in giro con la lampada di aladin su balentia o presunta tale…
- Balentes? No, balordos. Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Balentes? No, balordos
di Andrea Pubusa, Democraziaoggi
A metà degli anni ‘80 si sviluppò all’interno della sinistra e del gruppo regionale del PCI una discussione sulla natura della delinquenza minorile in Barbagia. Vi era chi rilanciava l’idea di una malintesa “balentia”, distinguendola nettamente dalla criminalità delle periferie metropolitane. Già allora, con Tonino Dessì ed altri, sostenni, controcorernte, che, in realtà si trattava di una trasposizione, in un’area marginale, della criminalità delle periferie degradate delle grandi città. Certo, con un adattamento al diverso ambiente, ma senza ormai alcun collegamento con i temi dell’ordinamento barbaricino di cui ci ha parlato con sapienza Antonio Pigliaru.
La disputa ovviamente partiva da una diversa analisi della situazione. I nostri contraddittori ritenevano che la Barbagia mantenesse i suoi tratti sociali di fondo, benché investita da una trasformazione anche industriale. Per noi la Sardegna si presentava ormai solo con una testa (Cagliari) e con altri punti di aggregazione, mentre il resto iniziava a diventare periferia senza coesione e vita comunitaria, senza regole. Un codice, ancor più quello barbaricino descritto da Pigliaru, necessita di una comunità strutturata e con una forte identità, perché le regole non sono eteroimposte, non scendono dall’alto, dal sovrano o dal governo, ma sono un prodotto sociale e s’impongono per una forza e una giustificazione sociale. E la forza delle regole e della comunità è tale che il codice e le sue sanzioni, compresa la vendetta, s’impongono addirittura contro quelle dell’ordinamento ufficiale, statuale.
Ora, di tutto questo cos’è rimasto nei nostri paesi. Nulla. Non solo, i piccoli centri dell’interno sono solo delle entità geografiche, delle aree di fuga, dei non luoghi dal punto di vista comunitario, dove chi non può scappare rimane, partecipe di un’anomia che è normalmente di gran lunga più alienante di quella delle città, dove in cerchie intellettuali o categoriali un po’ di vita sociale esiste.
L’altro giorno parlavo con una mia tesista, intelligente e vivace, figlia di un compagno, già sindaco di un noto paese della Barbagia, schierato contro lo spopolamento dell’interno. Ho subito appurato che la famiglia non abita più in paese, che torna ogni tanto solo perché ci vive la nonna, e che alla morte di questa non ci andrà neppure per le feste. Questa ragazza vive in città e vuol vivere in città. Stessa storie per le sue amiche e amici d’infanzia. Le ho chiesto come vede il futuro del suo paese. Non ne vede. Le ho suggerito che l’unica salvezza sarebbe farli “invadere”, quei paesi in abbandono, dai migranti. Ha osservato, sconsolata, che anche quelli vogliono andare nelle aree forti dell’Europa. In questo contesto, in cui lo Stato si ritrae, elimina scuole, servizi postali, perfino le caserme, cosa resta? Mi ricorda lo sfaldamento delle tribù indiane americane, che nella loro fase terminale, senza bisonti e libere praterie, persero le loro grandi virtù e il loro straordinario valore, e manifestarono, fra alcool e subalternità senza sbocco, un degrado, poi riprodottosi in forme diverse nelle periferire marginali urbane degli States.
Prima ce ne convinciamo e meglio è. Oggi esiste una Sardegna per i turisti continentali, quella dei libri di Niffoi e dei raccontini di “sardità” ad effetto, alimentata spesso da sovranisti da strappazzo, e una Sardegna reale, quella della crisi e del degrado periferico. Chi ammazza un giovane per un banale diverbio per una ragazza, che c’entra con la balentia, pur sempre espressione di un valore sociale? No, chi fa questo è un balordo, punto e basta. E il rimedio, in termini, sociali non sono i ritorni impossibili ad un mitico passato, e tantomeno le carceri e le caserme. Meglio le scuole e il lavoro. Quelli che Pigliaru minor e il governo nazionale comprimono.
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