciò che tragicamente si avvererà e si realizzerà.
Caduto il Fascismo e ritornata la democrazia, ancora una volta, non a caso, si opterà di nuovo per il sistema proporzionale. Cercò di attentare a questo sistema nel 1953 De Gasperi, che per garantire alla DC e ai suoi alleati una maggioranza in grado di mantenere la stabilità governativa su una linea centrista, fece approvare in Parlamento una legge che assegnava il 65% dei seggi alla Camera, al partito o al gruppo di partiti che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti. Sandro Pertini dopo l’approvazione della legge si recò dal Presidente della Repubblica Einaudi chiedendogli di non firmarla. La firmò ma i risultati elettorali impedirono lo scatto di quella legge (i quattro partiti di centro, apparentati, ottennero solo il 49,85% dei voti) ma i partiti di sinistra la battezzarono ugualmente legge-truffa.
Il 9 Giugno del 1991 fu svolto il Referendum voluto da Segni: più del 90% degli italiani – ma al Sud votarono solo il 55,3% degli elettori e al Nord il 68,3 – si espressero a favore di un sistema maggioritario corretto (il 25% dei seggi veniva assegnato ancora su base proporzionale) e uninominale. Il nuovo sistema elettorale fu incarnato nel Mattarellum del 1993. Segnatamente su tre punti si scatenò allora la propaganda e la demagogia dei referendari: la lotta alla partitocrazia, il rapporto diretto fra eletto ed elettore, e la“governabilità”. Ma nessuno di questi obiettivi fu raggiunto.
Il Mattarellum fu sostituito dal Porcellum – nomen omen! – utilizzato nelle elezioni del 2008 e contenente tre elementi fortemente antidemocratici. Primo: non ha permesso all’elettore di scegliere i propri rappresentanti. Questi, di fatto, sono “nominati” dagli oligarchi dei Partiti: il cittadino, mancando il voto di preferenza, deve solo stabilire le quote spettanti ai partiti stessi. Secondo: grazie allo sbarramento (4%) vengono estromesse dal Parlamento forze politiche storiche importanti. Terzo: assegna uno smisurato premio di maggioranza alla coalizione che ha preso più voti. A prescindere dalla percentuale.
Come ognuno può avvedersi si tratta di una legge che lede acutamente il principio di rappresentanza, tanto che molti costituzionalisti ritennero già da allora che contenesse elementi di anticostituzionalità. Come puntualmente la Corte costituzionale stabilirà, sia pure in grave ritardo nel 2014.
Arriviamo così oggi all’Italicum, fotocopia del Porcellum, da cui eredita tutte le nefandezze. Un vero e proprio Superporcellum, per di più approvato da una maggioranza parlamentare ristrettissima, alla faccia del principio secondo il quale “le Regole” si decidono insieme e con la più ampia maggioranza possibile.
Una legge che avvia e segna un processo autoritario e un presidenzialismo de facto, impastata com’è della cultura del capo. Parte integrante di tale progetto è il neocentralismo statuale con l’attacco forsennato alla Autonomie locali e la delirante proposta di abolizione delle Regioni o comunque di un loro ridimensionamento e depotenziamento.
Il Pd è il paladino di questo ciarpame di incultura e di perversione della rappresentanza, della democrazia, della libertà e dell’Autonomia , di cui storicamente ne è stata titolare e depositaria la Destra.
Combattere e liquidare tale paccottiglia restauratrice renziana è urgente: non risolveremo certo la crisi della politica ma sicuramente potremmo mettere una diga perché essa non si inabissi definitivamente nella melma.
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congresso di Vienna restaurazione

RESTAURAZIONE
di Luigi Pintor
Neanche dopo la caduta di Napoleone fu possibile una piena restaurazione del vecchio regime. Così c’è scritto in un vocabolario ragionato della lingua italiana a proposito del concetto storico-politico di restaurazione. Un concetto dunque impreciso e relativo che non so se si possa correttamente applicare al clima politico italiano degli ultimi mesi. Anche perché una restaurazione presuppone una rivoluzione che in Italia non c’è stata, se non per via giudiziaria o ingegneristica.
