L’IO UTENTE dei MASS-MEDIA. RAPPORTO sulla COMUNICAZIONE
di Vanni Tola
La nostra società, il nostro mondo, è fortemente caratterizzato dall’impiego dei mezzi di comunicazione di massa che – fin dai tempi dell’invenzione della stampa e dello sviluppo di strumenti di comunicazione sempre più evoluti – hanno condizionato lo sviluppo sociale dei popoli. Molto opportunamente quindi il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) e Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana) proseguono la loro opera di monitoraggio dei consumi dei media, iniziata nell’anno 2000, pubblicando la dodicesima edizione del Rapporto Censis-Usci sulla comunicazione (Franco Angeli editore, Aprile 2015).
Analizzare il rapporto aiuta a comprendere alcune caratteristiche fondamentali della nostra società che è stata oggetto di una grande trasformazione sociale che pone al centro del sistema l’io utente, il consumatore di media, attraverso processi di costruzione multimediale dell’informazione personalizzata, lo sviluppo di valori simbolici associati ai nuovi device tecnologici, l’avvio del nuovo ciclo dell’economia della disintermediazione digitale. Niente panico, al di la delle definizioni apparentemente poco comprensibili, tutto appare più chiaro cominciando a scorrere i dati contenuti nel rapporto. Abbiamo assistito, soprattutto nell’ultimo decennio, a una grande trasformazione dei media. Il 71% degli italiani utilizza Internet, l’85,7 % dei giovani sotto i 30 anni utilizzano gli smartphone, il 36,6 % il tablet. È iscritto a Facebook il 50,3% dell’intera popolazione (il 77,4% dei giovani under 30), YouTube raggiunge il 42% di utenti (il 72,5% tra i giovani) e il 10,1% degli italiani usa Twitter. La Televisione resta ancora il media più diffuso ma la diffusione del web ne contrasta il primato. La web tv ha raggiunto un’utenza del 23,7%, la mobile tv l’11,6 %, le tv satellitari consolidano la loro fascia di utenza intorno al 42,4% e un buon 10% di italiani utilizza regolarmente la smat tv connessa in rete.
L’altro storico mezzo di comunicazione di massa, la radio, mantiene sostanzialmente il proprio serbatoio di utenti ( 83,9%) ma l’ascolto avviene oramai anche per mezzo dei telefoni cellulari (+ 2%) e via Internet (+2%). Molto maggiore appare l’incremento dell’uso degli smarphone (+12,9%) che sono impiegati regolarmente da oltre la metà degli italiani e l’aumento del numero di tablet utilizzati da oltre un quarto della popolazione. Sulla rete si diffonde sempre più la ricerca di informazioni, la pratica di acquisti, il disbrigo di pratiche di vario genere. Naturalmente tutto ciò accade a discapito di altri mezzi di comunicazione tradizionali, pure importanti, che fanno registrare dei cicli negativi. E’ il caso della carta stampata. Prosegue la flessione del numero di lettori dei quotidiani (meno 1,6% rispetto al 2013), mantengono il numero di utenti i giornali settimanali e mensili mentre aumentano i lettori di quotidiani on line (+ 2,6%) e di altri portali web di informazione (+4,9%). Soltanto un italiano su due ha letto almeno un libro nell’ultimo anno mentre cresce il numero dei lettori degli e-book che è ancora limitato all’8,9 % dei potenziali utenti. Un’altra importante caratteristica nell’evoluzione dei consumi di media è rappresentata dal crescente primato dell’informazione personalizzata. Per informarsi gli italiani utilizzano i telegiornali (76,5%), i giornali radio (52%), i motori di ricerca su Internet (51,4%), le tv all news (50,9%) e Facebook (43,7%). Gli aumenti di utenza di queste che rappresentano le principali fonti di informazione, sono notevolissimi: 34,6 % delle tv all news, 16,9 % Facebook, 16,7 % le app per smartphone, 10,9% YouTube, 10% i motori di ricerca nel web. Nella fascia giovani della popolazione l’ordine di importanza di tali media si differenzia. Facebook è per i più giovani il principale strumento di informazione (7,1%) seguito dal motore di ricerca Google (68,7%), e dai telegiornali (68,5%). La quota di utenti della rete si attesta, per i giovani al 91,9 % mentre tra gli anziani non supera il 27,8 %. Discorso analogo vale per l’impiego dei telefonini smatphone, di