Però non trovo termine migliore (regressione? reazione? basso impero?). Considerando il gioco politico in senso stretto, il teatro di palazzo, sembrerebbe di essere tornati al CAF, se non fosse che Craxi è molto malato e Forlani è affidato ai servizi sociali. Ma l’assoluzione giudiziaria e la riabilitazione politico-morale di Andreotti, elevato a maestro di vita e a simbolo di innocenza di tutti i malfattori della repubblica, nonché la restituzione a Cossiga del ruolo di arbitro della legislatura e di interlocutore privilegiato della sinistra di governo, ci riportano indietro nel tempo come nei film di fantascienza a puntate. Con un pizzico in più di gerontocrazia che non guasta e che ci ricorda (sebbene non c’entri niente) la muffa del socialismo reale.
Una restaurazione della Dc e del suo regime cinquantennale non è pensabile (neanche dopo la caduta di D’Alema, che non è Napoleone). La Dc degasperiana e il suo regime sono stati una cosa corposa, fondata su un patto di ferro con la borghesia post-fascista e con i poteri forti (il “quarto partito” confindustriale, oltre che l’America), e su un consenso di massa clerico-popolare che era parte integrante della cultura nazionale. Aveva anche più anime, tutte anticomuniste ma non tutte volgari, non estranee alla stagione antifascista e ancor meno a quella Costituente (nonostante l’agnosticismo sulla questione monarchica). Un giorno che in televisione mi capitò di definire la Dc il partito politico più corrotto d’Europa, il viso perennemente disgustato dell’on. Moro si incupì e rispose che no, che il suo partito era una grande forza popolare, né tutta corrotta né tutta reazionaria.
Oggi quelle anime sono spezzoni o schegge (asinelli, trifogli, buttiglioni e mastelli) e il Ppi esiste solo perché ha ereditato un nome e perché ha un bravo ministro della sanità. Andreotti e Cossiga sono soltanto gli esponenti sopravvissuti dell’anima nera democristiana (che sbagliammo a identificare in Amintore Fanfani). Diversi tra loro, si contendono a pari merito il primato dell’intrigo politico nella storia della prima Repubblica ma, nonostante la reverenza cortigiana di cui sono di nuovo circondati, restano dei sopravvissuti. Si direbbe che D’Alema non conosca, tra le altre cose, neppure la storia recente del suo partito d’origine, se no dovrebbe ricordare che Andreotti e Cossiga (con l’unità nazionale e con i comportamenti successivi, prima e dopo la morte di Moro) intrappolarono Berlinguer che ne fu sdegnato e ruppe ogni rapporto, accusando se stesso di imperdonabile ingenuità. Perché D’Alema abbia riabilitato il picconatore come interlocutore privilegiato è un mistero italiano (così com’è un mistero, o forse una scoperta, o forse una prova della verità, la larga intesa tra il picconatore e Armando Cossutta).
Anche ipotizzando (ipotesi di terzo grado) che i personaggi e le schegge della vecchia Dc si accorpino, non perciò avrebbero qualche probabilità di riconquistare una centralità e di calamitare l’elettorato moderato o popolare. Il posto di prima classe, lo scompartimento riservato, se non l’intero treno compresa la locomotiva, sono già prenotati e occupati dal Polo e dalla persona di Silvio Berlusconi, e anche molta gente dell’attuale maggioranza preme per salire nei vagoni merce. La definizione è scientificamente imprecisa, ma la “democristianità” del 2000 ha il nome e l’impronta di Arcore. Dal 1948 al 2000 è trascorso mezzo secolo, con un mutamento epocale del mondo globalizzato, la società italiana non è quella fideista del dopoguerra ma quella carnale che si quota in Borsa, e il berlusconismo come fenomeno di massa ha radici e connotati modernisti ovviamente sconosciuti alla tradizione democristiana. Ma aderisce allo spirito del tempo e ne è espressione, come una gigantografia del craxismo.
Questo fenomeno, in verità, non è mai stato indagato a fondo e viene catalogato come transizione a una seconda Repubblica, sebbene non abbia nulla di una res publica e tutto di una res privata. Ciò che viene restaurato del passato è essenzialmente l’immoralità politica, peraltro mai debellata, e con essa i suoi esponenti storici. Sotto l’usbergo del “giusto processo”, in sé nobile, si decreta quell’amnistia, quel colpo di spugna, quella sanatoria, che non sarebbe stato decente proclamare apertamente. E quel che si rivaluta non è il passato remoto della Dc e del Psi come partiti di massa ma il loro passato prossimo. Una rilegittimazione che il partito di Veltroni concede agli altri negandola a se stesso, fino a giudicare Lenin un mongoloide liberticida.
Questo tipo di restaurazione non è antitetica e neppure concorrenziale all’ascesa berlusconiana, vistosissima nelle elezioni europee e amministrative di giugno e prevedibile nelle elezioni presidenzialiste regionali. Dovendo scegliere tra un tizio e un sempronio indistinguibili, quote crescenti dell’elettorato volteranno le spalle, in un clima a-democratico e a-sociale che è il riflesso istituzionale della flessibilià del lavoro, degli squilibri territoriali, della disoccupazione giovanile (con o senza casco), delle privatizzazioni generalizzate, delle distanze africane di status e di reddito, ossia del liberismo selvaggio (dove l’aggettivo è superfluo, il liberismo essendo selvaggio per natura). Viviamo in un paese dove le pensioni sociali di settecentomila persone vengono aumentate di un bicchiere di latte al giorno (18mila lire al mese), per un costo complessivo annuo che equivale al salario di quattro Schumacher. Le lotterie giganti, il gioco d’azzardo soft, assicurano allo Stato e alla sinistra etica che ci governa il prelievo fiscale corrispondente. Non fa meraviglia che Berlusconi sia il leader naturale di questo paese.
Quando la sinistra di governo perderà, meritatamente, il suo primato elettorale artificioso e il bastone di comando così malamente agitato, è improbabile che dia vita a un’opposizione. Ha bruciato troppi vascelli alle proprie spalle, ha praticato il trasformismo con troppo gusto, non potrà avversare dall’opposizione le politiche di un regime di centro-destra con cui si è immedesimata governando il paese. D’Alema e Veltroni non proverebbero nessun piacere riverniciando le Botteghe Oscure e potando l’Ulivo, dopo l’estasi provata in questi anni nell’imbiancare palazzo Chigi e nell’isterilire la quercia.
Questa nuova sconfitta che ci aspetta potrà essere salutare se la sinistra critica, oggi ancora disorientata e atomizzata, supererà il senso di inadeguatezza e di impotenza che la attanaglia e arriverà all’appuntamento riaggregata, visibile e operante. Il famoso “fatto nuovo” (che già mi è capitato di auspicare e forse oggi comincia ad apparire meno velleitario di ieri). È superfluo elencare le forze disponibili, l’area della sinistra critica va intesa al di là di una sommatoria di sigle, e per definirla mi bastano le discriminanti indicate da Bertinotti: contro la guerra e contro il liberismo.
Resisto alla tentazione di aggiungerne altre, salvo una: contro la corruzione, o meglio il corrompimento materiale e ideale di cui si nutre il sovversivismo delle classi dirigenti e che si direbbe una costante della storia nazionale. La questione morale come questione politica non fu solo una ossessione di Berlinguer, prima di lui fu quel noto liberticida di Gramsci a prospettare dal buio di un carcere una riforma intellettuale e morale.
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manifesto rivista 1999 numero 1 dicembre 1999
Editoriale

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