Facebook, di Youtube e delle web tv. Unico dato in controtendenza riguarda l’uso dei quotidiani che è decisamente superiore tra gli ultrasessanticinquenni (54,3%) e ampiamente inferiore tra i più giovani (27,5%). Le conclusioni del Rapporto sulla Comunicazione ci restituiscono un’immagine della società profondamente modificata rispetto ai decenni precedenti con cambiamenti che hanno influenzato notevolmente l’organizzazione socio-culturale e le stesse condizioni di vita della popolazione. Sempre più persone utilizzano Internet per la ricerca di strade e località, per la ricerca di informazioni su aziende, prodotti e servizi, per effettuare operazioni bancarie, per attività ludica e ascolto di musica. Oltre 15 milioni di italiani effettuano acquisti sulla rete, guardano film, cercano lavoro, telefonano utilizzando Skipe o altri servizi voip, interloquiscono con la pubblica amministrazione senza intermediazioni di terzi. Le prospettive future saranno caratterizzate sempre più dalla “disintermediazione digitale” che, con il crescente impiego dei nuovi media, sposterà valore dalle filiere produttive e occupazionali tradizionali in nuovi ambiti che si vanno sempre più delineando.
—————————————————————– Fatti non foste a viver come bruti
“… Non vogliate negar l’esperienza
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza”
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno canto XXVI, 116-120)
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra… e pensiamo al “che fare”
Caro Presidente, e se fosse la Sardegna la terra di accoglienza che cercano?
di Marco Meloni
Caro Presidente,
Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?
Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando.
Scrivo a Lei, chiamato a governare la nostra Isola in difficoltà, dove una crisi strutturale sembra impedirci di declinare i verbi al futuro, le scrivo perché la nostra sofferenza e paura non diventino cecità. Poche settimane fa al centro del dibattito politico sardo discutevamo animatamente del ridimensionamento scolastico. Nel dibattito le ragioni di chi cerca di difendere ogni scuola anche nei piccoli centri, per la fondamentale funzione educativa e motivazioni sociali, si confrontavano e si scontravano con le ragioni di chi vorrebbe rendere maggiormente efficiente un sistema ridimensionato nei finanziamenti e ancor di più nei numeri dei fruitori. Chiedendoci se fosse giusto mantenere multiclassi con pochi alunni, ci si è reciprocamente accusati di uccidere i comuni da una parte e di barattare lo sviluppo dei nostri giovani per interessi locali dall’altra. Sullo sfondo però, la vera questione è e continuerà ad essere lo spopolamento dell’intera nostra regione, soprattutto nelle sue zone interne. Nel 2014 in Sardegna il numero di morti supera quelle delle nascite di 3.344 persone. La nostra crescita naturale (per mille abitanti) è stimata a -2,3 , in un anno ogni mille sardi sono nati appena 7,1 bambini. (dati Istat) A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. Paesi come Armungia, Sini, Bortigiadas, Ussassai, Borutta e tanti altri rischiano di scomparire, molti invece, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.
Metto a confronto i due fenomeni, in un triste ossimoro, coerente con la nostra epoca di disequilibrio ma incoerente con la ragione umana. E le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio.
Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.
Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra.
Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo.
Certamente l’Europa deva essere chiamata a fare la sua parte e la comunità internazionale, ONU in primis, non può voltare le spalle a questa emergenza umanitaria. Ma, nel frattempo, abbandoniamo il nostro solito attendismo e dipendenza per dare risposte di impegno e solidarietà a livello locale.
Dimostriamo che la nostra identità non è racchiusa solo in celebrazioni storiche, sagre e nei maialetti in viaggio per l’EXPO. Identità è differenza che arricchisce, oggi vorrei che sapessimo esprimerla con una scelta coraggiosa e umana. Oggi in questo vorrei sentirmi diverso, vorrei orgogliosamente sentirmi sardo.
Marco Meloni
“buonista”
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economia e ambiente
Migrazioni, per governarle serve la cooperazione internazionale
di Antonio Canu, La Nuova Sardegna 1 maggio 2015
Le migrazioni sono sempre esistite. Sono una legge naturale. Ci si sposta per trovare condizioni migliori. O per sfuggire al pericolo. Migrare è una forma di adattamento alle condizioni non più accettabili di un territorio, o troppo sfavorevoli, per ragioni fisiche, climatiche, biologiche. In passato l’uomo migrava in cerca di prede o di nuovi spazi. Poi in cerca di luoghi adatti ad insediare comunità più organizzate. Quindi per fuggire a scontri, guerre, persecuzioni. Povertà. Chi oggi commenta con lucida freddezza o perfino sarcasmo le migrazioni, dovrebbe fare un ripasso di storia. Migrazioni forzate erano quelle degli schiavi e chi ancora oggi fugge alla morte. Migrazioni volute anche quelle di tanti nostri avi e perfino parenti in cerca di fortuna in altre parti del mondo. Migrazioni necessarie quelle delle popolazioni che sfuggono a condizioni ambientali critiche se non insostenibili. Saranno proprio queste le migrazioni più intense nei prossimi decenni. E il paradosso, o la beffa, è che proprio la parte di mondo che ha sfruttato al peggio le risorse del Pianeta, causa di trasformazioni epocali, si trova oggi a gestire il flusso migratorio. Il quale, anche a sentire i commenti di questi giorni, viene considerato come se fosse un fenomeno estraneo ad un processo storico che ha arricchito una parte del mondo, affamando e impoverendo l’altra. I cambiamenti climatici in atto, conseguenza di un modello di sviluppo dimostratosi non sostenibile, stanno già provocando migrazioni di milioni di persone. Non di centinaia, o migliaia. È accaduto – e accade – durante gli eventi meteorologici cosiddetti estremi – uragani, tempeste, siccità – che hanno provocato, oltre a migliaia di morti, vere e proprie fughe dalle terre di residenza. Nel solo 2008 hanno riguardato 20 milioni di persone. Tra il 2010 e il 2011, 42 milioni. La migrazione prossima, quella che prenderà relativamente più tempo ma sarà più imponente, è quella che riguarderà chi fugge dalle zone costiere inondate dall’innalzamento del mare e da quelle troppo aride per abitarvi. Destinazione l’interno e le aree più fertili e le città. Ci sono già stime parziali, comunque impressionanti. Secondo l’Imo (l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) saranno da un minimo di 25 milioni fino a 1 miliardo le persone che migreranno dal Sud verso il Nord del mondo, perché questa è la rotta. Secondo l’Onu, saranno 200 milioni nel 2050. Cosa accadrà, allora? Il modo peggiore per affrontare questi scenari è considerare i flussi in movimento come una minaccia, un pericolo, una catastrofe. Mai come in questi casi, la cooperazione internazionale è fondamentale. Intanto impegnandosi ad eliminare le cause che sono all’origine dei cambiamenti. Dal ridurre le emissioni di gas serra a sospendere la deforestazione, a fermare lo sfruttamento senza regole delle risorse terrestri e marine. Quindi sostenere chi governa sui territori vulnerabili quelle politiche di mitigazione degli impatti e di adattamento alle nuove condizioni che sono alla base per affrontare i mutamenti in atto. E poi investire in sistemi di gestione che siano davvero sostenibili, nel generare energia, nell’approvvigionamento dell’acqua, nel produrre cibo. Come disse Kofi Annan, l’ex Segretario generale delle Nazioni Unite : “I paesi più vulnerabili hanno meno capacità di proteggersi. Sono anche quelli che meno contribuiscono alle emissioni globali di gas serra. In assenza di provvedimenti, saranno loro a pagare un alto prezzo per le azioni altrui”. Ecco perché molte cose affermate in questi giorni, seppure in un contesto diverso, ma comunque riconducibile ad un fenomeno globale, non hanno senso, sono frutto di una visione della realtà che non riconosce un passato e non prevede un futuro.